interventi

Pluralismo, bipolarismo, laicità

Intervento al 2° Convegno nazionale di studi dei Cristiano Sociali - Assisi, 1 ottobre 2004

Tra le cose più belle della vita, c’è quella di vedere come il lavoro che si è fatto vada avanti, prosegua attraverso altre persone. Per questo sono contento di poter esprimere tutta la soddisfazione e la gratitudine a chi ha lavorato e continua a lavorare per questa iniziativa di Assisi - che sta diventando ormai una bella tradizione - perché attraverso di essa si vede come il movimento dei Cristiano Sociali resti una realtà viva, una realtà che è in grado di dare tanto, pur nell'umiltà che l’ha sempre contraddistinta, al nostro partito, alla coalizione di centrosinistra e - chissà - a tutti gli uomini di buona volontà.

Quel che più conta, in iniziative come questa, è poter vivere un’esperienza, come quella che si vive in queste giornate un po’ faticose e tuttavia interessanti, di collegamento tra la società e la politica. Vorrei allora proporvi di mettere in relazione la società e la politica attraverso tre parole chiave, che a me sembrano le parole più importanti che sono emerse anche da questa mattinata di lavori.

Le tre parole sono queste: la prima è "pluralismo", la seconda è "bipolarismo", la terza è "laicità". Queste sono le tre parole-chiave attraverso le quali noi oggi possiamo guardare al rapporto tra società e politica in termini corretti e moderni al tempo stesso.

La prima parola-chiave è "pluralismo". Anzitutto pluralismo istituzionale: le istituzioni democratiche sono diverse per missione, per compito, per responsabilità e ciascuna nel suo ordine ha la medesima dignità. Se questo è vero, non si può non giudicare sbagliato, perché frutto di una certa subalternità culturale, l'atteggiamento autocritico che si sta diffondendo a proposito della riforma del titolo quinto della Costituzione, varata dall'Ulivo nella scorsa legislatura. Possiamo aver sbagliato nel metodo, per aver impresso un’accelerazione brusca alla fine della legislatura, per aver inserito elementi di strumentalità politica nella riforma della Costituzione - e di questo dobbiamo chiedere scusa al Paese. Ma non dobbiamo chiedere scusa delle nostre ragioni, le ragioni per le quali abbiamo perseguito un disegno di riforma costituzionale in chiave pluralistica. Quando si dice che "la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato", come recita il nuovo articolo 114, non si opera nessuna forzatura, si esprime una cultura democratica e federalista, la stessa che già ispira il testo del 1948 e che noi abbiamo voluto meglio evidenziare nel nuovo testo, come fondamento di quel più incisivo trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e alle autonomie locali, che è il cuore della riforma del titolo quinto. Una riforma, è bene notare, che non solo aveva alle spalle un grande dibattito e l'elaborazione bi-partisan nella Bicamerale D'Alema, non solo era condivisa dalla stragrande maggioranza dei presidenti di Regione e di Provincia e dei sindaci, non solo è stata confermata dal referendum popolare, ma è stata lasciata pressoché inalterata dall'attuale maggioranza di centrodestra. Segno che, anche sul piano del metodo, se colpo di maggioranza vi fu, fu assai più nella forma che nella sostanza.

Accanto al pluralismo istituzionale, c'è il pluralismo sociale. Su questo punto, non ho molto altro da dire, oltre a dichiarare di condividere pienamente ciò che qui ha detto, poco fa, Savino Pezzotta. C’è stato qualche passaggio critico, in questi anni, nel quale anche per noi non è stato facile stare dalla parte delle ragioni della Cisl, nel centrosinistra e nei Ds in modo particolare. E tuttavia, ancora una volta, si è visto che quella cultura pluralista, che una volta Mario Colombo ebbe a definire la "splendida anomalia" della Cisl, e che oggi Pezzotta ci ha richiamato con tanta passione e con tanta lucidità, si è rivelata più lungimirante di altre culture - che potremmo definire "moniste" - che pensavano ad un fronte unico, politico-sindacale, per abbattere con una spallata il Governo Berlusconi. La politica della spallata è illusoria, perché la cultura monista è sbagliata. La cultura giusta e quindi anche quella più feconda, in termini democratici, è la cultura del pluralismo sociale, quella che fonda la forza e l'autorevolezza del sindacato sulla sua autonomia, da tutte le forze politiche, dal Governo, come dall'opposizione. Pezzotta ha detto anche, giustamente e saggiamente, che le diverse culture sindacali devono coesistere e lavorare insieme, trovare insieme un punto di vista comune. Ma guai a noi se considerassimo estranea al centrosinistra e anche al nostro partito, ai Ds, la cultura pluralista di cui Savino Pezzotta oggi ci ha parlato. Credo che uno dei meriti, forse uno dei meno riconosciuti, ma dal mio punto di vista uno dei più importanti, della segreteria di Fassino, sia stato quello di aver riconosciuto piena cittadinanza alla cultura cislina del pluralismo e dell'autonomia sindacale, nel centrosinistra e soprattutto nel nostro partito, che tradizionalmente aveva sempre privilegiato come interlocutore un'altra cultura sindacale.

Il pluralismo è anche un modello di democrazia. Tocqueville, nelle sue celeberrime riflessioni sull’America, scrive che "è inutile chiamare un popolo a scegliere ogni tanto i rappresentanti del potere, perché questo raro e breve esercizio del suo libero arbitrio, per quanto possa essere importante, non gli impedirà di perdere gradualmente la facoltà di pensare e sentire e agire per sé. Ben presto diventerà incapace di esercitare il grande e unico privilegio che gli rimane (e cioè il voto). Le nazioni democratiche, che introdussero la libertà nella sfera politica, nel momento in cui aumentavano il dispotismo in quella amministrativa furono portate a strani paradossi. Se si devono trattare affari minori per cui tutto quello che si richiede è il buon senso, il popolo è ritenuto impari al suo compito, ma quando è in palio il governo di tutto il paese, il popolo è investito di poteri immensi, il popolo diventa alternativamente il trastullo del sovrano e il padrone di sé stesso: più che re, meno che uomo. Dopo avere esauriti i vari sistemi di elezione senza trovare quello che loro convenga, le nazioni democratiche insoddisfatte continuano a cercare come se il male che hanno rilevato non dipendesse dalla costituzione del paese piuttosto che da quella del corpo elettorale. Perciò è difficile capire come uomini che hanno completamente perso l’abitudine dell’autogoverno riuscirebbero a scegliere propriamente coloro da cui devono essere governati". Ecco il punto, toccato da Tocqueville: il popolo che ha perso l’abitudine all’autogoverno non può che scegliere male coloro da cui deve essere governato. Allora c’è un rapporto strettissimo tra una cultura civile e politica diffusa, cioè la politicità del popolo, e l’esercizio della democrazia. Per questo il pluralismo delle istituzioni è fondamentale e l’esercizio dell’autogoverno è fondamentale: anche per evitare che l’esercizio del voto degeneri in quello che abbiamo chiamato tante volte il modello "plebiscitario" e cioè si sceglie un padrone e poi ci pensi lui.

Seconda parola-chiave, il "bipolarismo". Noi Cristiano Sociali siamo nati nel bipolarismo, per noi il bipolarismo, la democrazia competitiva, è l’acqua nella quale nuotiamo, l'aria che respiriamo. Anche per questo, siamo sempre stati totalmente contrari a qualunque rigurgito neo-proporzionalista, a qualunque sentimento di nostalgia rispetto ad una politica che non era bipolare e competitiva: perché non consentiva - per usare le parole di Ruffilli - al cittadino di esercitare la funzione di arbitro, ma lo costringeva a limitarsi ad esprimere una delega in bianco a questo o quel partito, senza poter decidere sul governo: dal Comune, fino allo Stato. Da più parti, soprattutto nel mondo cattolico, si sente vagheggiare l'unità al centro di tutti i moderati e l'esclusione di tutti gli estremisti. Si tratta di un sentimento comprensibile, dinanzi allo spettacolo spesso mortificante, di un bipolarismo primitivo, incapace di andare oltre la demonizzazione reciproca, verso un vero confronto politico-programmatico, una competizione virtuosa tra alternative convergenti. Ma se il sentimento si traduce nella proposta di una riedizione del governo "dal" centro, non possiamo non dire che la proposta è sbagliata, perché ignora l'esigenza vitale di qualunque democrazia: quella del ricambio, della competizione, che solo il bipolarismo può rendere possibile. E senza ricambio, senza competizione, la democrazia si corrompe, degenera in oligarchia, in potere inamovibile e soffocante.

Noi siamo per il bipolarismo competitivo, anche perché crediamo in una politica decidente: la politica deve decidere. Non è contraddittorio valorizzare il pluralismo sociale e guardare a un modello politico decidente, perché se non decide la politica, decide qualcun altro e mentre la politica può essere determinata attraverso il percorso democratico, può essere incanalata nel percorso democratico, altri poteri non sono democratici. Una politica debole non è un potere debole, è un potere forte altrove rispetto alla politica. Per questo noi ci siamo sempre battuti, dal movimento referendario in avanti e in tutta la vicenda delle riforme costituzionali, per dotare l'Italia, come gli altri grandi Paesi europei, di un potere politico capace di esercitare democraticamente la funzione della decisione. Poco fa Aldo Preda citava Dossetti: io vi inviterei a leggere un libro, uscito pochi mesi fa, edito dal Mulino, un’intervista lunga a Dossetti e a Lazzati, raccolta vent'anni fa - quando in Italia si cominciava a parlare di riforme costituzionali - da due intervistatori d’eccezione, Leopoldo Elia e Pietro Scoppola. In quell'intervista, Dossetti dice in sostanza: noi abbiamo fatto una stupenda prima parte della Costituzione, che assegna alla nostra Repubblica degli obiettivi titanici, basti pensare al secondo comma dell'articolo 3 ("E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale..."), un manifesto da far tremare le vene ai polsi, un manifesto programmatico, che dice che la Repubblica non è l’arbitro equidistante, né il mero riflesso del potere che sta nella società, ma è attore che deve cambiare i rapporti di potere dentro la società, rimuovendo gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza effettiva. Senonché, dice ancora Dossetti, la contingenza politica nella quale ci trovavamo allora costrinse a fare una seconda parte della Costituzione che non consentiva al potere politico di esercitare questa funzione, perché noi abbiamo dovuto fare una seconda parte della Carta - Dossetti dice per colpa di De Gasperi e Togliatti, che saggiamente decisero così allora, perché l’alternativa era la guerra civile - che si fonda sulla reciproca diffidenza e dunque sull'obiettivo di impedire la decisione. Noi invece abbiamo bisogno, diceva Dossetti allora, di ritrovare il momento della decisione se vogliamo dare continuità e vogliamo dare sviluppo alla prima parte della Costituzione.

Vorrei che noi non ci dimenticassimo di questa testimonianza, perché la cultura del pluralismo sociale e istituzionale è fondamentale, ma è altrettanto importante è una cultura della efficacia del sistema politico, perché un sistema politico che non decide è un sistema politico che non è democratico. Tanto meno lo è dal punto di vista di una forza di sinistra, perché mentre la destra si può accontentare della società che trova e quindi non ha bisogno della leva politica per il cambiamento, la sinistra, che vuole cambiare la società, ha bisogno della leva di una politica forte, capace di decisione. Allora il pluralismo è un peso e un altro peso deve essere la decisione: se non c’è il pluralismo, la decisione diventa plebiscitaria e tendenzialmente autoritaria e illiberale, ma se non c’è la decisione il pluralismo diventa conservatore, la mera fotografia dei rapporti di forza nella società. Guai a noi se ci dimentichiamo questo elemento, nell'attuale discussione sulle riforme costituzionali. Federalismo e Governo del Primo Ministro sono due elementi coessenziali di un unico disegno istituzionale. Noi abbiamo bisogno di un sistema costituzionale che consenta a Romano Prodi, quando vincerà le elezioni e andrà al Governo, di attuare il programma di cui ci ha parlato ieri sera. Prodi ci ha parlato di uno strumento politico che renda realistico il programma. Ed ha ragione. Ma non meno necessario è lo strumento istituzionale. Non deve più poter succedere che il primo partitino che passa mandi a casa il Governo e il Primo Ministro col quale l'Ulivo ha vinto le elezioni. E perché ciò non accada, o almeno non accada troppo facilmente, Romano Prodi deve poter dire a chi vuole cambiare il Governo che allora si va a casa tutti e lo decide il Paese se è giusto che il Governo cambi.

Ha ragione Piero Fassino, quando scrive nella sua bella mozione che noi siamo per un bipolarismo mite. Il bipolarismo italiano non è un bipolarismo mite, è una specie di "guerra civile fredda": tra "noi" e "loro" non c’è nulla che ci accomuna e qualunque forma di dialogo è vista come un tradimento, un cedimento al "nemico". Ma il bipolarismo non può essere guerra civile fredda e se dall’altra parte lo interpretano così noi dobbiamo dirgli di no. Mesi fa, mi è capitato di fare un dibattito con Pancho Pardi nel mio collegio elettorale e di sentirmi accusare di volere il dialogo con la destra, perfino sulla Costituzione. Gli ho risposto - e ho preso più applausi di lui - che quando ero studente, a quindici anni, nel mio liceo feci un giornalino che si chiamava Dialogo. Ho sempre creduto alla cultura del dialogo e non sarà Berlusconi a farmi cambiare idea. Berlusconi non crede alla cultura del dialogo, ma noi si. E proprio perché siamo alternativi al berlusconismo, dobbiamo affermare e praticare la cultura del dialogo. Come dice Fassino dobbiamo avere del bipolarismo un’altra idea, rispetto a quella che la propaganda della destra tende ad accreditare. Il bipolarismo non è il conflitto tra due visioni opposte e irriducibili. Il bipolarismo è la competizioni civile tra due diverse convergenze verso l’interesse del paese, come ci dice il Presidente Ciampi.

Infine il bipolarismo pone il problema del limite della politica di fronte alla società. Qui c’è un pezzetto di De Gasperi quando scriveva per il futuro, in piena seconda guerra mondiale, che lui pubblica con uno pseudonimo, e che è un’idea che noi dobbiamo ripetere e rilanciare. Scriveva: "Il partito è un organismo limitato, che non ha da proporsi di fare o innovare in tutti i campi, perché è consapevole che altri organismi sociali agiscono nello stesso tempo e nello stesso spazio su diversi piani". Questa idea limitata del partito deriva a sua volta da un’idea limitata della politica: "noi non ci presentiamo - scrive ancora De Gasperi - come promotori integralisti di una palingenesi universale, ma come portatori di una responsabilità politica specifica, ispirata si al nostro programma ideale, ma determinata anche dall’ambiente di convivenza in cui esso deve venire attuato". Questo è, secondo me, uno degli elementi fondamentali nel dialogo tra società e politica: che la politica ritrovi la sua modestia. Noi possiamo fare poche cose, poche cose importanti, ci dobbiamo concentrare su quelle, dobbiamo avere strumenti possibili per decidere e il resto lo deve fare la società da sola, è la società che ha la sua politicità, se non c’è una società politicamente attiva, responsabile e consapevole non c’è politica che tenga.

Veniamo così alla terza parola-chiave, la parola "laicità". Su questo punto la prima bozza della mozione di Fassino è brutta e va riscritta. Gliel'ho detto con franchezza nell'incontro che lui ha chiesto col gruppo Ds del Senato. Si parla ad un certo punto di “società laica”, ma che cosa è la società laica? La società è plurale, semmai le istituzioni sono laiche. È scritta male la parte sulle questioni etiche, non rende ragione di quanto ricordava poco fa Barbara Pollastrini e cioè della grande elaborazione che nel fuoco della battaglia in questi mesi è stata portata avanti. Io credo che la laicità della politica debba essere interpretata sulla linea proposta da Mussi questa mattina. Lui diceva che i credenti dovrebbero comportarsi in politica "etsi Deus non daretur", come se Dio non ci fosse, mentre i non credenti dovrebbero comportarsi "etsi Deus daretur", come se Dio ci fosse. Sulla rivista "Humanitas", all’inizio di quest’anno, viene pubblicata la traduzione italiana di un dialogo tra due giganti del pensiero contemporaneo: Juergen Habermas e il Cardinale Ratzinger. Il grande filosofo progressista e il più autorevole teologo cattolico vivente si incontrano nel riconoscere che la religione e la ragione sono due dimensioni dell’esistenza umana, che devono essere entrambe valorizzate e devono controllarsi reciprocamente, vigilare reciprocamente l’una sull’altra. Guai se non c’è la vigilanza della ragione sulla religione, ammette Ratzinger, perché finiamo nella tragedia del fanatismo integralista. Basti guardare a cosa succede in varie parti del mondo, non solo islamico; e noi stessi, noi europei abbiamo una lunga esperienza di guerre di religione, fondate su una religione non filtrata dalla ragione. Dall’altra parte, dice Habermas, la regione illuminista che non abbia capacità autocritica su di sé e non colga nel pensiero religioso il richiamo al limite nei confronti della ragione stessa, è una ragione destinata a perdersi, perché noi abbiamo visto anche i disastri compiuti dalla ragione illuministica. In fondo, è su questa duplice consapevolezza che si basa l'unificazione dell'Europa: il superamento delle guerre di religione, in nome della dignità e della libertà della coscienza, da una parte e, dall'altra, la falsificazione dell'assunto per il quale sarebbe possibile una ragione perfetta, che prescinde dal limite radicale dell’uomo.

Credo, quindi, che il terreno della laicità sia il dialogo. Questo ci dice una cosa fondamentale, con la quale mi avvio a concludere: nessuna delle culture storiche del centrosinistra è autosufficiente. Uno dei banchi di prova di questa verità è, non da oggi, la questione della procreazione assistita. Da anni vado dicendo che una soluzione legislativa ragionevole e seria a questo delicato problema può nascere solo da una mediazione alta e onesta. Mediazione non significa compromesso mercantile, ma tutt'al contrario ricerca insieme del punto di verità che nessuno è in grado di trovare da solo. Sulla falsariga di Habermas e Ratzinger, che insieme si chiedono: qual è il punto nel quale la ragione deve fermarsi e capire che quello che dicono gli altri non è sbagliato, quale è il punto nel quale la religione deve fermarsi perché si accorge di invadere una sfera che deve essere tutelata nella sua autonomia e nella sua libertà? Allora, sulla procreazione assistita, chiediamoci insieme qual è il punto di verità sul quale insieme possiamo costruire una legge condivisa: condivisa perché in sintonia con ciò che sente il Paese, che vuole un punto di sintesi tra valori che una politica gridata tende a presentare come tra loro incompatibili.

Lo abbiamo detto anche ai nostri pastori, sia Mimmo che io in varie occasioni. All'Italia serve una legge condivisa. E una legge condivisa serve anche alla Chiesa, ad una Chiesa che non sia miope ma che sia lungimirante, che voglia seguire la via del dialogo, del limitarsi reciproco di religione e ragione. Serve una norma condivisa, perché solo una norma condivisa è una norma forte, autorevole, capace di aiutare la crescita anche etica del nostro Paese. Pensate se fossimo riusciti ad approvare in Parlamento - ma io voglio dire se riusciremo a costruire in Parlamento - una norma condivisa che prenda sul serio il punto di principio a cui, con grande coraggio ed onestà intellettuale, è arrivato Piero Fassino: il quale, davanti ad una platea di donne di sinistra, non davanti ad una platea di preti, ma di donne scatenate, giustamente, contro quella legge, ha detto che noi dobbiamo tenere conto della "dignità umana dell’embrione". Immaginate di prendere questo filo e tirarlo, costruendo a partire da questo punto di principio - che non è la forzatura dell'embrione-persona, ma neppure la banalizzazione dell'embrione-cosa - una normativa seria e rigorosa sulla procreazione assistita, che accolga in tutto o in parte i cinque punti che noi Ds avevamo indicato in Senato come necessari per cambiare il testo al nostro esame. E poi, sulla base di questa impostazione comune, vedere come alla luce di questo principio gestire, non cambiare, la legge 194, valorizzando quella che Giovanni Berlinguer chiama la libertà di non abortire che va tutelata insieme alla libertà di abortire...

Invece il filo si è spezzato, lo hanno voluto spezzare: un po' per fanatismo, un po' per strumentalità politica, un po' per acquiescienza. Un'occasione per dar vita a scelte legislative condivise in un campo difficile e delicato come l'etica della vita, è stata perduta. Adesso il problema che abbiamo dinanzi a noi è quello di evitare che il Referendum sia l’ennesima occasione nella quale due culture si contrappongono sorde l’una all’altra, perpetuando la contrapposizione di parzialità che invece devono e possono incontrarsi. E invece, il Referendum è utile, non se si illude di chiudere la questione, ma solo se la riapre in Parlamento, perché è vero che se non ci fosse il Referendum la questione in Parlamento non si sarebbe riaperta, checché ne dica la Ministra Prestigiacomo.

Un'ultima chiosa, con cui chiudo: un altro punto che non mi piace, anzi che non condivido, della bozza di mozione Fassino, che chiedo formalmente venga cambiato e chiedo a Mimmo di lavorarci, a tutti noi di lavorarci perché sia effettivamente cambiato, è il passaggio sull’identità del nostro partito. Lì c’è uno svarione storiografico che è ancora più brutto in quanto non rivela una malizia, ma una disattenzione, che è forse ancora più grave. Oggi sull’Avvenire si legge che i Cristiano sociali sono quei bravi cristiani che sono confluiti nei Ds. Noi non siamo confluiti nei Ds, noi abbiamo fondato i Democratici di Sinistra insieme al Pds, ai Laburisti, ai Repubblicani, il nostro partito lo abbiamo fondato insieme. Ora, noi siamo piccoli come il Burkina Faso, il Pds in proporzione era grande come gli Stati Uniti, ma all’Onu il Burkina Faso ha la stessa dignità, se non lo stesso peso, degli Stati Uniti d’America. Allora io non posso accettare che il mio Segretario, al quale voglio bene perché è una persona d’oro da ogni punto di vista, il mio Segretario scriva sulla mozione con la quale si candida per un nuovo mandato, che c’è stata la svolta dell’89 con la nascita del Pds e poi la trasformazione del Pds nei Ds. Questo lo dice Berlusconi, non lo può dire Fassino. I Ds sono stati fondati dal Pds e da altri. Questo non lo dico solo perché la cosa a cui più teniamo è la nostra dignità, lo dico per i Ds e lo dico per l’Ulivo. Perché se noi smarriamo il senso che ci portò a quell’avventura, con tutti i suoi limiti, le sue debolezze, le sue fragilità, a cominciare dalle nostre come Cristiano sociali, perdiamo il senso di una storia comune e se non conosciamo il nostro passato rischiamo di andare in confusione anche sul nostro futuro. Noi a Firenze, nel 1997, demmo origine ai Ds, non perché c’era un problema organizzativo, o di sistemare un po’ di posizioni personali, o di camuffare un po' meglio il Pci-Pds: noi abbiamo fondato i Ds perché le culture politiche tradizionali del centrosinistra da sole sono sterili e solo se si mettono insieme, come dimostra da ultimo la vicenda della fecondazione assistita, come dimostra il dialogo fecondissimo che c’è stato tra Fassino e Pezzotta sulla questione sindacale, solo se si mettono insieme, le culture politiche possono essere feconde. Le buone cose non nascono per partenogenesi o per clonazione, noi siamo contro la clonazione, siamo per l’incontro tra diversità.

Qui sta il nesso tra storia e futuro: Perché è sulla base di questa intenzione che oggi, coinvolgendo uno spettro assai più ampio di forze, noi oggi parliamo della Federazione. Se possiamo farlo è anche perché in questi anni la Margherita ci ha seguito su quella strada, superando la concezione identitaria del Partito popolare, e forse, per certi versi, ha prodotto un risultato migliore del nostro, perché la loro contaminazione è riuscita più efficacemente della nostra. Ma è sulla base della stessa intuizione che oggi Ds e Margherita possono pensare di dar vita insieme ad un partito dei Riformisti, di costruire insieme quello strumento politico di cui ci ha parlato Prodi ieri sera. Se noi smarriamo questo filo e diciamo che il Pds si è trasformato in Ds e adesso il problema è mettere insieme la nostra identità socialdemocratica con l’identità del popolarismo e del cattolicesimo sociale, che starebbe nella Margherita e qua non c’è, e con la cultura laica di non so cosa, abbiamo perso la bussola e non abbiamo fatto un torto ai Cristiano sociali, che sarebbe poca cosa, ma abbiamo messo su binari sbagliati la ristrutturazione politica dell'Ulivo, che è cosa ben più grave. Vorrei dirvi un'ultima cosa: ho visto oggi un’agenzia in cui si dice che i Cristiano sociali aderiscono alla Mozione Fassino. Io penso che firmerò la mozione Fassino nell’ambito della discussione libera che c’è dentro il nostro partito. Ma dal momento che noi abbiamo dismesso l’idea dell’adesione collettiva al partito, tanto è vero che da quest’anno, finalmente, c’è la doppia tessera, quella dei Cristiano Sociali e quella dei Ds per chi vuole, io credo che sarebbe assolutamente inopportuna un’adesione collettiva ad una mozione. Credo che noi dobbiamo restare uno spazio di libertà, quale noi siamo. Perché se uno ritiene, dal punto di vista cristiano sociale, che la mozione di Mussi sia migliore, deve poterla sottoscrivere senza alcun problema che non sia quello della libera discussione all'interno del Movimento, come del Partito. Ci possono essere delle iniziative, anche collettive, di cristiano sociali che aderiscono a questa o quella mozione, credo che sarebbe una deviazione sbagliata e un impoverimento della nostra ricchezza e della nostra vitalità, se noi dall’adesione collettiva al partito passassimo all’adesione collettiva alla corrente: questo non è nell’interesse dei Cristiano Sociali, credo non sia neppure nell’interesse dei Ds. Grazie.