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Il Partito democratico, sintesi di evoluzioni culturali

L'intervento pubblicato su Le nuove ragioni del socialismo, mensile di politica e cultura riformista-febbraio 2007

 

 

Il Partito democratico, sintesi di evoluzioni culturali

Le nuove ragioni del socialismo - Febbraio 2007


Due sono le ragioni comunemente invocate, a supporto della propria posizione, da quanti, a sinistra, si oppongono al Partito democratico (Pd): la collocazione europea e internazionale del nuovo partito e la sua linea politica sui diritti civili. E’ impossibile, si argomenta, dar vita non ad un’alleanza di governo, ma ad un partito politico unitario, tra forze non omogenee, nei loro riferimenti internazionali e in un aspetto cruciale della loro cultura politica. In effetti, se così fosse, non ci sarebbe che prendere atto dell’impraticabilità, almeno immediata, del progetto Pd e di rinviarne l’attuazione a tempi migliori. Ma le cose stanno davvero così? sono davvero così lontane e incompatibili, su questi temi, le posizioni della Quercia e della Margherita, al punto da non poterle ricomprendere nel segno del Partito dell’Ulivo? La risposta che propongo è la seguente: sì, le posizioni (prevalenti) nei Ds e in Dl sono distanti, ai limiti dell’incompatibilità, se considerate in modo statico, come in una fotografia del presente; lo sono (o possono esserlo) molto meno, se apprezzate in modo dinamico ed evolutivo, come in un film che dal presente voglia muovere verso il futuro.

 

E aggiungo: questa evoluzione culturale è necessaria e lo è per entrambe le organizzazioni e per entrambe le culture politiche. Non, banalmente, per poter fare il Pd: i partiti sono (sempre) mezzo e mai fine. Al contrario, il Pd è necessario proprio perché aiuta (e in un certo senso costringe) Ds e Dl a superarsi (ciascuno a superare la propria parzialità), a completarsi reciprocamente e così ad adeguarsi, entrambi perché insieme, al livello della sfida, di portata storica, che hanno dinanzi e alla quale, separatamente (e staticamente) sono entrambi radicalmente inadeguati. Hegel (e poi Marx) avrebbe chiamato questa operazione di superamento, completamento e adeguamento, Aufhebung: il toglimento che produce sintesi, negazione della negazione. E’ la dialettica, bellezza: con la sua fatica, con il conflitto che essa produce. Ma non c’è progresso senza conflitto, cambiamento senza dialettica.

 

Esaminiamo allora, in questa chiave, la vexata quaestio della collocazione internazionale. Staticamente considerata, essa è un tipico “gioco a somma zero”: quel che concedo ad uno dei due corni del dilemma, lo tolgo all’altro; e viceversa.

E infatti: “mai nel Pse” e “mai fuori dal Pse” sono (aristotelicamente) affermazioni identitarie e dunque reciprocamente contraddittorie, che si escludono a vicenda e delle quali o è vera l’una o è vera l’altra, tertium non datur. A meno che non si cambi il punto di vista e nella questione si introduca l’energia storico-politica del movimento, della dialettica. In questo caso gli effetti possono essere clamorosi. “Con il Pse e con le altre componenti riformiste”, si legge nella mozione congressuale della Margherita, “vogliamo dar vita ad un nuovo campo di forze che punti a colmare la carenza di indirizzo politico che caratterizza la scena continentale”. Una frase simile potrebbe ben figurare nella mozione di Piero Fassino per il Congresso dei Ds. Se infatti alla logica identitaria si sostituisce quella dialettica, ovvero si adotta una prospettiva dinamica, storico-politica, il nocciolo della questione non è più “dove mi colloco”, dentro o fuori il contesto dato, ma “cosa voglio”, verso dove voglio muovere, in un contesto che esso stesso è in movimento, perché panta rei, tutto si muove.

 

Ebbene, noi, l’Ulivo, il Pd vogliamo concorrere a “colmare la carenza di indirizzo che caratterizza la scena continentale”: una carenza della quale partecipa lo stesso Pse, che si è diviso al suo interno su entrambe le questioni che hanno agitato la scena politica europea in questi primi anni del secolo, la guerra in Iraq e la Costituzione europea.

Per colmare quella carenza, “vogliamo dar vita ad un nuovo campo di forze”, dato che quelli che ci sono, così come sono strutturati, risultano palesemente insufficienti. Ma non siamo affetti da sindrome di onnipotenza, né da una visione così astratta ed astorica da presumere che si possa aprire una fase nuova facendo tabula rasa dell’esistente. Sappiamo che il “nuovo campo di forze” potrà essere organizzato solo “con il Pse e con le altre componenti riformiste”.

Come volevasi dimostrare: in prospettiva dialettica (e non identitaria) non solo la convergenza tra Ds e Dl appare possibile, ma risulta incomparabilmente più feconda, proprio perché dinamica. E se si converge sulla prospettiva storico-politica, la questione della collocazione non cessa per ciò stesso di esistere, ma viene di fatto derubricata a questione organizzativa, come tale risolvibile e comunque non in grado di giustificare un “no”, o anche solo uno “stop”, al processo di fusione-superamento di Quercia e Margherita nel Partito dell’Ulivo. Tanto più se quel processo si fonda sulla convergenza su un comune disegno evolutivo della politica europea, che solo il Pd può avere la forza e l’autorevolezza di promuovere.

 

Gli oppositori al Pd potrebbero tuttavia considerare la questione della compatibilità identitaria, sin qui più aggirata che risolta. Conviene dunque affrontare direttamente la questione del socialismo, per domandarsi cosa di esso, per come è oggi concretamente in Europa, andrebbe perduto nel nostro Paese, qualora nascesse in Italia un grande partito “nuovo”, il Pd, destinato a schierarsi in Europa con il Pse, ma non a definirsi “socialista”. Nulla, stando al dibattito pubblico, sembrerebbe in pericolo né sul piano della politica internazionale, né su quello delle politiche economiche e sociali: su entrambi i versanti, le differenze interne all’area “riformista” del centrosinistra, quando ci sono, attraversano trasversalmente sia i Ds che Dl.

 

E infatti nessuno, in nessuno dei due partiti attuali, paventa una “mutazione genetica”, in conseguenza della fondazione del Pd, né in politica estera, né in politica economica e sociale. La mutazione genetica, temuta in entrambi i partiti, riguarda piuttosto il campo delle questioni cosiddette “eticamente sensibili”: quelle che hanno a che fare con la scienza e la tecnica, quando si occupano della vita umana, del suo inizio, della sua fine, della sua riproduzione; e poi, con l’evoluzione della famiglia e con la dimensione pubblica degli orientamenti sessuali in genere.

 

Un campo reso ancor più problematico dalla contrapposizione tra magistero pubblico della Chiesa cattolica e coscienza laica, altrove pressoché scomparsa, su questi temi invece persistente a tal punto da sollevare una questione di “laicità”, che in altri campi verrebbe giudicata anacronistica. In altri termini, nel dibattito pubblico nel centrosinistra, attorno al dilemma tra Partito socialista e Pd, l’aggettivo “socialista” viene nei fatti ad identificarsi con “laico” (talora nell’accezione di “autonomo” dalla Chiesa cattolica, talaltra di ad essa “antagonista”) e con “liberale” e “libertario”, convinto sostenitore dei “diritti civili”.

Una contrazione semantica assai interessante, anche perché su di essa convergono sia quanti, in Dl, temono una declinazione “socialista” dell’identità del Pd, sia quanti nei Ds temono, col Pd, di perderla.

Una contrazione semantica che racconta, per un verso, quanto si sia impoverito di significato storico-politico concreto il termine “socialismo”: come se esso faticasse, almeno in Italia, a sopravvivere alla scomparsa del “socialismo reale”. E quanto, all’opposto, abbiano saputo occupare una posizione centrale, nel dibattito pubblico, le questioni “eticamente sensibili”, o “antropologiche” (come preferisce definirle la pubblicistica cattolica).

 

Proprio la inedita centralità politico-culturale delle questioni “eticamente sensibili” legittima la tesi per la quale, in assenza di una chiara e strutturata convergenza su questi temi, è impossibile procedere alla costituzione del partito “nuovo”, del Pd. E in effetti, questo è l’ambito tematico nel quale la convergenza appare più lontana e più difficile. Non per questo tuttavia essa risulta impossibile.

E non per questo essa diventa meno necessaria.

Al contrario: proprio la inedita centralità politico-culturale dei temi che riguardano la vita e la morte, la sessualità e la riproduzione, la famiglia e l’educazione, evidenzia la realtà in atto di un mutamento culturale profondo, che investe questioni, per l’appunto, “antropologiche”, che riguardano la collocazione dell’uomo nella natura, la sua capacità di manipolarla, se non di dominarla, attraverso il sapere scientifico-tecnico, e la sua stessa autocomprensione come essere razionale e morale, libero e responsabile.

E proprio il carattere “radicale” degli interrogativi che il mutamento antropologico, indotto dai progressi della scienza e della tecnica, propone all’intelligenza e alla coscienza dell’umanità contemporanea, fino a sfidarla a varcare gli orizzonti di un nuovo umanesimo, mette in luce la strutturale inadeguatezza degli approcci tradizionali, compresi quelli novecenteschi, alle questioni che sono in campo.

Di nuovo, l’incompatibilità delle culture politiche date è tale se colta nella staticità dell’immagine istantanea, appiattita sul presente. Lo è molto meno se inquadrata dinamicamente, nello sforzo di declinare paradigmi culturali nuovi, che risultino meno inadeguati, dinanzi ai nuovi, inediti dilemmi morali. Colta in questa prospettiva, l’incompatibilità di partenza si rovescia nella condivisione profonda della comune ricerca di un nuovo umanesimo, a partire dalla consapevolezza della radicale insufficienza (e dell’ancor più evidente non-autosufficienza) di entrambe le posizioni di partenza.

 

Chiara è la radicale insufficienza, messa in luce in modo inequivoco dall’allora cardinale Ratzinger nel celebre confronto pubblico con Juergen Habermas, del tradizionale approccio della cultura cattolica, basato sul diritto di natura. “Il concetto del diritto di natura – scriveva il futuro Benedetto XVI – presuppone un’idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale. Questa visione della natura, con la vittoria della teoria evoluzionista, si è persa…” L’uomo non può più delegare alla razionalità della natura le sue scelte morali. E’ solo, con la sua ragione e la sua coscienza.

 

E’ questa nuova prospettiva antropologica che ha fatto scrivere di recente al cardinale Carlo M. Martini, commentando il “caso Welby”, che “per stabilire se un intervento medico è adeguato (o invece è accanimento terapeutico, ndr) non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti”. Col linguaggio della teologia morale, si direbbe che è necessario, anche in campo bioetico, superare la rigidità dell’approccio “deontologico”, in favore di uno “teleologico”, più aperto, perché più problematico. Non a caso, lo stesso cardinal Martini conclude osservando che “rimane aperta l’esigenza di elaborare una normativa che, da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure – in quanto ritenute sproporzionate dal paziente – dall’altra protegga il medico da eventuali accuse, senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia.

 

Un’impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista”.

 

Ma anche la cultura della sinistra “laica” è chiamata ad un’analoga professione di umiltà. Dinanzi alla radicalità delle sfide antropologiche del nostro tempo, la cultura emancipativa e acquisitiva, che si è forgiata nelle lotte del movimento per i diritti civili degli anni ’70 del secolo scorso, si mostra in tutta la sua insufficienza. Habermas ha scritto dei rischi di una genetica liberale: rischi di subalternità al mercato, se la politica non tornerà a cimentarsi, in modo nuovo, con la dimensione della responsabilità.

 

E Giuliano Amato ha parlato di recente del rischio di un “thatcherismo di sinistra”. “Questo Paese non si salverà e la stagione dei diritti si rivelerà effimera – scriveva Aldo Moro già in quegli anni ’70 – se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere”.

E’ il compito, sul terreno decisivo della cultura politica, che sta dinanzi al Pd e che riempie di senso battersi per costruirlo.