interventi
Il pluralismo etico: libertà, laicità, bene comune
Intervento al 1° Convegno nazionale di studi dei Cristiano Sociali - Assisi, 13 settembre 2003
1. Nella sua relazione introduttiva di ieri pomeriggio, Mimmo Lucà non ha usato giri di parole. Ha detto con chiarezza che "la proposta di Romano Prodi di una lista unica dell’Ulivo alle prossime elezioni europee, e la sua disponibilità a scendere in campo rappresentano una occasione formidabile per accelerare il passaggio dell’Ulivo, da una sommatoria di sigle nella forma del cartello elettorale, ad un vero e proprio soggetto politico, nella forma della federazione dei riformisti. Ci sono tantissimi elettori di centrosinistra - ha detto ancora Lucà - tantissimi ragazzi e ragazze credenti e non, in profonda sintonia con i valori ed i progetti della nostra coalizione, che si rifiutano di scegliere uno dei partiti che ne fanno parte, e votano Ulivo o, più semplicemente, come è avvenuto alle recenti elezioni amministrative, per il candidato a sindaco o a presidente della Provincia o della Regione. È necessario non contraddire e dunque riconoscere questo processo di consolidamento della cultura del maggioritario nella coscienza degli elettori ai quali non appare più sufficiente la sommatoria elettorale di culture e identità separate".
Condivido questa presa di posizione. Il centrosinistra potrà tornare a parlare al Paese solo se riuscirà a presentarsi come la Casa comune dei riformisti: un soggetto politico unitario e plurale, federativo e federalista, capace di canalizzare il bisogno di partecipazione democratica degli elettori dell’Ulivo, la rivendicazione che essi affermano di decidere programma, leadership, rappresentanza. E capace di raggiungere le dimensioni, anche quantitative, dei grandi partiti riformisti europei; e come i grandi partiti riformisti europei capace di allearsi con formazioni minori, espressione della sinistra critica e antagonista. La questione politica decisiva dei prossimi mesi è capire se ci sono le condizioni politiche per procedere in questa direzione, per strutturare attorno a questa mèta – da perseguire entro la legislatura – l’iniziativa politica dei prossimi mesi.
Tra queste condizioni ce n'è una in particolare, evocata da Mimmo quando ha detto che "non è più sufficiente la sommatoria elettorale di culture e identità separate". Non da oggi sono infatti convinto che una delle condizioni imprescindibili della riscossa del centrosinistra sia l’unità culturale, prima ancora che politica, dei riformisti italiani.
Se la sconfitta ha avuto radici culturali, oltre che politiche – l’incapacità di avanzare una proposta sul futuro del Paese che fosse in grado di parlare al senso comune degli italiani e di mobilitare le loro intelligenze e le loro coscienze, meglio di quanto abbia saputo fare il centrodestra berlusconiano – è dalla cultura che è necessario ripartire.
2. La cultura del riformismo è oggi, necessariamente, plurale e unitaria. E’ plurale, doverosamente plurale, nelle radici, nelle tradizioni, nelle storie, nei linguaggi. Ma è altrettanto doverosamente unitaria nel suo approdo: perché il riformismo ha bisogno dell’apporto di tutte e di ciascuna delle tradizioni che ha alle spalle; nessuna di esse è infatti in grado, da sola, di articolare un pensiero che possa parlare alla società contemporanea.
Né appare sufficiente la sommatoria elettorale di culture separate. La somma di più debolezze non è in grado di fare una forza. Al più può organizzare la “resistenza”, può mettere in campo una politica di opposizione. Ma non è in grado di strutturare una proposta politica che parli al Paese. Solo l’unità, culturale prima ancora che politica, dei riformisti, può riuscire in questa impresa.
Non possono riuscirci, a strutturare una proposta che parli al Paese, neppure le “unità parziali”. Non può riuscirci la Margherita, che pure ha avuto il merito storico di governare positivamente il superamento della “questione democristiana” nel centrosinistra, il superamento, nell’area cattolico-democratica, dell’idea del partito di ispirazione cristiana, dell’idea che l’ispirazione cristiana avesse bisogno, per esprimersi, di un partito “cristiano”. Non può riuscirci perché non ha senso cercare di definire l’identità di un riformismo "liberalcristiano" per differenza rispetto a quello “socialdemocratico” dei Ds. Non può esserci, né in Italia né in Europa, non solo e non tanto lo spazio politico-elettorale, ma soprattutto il senso culturale di un riformismo che faccia incontrare liberalismo democratico e personalismo cristiano, prescindendo dall’apporto della tradizione socialista.
Lo stesso discorso vale, capovolto, per i Ds. Il Congresso di Pesaro ha riproposto la definizione dei Ds come partito riformista e socialista di stampo europeo. Siamo d'accordo, purché non si pensi di poter riproporre la definizione di partito socialista riformista per differenza rispetto al cristianesimo liberale della Margherita. Anche questo sarebbe un nonsenso culturale, prima ancora che un errore politico, posto che non si dà in natura, nel Ventunesimo secolo, un socialismo democratico allo stato puro, non mescolato con il riformismo liberale e con quello di ispirazione cristiana.
La proposta di Romano Prodi non è un espediente organizzativistico, ma ha a che fare con l'anima del centrosinistra italiano. Ci dice che non sarà con la cultura della “demarcazione” tra i riformismi, ma solo con quella della loro reciproca “contaminazione”, che il centrosinistra italiano ritroverà la capacità di parlare al Paese, di avanzare un proposta politica di riforma, della quale siano avvertibili profonde radici culturali e morali. Radici comuni, messe in comune, oltre i logori steccati ereditati dal passato, a cominciare da quello, storico, che tende a opporre laici e cattolici, in particolare sul terreno dell'etica, o più precisamente del rapporto tra etica privata, etica pubblica, mediazione politica e legislativa.
3. Si tratta, come è evidente, di un'impresa ambiziosa, ma tutt'altro che impossibile. E comunque necessaria. Del resto, è largamente diffusa la consapevolezza che la vittoria del centrodestra ha evidenti radici culturali ed è dunque anche, se non anzitutto, su quel terreno che va condotta la sfida.
La vittoria del centrodestra è stata accuratamente preparata come un'operazione culturale, assai prima che politica. Ed ha utilizzato, per così dire "gramscianamente", come armi di lotta politica, in primo luogo strumenti culturali: a cominciare dalla più grande industria culturale privata presente nel Paese, l'impero multimediale di proprietà di Silvio Berlusconi.
Come è noto, mezzo e messaggio si influenzano, anche quando non si identificano. Nel caso di Berlusconi, mezzo e messaggio si sono incontrati nella parola "libertà", della quale hanno promosso una declinazione di stampo "radicale". L'idea di libertà che Berlusconi ha proposto agli italiani, prima con la sua televisione commerciale, poi con il suo movimento politico, si condensa nell'espressione "libertà di scelta": tra prodotti sul mercato, tra programmi televisivi e poi anche tra programmi politici, tra sistemi scolastici, perfino tra protocolli terapeutici, a prescindere da qualunque giudizio di appropriatezza (come si vide col caso Di Bella). In questa visione, l'unico principio di verità (e di autorità) che la libertà riconosce è il successo, come principale manifestazione del consenso.
Si tratta, come è evidente, di una concezione "moderna" della libertà, in quanto partecipa di uno dei tratti salienti della modernità, ovvero della critica (e della crisi) dell'autorità come luogo di (presunta-pretesa) manifestazione della verità, alla quale oppone il principio antiautoritario dell'autodeterminazione dell'individuo.
Della libertà "moderna", il berlusconismo propone un'accezione non "liberale" - se per liberalismo si intende una concezione della libertà della quale è costitutivo il senso del limite - né "libertaria" - ove per libertarismo si intende una contestazione esplicita e polemica del principio di autorità - ma piuttosto "libertina", intendendo per libertinismo lo svuotamento del principio di autorità (insieme a quello di verità), in una forma di individualismo radicale fondato proprio sulla rimozione del senso del limite.
Una visione di per sé non incompatibile con un ossequio formale ed esteriore all'autorità dei "valori tradizionali", secondo un collaudato modello di perbenismo moralistico. Può anzi accadere perfino, come accade sistematicamente nel caso del berlusconismo, che il libertinismo offra il braccio secolare della legge e dello Stato, a sostegno di valori tradizionali che non solo non si praticano (e visibilmente, quasi ostentatamente) nella vita privata, ma dei quali si propone sistematicamente la trasgressione attraverso i modelli di vita veicolati da quella stessa industria culturale che è a fondamento dell'orizzonte di senso che consente alla proposta politica di esprimersi e di prevalere.
4. Il carattere "permissivo" del berlusconismo è inscritto nella concezione della libertà che esso propone come facoltà di perseguire la convenienza individuale (o comunque particolare), svincolata da qualunque riferimento al criterio della responsabilità. La libertà di scelta individuale non "risponde" a nessuno: a nessuna autorità (alla quale ci si rapporta, se necessario, in chiave estrinseco-conformistico-strumentale, mai di rispetto-adesione), compresa l'autorità della legge, vista come inutile inciampo, se non come intollerabile persecuzione; e a nessuna verità, posto che l'ideologia della "libertà di scelta" non contempla alcun criterio di demarcazione tra ciò che è vero e ciò che non lo è: è essa stessa, per sé, misura di verità.
Ma il permissivismo nutre costitutivamente una vena autoritaria. La concezione permissiva della libertà è strutturalmente esposta ad una tentazione illiberale. Una visione della libertà che attribuisce al consenso maggioritario, come convergenza di una molteplicità di individuali libertà di scelta, il rango di fonte esclusiva della verità è una concezione estranea al pensiero liberale, che si fonda proprio sul riconoscimento di uno scarto radicale tra verità e consenso e attribuisce alla dialettica competitiva tra verità parziali la funzione maieutica di progressiva approssimazione alla verità.
Così come, al di là delle fruste dispute sul "regime" berlusconiano, è certamente illiberale una visione dello Stato e della politica che, fondandosi su una concezione permissiva della libertà, svincolata dal principio di responsabilità e insofferente nei riguardi del principio di legalità, ignora o addirittura calpesta il principio liberale della divisione dei poteri e del potere.
Non a caso, il berlusconismo mal sopporta, fatica perfino a concepire l'idea che, in una democrazia liberale, siano necessari e obbligatori forti controlli e contrappesi all'investitura maggioritaria dell'esecutivo; e che siano previsti efficaci strumenti di contrasto alla concentrazione nelle stesse mani del potere politico, economico, mediatico-culturale. In questo atteggiamento risiede la manifestazione del suo carattere tendenzialmente illiberale.
5. Se tornare a vincere significa, per il centrosinistra, tornare a fare cultura, a dialogare con umiltà e pazienza con il Paese, per concorrere a ri-formarne il senso comune, ciò non sarà possibile senza una rivisitazione del tema cruciale della libertà, che assuma fino in fondo la linea antiautoritaria che attraversa la modernità e contrasti invece, con altrettanto vigore, l'indebita identificazione della libertà moderna con l'esito illiberale e populista del berlusconismo, assumendo la dimensione della responsabilità come costitutiva dell'idea stessa di libertà.
Il tema della libertà è anche terreno privilegiato per spingere, ben oltre i limiti fin qui osservati, quella contaminazione tra le culture del centrosinistra, senza la quale nessuna di esse può pensare di poter parlare con autorevolezza alla società italiana. Solo la contaminazione tra liberalismo democratico, socialismo riformista e ispirazione cristiana può riuscire a proporre, al senso comune di una società adulta e moderna come quella italiana, una visione della libertà capace di contrastare le tentazioni illiberali del berlusconismo.
Imprescindibile è, in questa prospettiva, innanzi tutto l'apporto del liberalismo democratico, con la sua affermazione dell'individuo come soggetto consapevole di se stesso, che si autodetermina e si autodispiega; e al tempo stesso con l'affermazione del duplice limite, alla libertà dell'individuo nella libertà dell'altro e al potere, che va diviso e diffuso e sottoposto a controllo pubblico, nella società come nello Stato: uno Stato del quale il liberalismo democratico ha affermato la laicità come garanzia della libertà di tutti e di ciascuno.
Patrimonio comune va egualmente considerata l'acquisizione, grazie al pensiero socialista, della consapevolezza degli ostacoli che i fattori materiali, a cominciare da quelli economici, oppongono all'esercizio effettivo, sostanziale e non formale, della libertà; e di come la condizione del pieno dispiegamento esistenziale del valore della libertà – di una libertà "uguale" – sia la liberazione dal bisogno, attraverso il lavoro, l'istruzione e, più generalmente, l'organizzazione collettiva e pubblica della solidarietà (assumendo peraltro una visione che ne relativizzi le forme concrete, in una prospettiva evolutiva).
6. Una rinnovata tematizzazione della libertà da parte della cultura del centrosinistra non può prescindere dall'apporto specifico dell'ispirazione cristiana. Un apporto che muove da un'inquietudine, più che da una certezza, dalla consapevolezza di uno scarto e di una dialettica, più che dall'indicazione di un approdo. E' l'inquietudine che deriva dalla convinzione che la libertà trova la sua pienezza non emancipandosi dalla verità, ma per mezzo della conoscenza e del riconoscimento di essa. E poiché non può darsi, nella storia, evidenza della verità, neppure potrà mai esserci pienezza della libertà. E tuttavia, la consapevolezza di questo limite radicale, che è un tutt'uno con l'esperienza dell'inestirpabile presenza del male nel mondo, non deve indurre all'appagamento rassegnato, ma a promuovere instancabilmente la ricerca dell'incontro tra verità e libertà: giacché la libertà ottiene la sua pienezza nella verità, ma la verità, per manifestarsi, sia pure nell'opacità che è intrascendibile per l'esperienza umana, presuppone la libertà.
La ricerca dell'incontro tra libertà e verità si realizza nella coscienza: la coscienza individuale, innanzi tutto, sacra e inviolabile; e poi nella coscienza collettiva, frutto e motore della storia. L'inquietudine che l'ispirazione cristiana reca alla riflessione sulla libertà è un potente antidoto ad una concezione puramente emancipativa della libertà stessa, quale quella proposta dal berlusconismo: una concezione culturalmente affacciata sull'abisso del nichilismo e, sul piano storico-politico, esposta alla tentazione del populismo illiberale.
Ed è anche un prezioso richiamo alla necessità, per la libertà nella società, di un orizzonte di senso ultimo, non come fondazione trascendente, ma come aspirazione trascendentale. La tensione tra libertà e verità, richiamata dall'ispirazione cristiana, insegna la priorità della persona, di ogni persona, sempre fine, mai mezzo. La libertà si apre così alla responsabilità nei riguardi degli altri, della comunità, della storia, orientata dall'uguaglianza come ideale regolativo. E produce una società pluralista, nella quale il potere, politico e non, accuratamente diviso e bilanciato, interagisce con robuste istituzioni, politiche, ma anche sociali e civili, animate da quell'amicizia civile, da quella fraternità come esperienza parziale e come aspirazione mai esausta, che rappresenta l'indispensabile fondamento metapolitico di una democrazia sana.
7. Un discorso sull'ispirazione cristiana sarebbe monco se non facesse i conti con il luogo privilegiato nel quale quella ispirazione viene coltivata e trasmessa, la comunità ecclesiale: cattolica, senza in nulla sminuire il grande apporto delle chiese cristiane riformate.
Diffusa è la preoccupazione che la comunità ecclesiale sia tentata di acconciarsi a convivere con il libertinismo illiberale, facendo ricorso, ancora una volta, al modello concordatario: ossia utilizzando la sua influenza nella società, per ottenere dal potere politico garanzie e risorse per alimentare questa presenza.
Il modello concordatario ha infatti un limite: presuppone una visione autoritaria e clericale della Chiesa (il contrario della Chiesa conciliare, definita dal vescovo-teologo Kasper "istituzione della libertà cristiana"), una visione che mortifica il ruolo del laicato, e, direttamente o indirettamente, legittima una visione illiberale della società.
Una legittimazione che neppure è compensata, come avveniva nel passato, dalla opposizione di un limite all'invadenza totalitaria del potere politico, posto che l'attuale potere politico è, innanzi tutto, potere culturale, potere di influenza sui modelli culturali, assai prima e più che sulla fissazione delle norme giuridiche.
Il patto proposto alla Chiesa dal libertinismo illiberale – ossequio formale all'autorità ecclesiale e sostegno secolare ad una legislazione sui temi afferenti la morale privata in via di principio rispettosa dei valori cristiani, in cambio di una legittimazione o quanto meno di una "non belligeranza" ecclesiastica al potere politico – rischia di essere un patto leonino, posto che il libertinismo illiberale ha strumenti assai più potenti della legge per alimentare la sua presa sulla società: a cominciare, per l'appunto, dall'industria culturale.
In definitiva, è un patto che presuppone la rinuncia, da parte della comunità ecclesiale, a concorrere al formarsi di quell'etica pubblica, come terreno di dialogo tra la dinamica della libertà e quella della ricerca della verità, che è proprio il limite che il libertinismo illiberale non intende tollerare, ma alla cui costruzione la comunità ecclesiale non può rinunciare a contribuire. "La libertà cristiana – scrive ancora Kasper – può essere una forza di mobilitazione e motivazione. Essa può per così dire essere la coscienza pubblica, che di fronte agli interessi organizzati risveglia, forma e accentua l'obbligo per il bene comune."
8. La società italiana ha bisogno di una Chiesa che, in modo non esclusivo, svolga questa funzione, con serena autorevolezza. E poiché in una società tutto si tiene e tutti influenzano tutti, il centrosinistra deve favorire la creazione di uno spazio, sociale e culturale, che consenta a questo modello di rapporto religione-società di affermarsi.
La via maestra resta la sperimentazione di un dialogo fecondo, sul terreno etico-politico, tra laici e cattolici: un dialogo orientato alla costruzione di sintesi comuni e condivise e capace quindi di resistere alla spinta divergente di opposte derive identitarie. Divergendo tra loro, laici e cattolici rischiano infatti entrambi la subalternità culturale - e quindi poi anche politica - al berlusconismo.
Se infatti il berlusconismo è una visione permissiva e illiberale della libertà, la divergenza tra laici e cattolici porta i primi ad un esito permissivo e i secondi ad uno illiberale: ma entrambi gli esiti hanno casa in quel di Arcore.
Come antidoto alle due derive e come alimento di una prospettiva convergente, propongo alla vostra meditazione due brani "duri": quello "laico" è duro per i laici, quello "cattolico" per i cattolici.
Il brano "laico" è di Juergen Habermas, è tratto dal sue recente saggio su "Il futuro della natura umana": contro "lo scivolamento in una genetica liberale, vale a dire una genetica regolata dalla legge della domanda e dell'offerta", Habermas auspica che i limiti del possibile ricorso all'ingegneria genetica siano definiti "in maniera autonoma, a partire da considerazioni normative che rientrano nella formazione democratica della volontà" e non "in maniera arbitraria, a partire da preferenze soggettive che si soddisfano attraverso il mercato".
Il brano "cattolico" è di Alcide De Gasperi: intervenendo alla Settimana sociale dei cattolici del 1945, di fronte ad autorevoli prelati che invitavano con tono perentorio il leader democristiano ad imporre l'inserimento nella Carta fondamentale della nuova Repubblica quelli che a loro parevano principi di diritto naturale, come il carattere "gerarchico" del rapporto uomo-donna nel matrimonio, il grande statista trentino ironizzava sulla "atmosfera ossigenata" che si respirava in quelle sedi di "alta montagna" e la paragonava all'assai più opaco sforzo "di fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione".