interventi

Cattolicesimo democratico e partito dell'Ulivo

Discorso al 4° Convegno di Studi dei Cristiano Sociali.

Assisi, 29 settembre-1 ottobre 2006

 

 

Della necessità di dar vita in Italia ad un grande partito riformista e democratico, che riassuma e rilanci la felice esperienza dell’Ulivo, si è detto e scritto molto. E tuttavia, la piega della discussione tende ad essere prevalentemente di tipo soggettivistico, talvolta perfino “esistenzialistico”, anziché storico-politico.

E’ come se il problema dominante nella discussione – che coinvolge in prevalenza, se non esclusivamente, il ceto dirigente, politico e non solo – fosse quello di come strutturare il dispiegamento di se medesimo, anziché quello di dare risposta, in modo persuasivo, alle sfide storiche, per molti versi inedite, dinanzi alle quali il Paese si trova, in questo arduo passaggio di secolo.

Si pensi, per fare solo un esempio, all’uso e all’abuso, di per sé eloquente, del termine “morire”: non voglio morire socialista (o democristiano, o qualcos’altro ancora) si sente ripetere, o all’opposto, lasciatemi morire socialista (o popolare…).

Cosa c’è di più soggettivistico del richiamo alla morte? Cosa c’è di più esistenzialistico di questa inquietante versione politica del “Sein zum Tode”?

E cosa c’è di più lontano e fuorviante, rispetto ad una riflessione e ad un’azione adeguate al livello della sfida sul terreno storico-politico?

Altro esempio: le primarie dell’Unione. Prevalente è la tesi secondo la quale, partecipando a quello straordinario evento democratico, il popolo del centrosinistra si sia “espresso”: per esempio a favore del “partito democratico”, o invece no, a favore di un’unità più larga, o magari più stretta. Raramente si sente dire che quel popolo si sia in realtà “schierato”: abbia cioè voluto prendere parte in un conflitto politico che ha diviso il Paese e del quale ha compreso la portata storica e i termini essenziali di ciò che era in gioco per il futuro dell’Italia.

Sarebbe bene allora, anche per non perdere la sintonia col tanto celebrato popolo delle primarie, ricondurre la discussione e il confronto su questo terreno, il terreno della prospettiva storico-politica del Paese, che impone uno “schierarsi”, ossia un’assunzione di responsabilità.

Per essere ancora più chiari e netti: o la discussione sul Partito democratico e, in essa quella sul ruolo dei cattolici democratici, parte da qui, da questa assunzione di responsabilità dinanzi all’Italia, alle sue straordinarie opportunità e ai suoi altrettanto drammatici rischi di emarginazione e di declino, o è una discussione oziosa: “lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”, dice il Vangelo.

Nell’incontro a Palazzo Chigi con i capigruppo della maggioranza, giovedì scorso, Tommaso Padoa Schioppa ha illustrato i caratteri di svolta della manovra finanziaria del Governo Prodi per il 2007. Ha espresso tuttavia anche un rammarico: il contenimento della spesa attraverso riforme delle amministrazioni pubbliche, ha detto, è appena avviato. Come dice Romano Prodi, Padoa Schioppa ha un unico difetto: è troppo signore. Bisogna allora tradurre le sue espressioni in un linguaggio meno signorile: la manovra ha un modesto tasso riformatore.

Forse era inevitabile che andasse così. Il problema è che tutti sappiamo che senza riforme profonde degli apparati pubblici, l’Italia non può imboccare la via della qualità dello sviluppo e scongiurare il rischio del declino.

Per fare un solo esempio: i dati allarmanti dell’indagine Ocse sui risultati dell’istruzione pubblica italiana, in termini di competenze effettivamente acquisite dai nostri ragazzi, ci dice che la scuola italiana non ha certo bisogno di tagli, ma anche che non bastano neppure risorse aggiuntive, in ogni caso oggi impossibili da reperire nel bilancio dello Stato. La scuola ha bisogno di riforme, che rendano produttivo il suo lavoro, ottimale l’uso delle risorse, in sé neppure inadeguate, se confrontate con gli altri paesi europei: “Io vi pagherei a cottimo – diceva don Milani – un tanto a ragazzo che formate”. La valutazione dei risultati, della scuola come della sanità, della giustizia come dell’università, non è aziendalismo di destra, è rispetto per i denari di tutti e per il diritto della povera gente di avere servizi pubblici di qualità.

Se la manovra finanziaria si presenta con un basso tasso riformatore, vuol dire che è ancora insufficiente la capacità riformatrice del Governo. Ma siccome il Governo non vive di vita propria, vuol dire anche che è insufficiente la cultura riformista della maggioranza, della nostra coalizione di centrosinistra.

“Capire il nuovo, guidare il cambiamento”, recitava un indimenticabile slogan della Cisl, negli anni di Pierre Carniti. Una efficacissima sintesi di cosa vuol dire riformismo. Per contrastare il declino e per imboccare la via dello sviluppo nella qualità sociale, l’Italia ha bisogno di un governo e di una coalizione che siano in grado di capire il nuovo e di guidare il cambiamento. Non di organizzare la resistenza contro il cambiamento: una resistenza che produce ordinaria manutenzione, in un contesto nel quale il degrado inesorabilmente avanza.

“It was no accident”

Anche altri paesi europei si sono trovati dinanzi alla scelta tra cambiare o declinare. E dinanzi alle stesse resistenze, culturali e sociali. Hanno saputo affrontarle a viso aperto e vincerle, facendo appello alle risorse intellettuali e morali del loro popolo. E hanno ripreso la via dell’innovazione, della competitività, dello sviluppo, del progresso sociale e civile.

“It was no accident”, non è stato un incidente, un caso fortuito, ha detto mercoledì scorso, alla Conferenza annuale del Labour party, Bill Clinton.

Non è stato un incidente se in questi anni il Regno Unito è cambiato in profondità, diventando uno dei paesi europei più dinamici e competitivi.

Non è stato un incidente, se il Regno Unito è allo stesso tempo diventato uno dei pochi paesi europei che in questi anni ha visto ridursi le disuguaglianze, a cominciare dalla più grave: la disoccupazione, soprattutto la disoccupazione giovanile di lungo periodo.

Così come non è stato un incidente, se in questi anni, nel Regno Unito, la spesa sociale è aumentata in modo vistoso, in particolare a favore di sanità e istruzione.

Se tutto ciò è potuto accadere, ha detto Clinton al delegati del Labour, è perché

voi siete stati gli attori del cambiamento: “You are the change agents in this great nation… You have been and always will be…”

Sono passati quasi dieci anni dalla prima vittoria del New Labour dopo il lungo, incontrastato regno thatcheriano e conservatore, che ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta. E in questi dieci anni, il Labour di Tony Blair ha vinto tre elezioni politiche di seguito.

Se ciò è stato possibile, ha detto Blair alla Conferenza di Manchester, è perché abbiamo avuto il coraggio di cambiare. E il nostro coraggio ha dato agli inglesi il coraggio di cambiare.

Ha continuato a vincere, il New Labour, nonostante la severa erosione di consensi pagata ad una politica estera sbagliata: culturalmente, prima ancora che politicamente. Una politica estera che ha avuto il merito di riscoprire la crucialità e la centralità della dimensione etica, la dimensione dei diritti umani, della democrazia, della lotta alla povertà, contro la tentazione cinica del realismo della politica di potenza.

Ma anche una politica estera che ha ignorato, e questo è stato il suo limite, la costitutiva necessità, per l’etica, di incarnarsi nel diritto, in un sistema di regole e di norme, almeno tendenzialmente universale: l’unico vero strumento, nelle relazioni internazionali, di limitazione e di regolazione della violenza.

L’etica deve ispirare il diritto. Ma solo il diritto può addomesticare la violenza, trasformandola in una forza razionale e ragionevole, al servizio dell’etica. Senza la mediazione del diritto, l’etica può facilmente rovesciarsi nel suo contrario, nell’uso spregiudicato e sfrenato di una forza che diventa violenza.

Questa, in definitiva, è la grande lezione della guerra in Iraq. Come ha scritto Juergen Habermas, alla progressiva costituzionalizzazione del diritto internazionale, ci si è illusi di poter sostituire un’etica di grande potenza liberale. Un’illusione tragica, dalla quale si sta faticosamente uscendo con il difficile rilancio del diritto internazionale, del multilateralismo, dell’azione politica e diplomatica.

Torneremo dopo su questo punto: illuminante, a mio modo di vedere, per una riflessione sui rapporti tra etica e politica. Per intanto ci basti osservare che, nel campo della politica estera, anche a causa del conclamato fallimento dell’unilateralismo etico, il Governo Prodi ha dato prova, in questi primissimi mesi, di una straordinaria capacità di “capire il nuovo e guidare il cambiamento”, trasformando la resistenza del centrosinistra italiano contro la guerra in Iraq, in qualcosa di molto di più di una testimonianza del valore della pace: una linea politica che si è dimostrata forte e vincente in campo internazionale.

E tuttavia, come dimostra a contrario il caso inglese, è in particolare sul terreno della politica economica e sociale, sulla capacità di riformare lo stato sociale e gli apparati pubblici, di vincere le resistenze corporative, convincendo la società a pagare il costo delle riforme, che si conquistano o si perdono le menti e i cuori dei cittadini-elettori.

Anche perché, la stessa possibilità di influenza nelle relazioni internazionali è in buona misura funzione della solidità economica. Il “soft power”, la potenza dolce, fondata sulla capacità di influenza e persuasione, sull’esercizio di un’autorevolezza morale conquistata nel tempo, è una risorsa strategica, tanto più per una media potenza come l’Italia. Ma non può esserci “soft power” che prescinda dall’”hard power”, la potenza dura, che non è data solo dalla forza militare, ma innanzi tutto da quella economica, dall’autorità che deriva dalla solidità e dall’efficienza del proprio modello economico e sociale.

Whig o tory

Proprio l’intreccio tra politica estera e politica economica e sociale ci dice quanto i problemi che l’Italia ha di fronte a sé, per scongiurare il rischio della marginalità e della retrocessione, siano problemi di carattere culturale e non solo politico.

Nello spiegare l’insufficienza riformista della manovra finanziaria, Padoa Schioppa rifletteva l’altra sera sul carattere degli italiani: capaci di compiere sforzi enormi per evitare il baratro, quando se lo trovano davanti, ma non altrettanto disposti ad impegnarsi per il primato, per eccellere, non come individui, ma come Paese.

E oggi che il baratro davanti a noi non c’è, o non si vede, perché l’euro ci ripara dalla crisi valutaria nella quale precipitammo nel 1992, diventa più difficile mobilitare le riserve morali del Paese attorno ad un impegno collettivo per il risanamento, lo sviluppo, l’equità.

Questo retaggio storico è allo stesso tempo la ragione della mancanza in Italia di un grande partito democratico, popolare e nazionale, capace di organizzare la mobilitazione delle risorse intellettuali e morali del Paese, per canalizzarle verso obiettivi di progresso, e la ragione per impegnarsi a costruirlo questo soggetto, perché ne va della qualità civile e democratica del nostro futuro.

Con le parole di Beniamino Andreatta, mi viene da dire che dal successo di questa nostra impresa, l’impresa del Partito democratico, del Partito dell’Ulivo, dipende la possibilità, per l’Italia, “di girare la storia su se stessa, frustrando le visioni della storia, caratteristiche della visione degli antichi, di un eterno ritorno. Per dirla con i filosofi della storia inglesi, per trovare una prospettiva whig della storia, progressiva e in cui l’uomo può imparare dai suoi errori, piuttosto che una storia tory, di una condanna ciclica in cui la natura domina e i problemi rimangono sempre con noi”.

La visione tory di una storia come condanna all’eterno ritorno dell’identico ha a lungo alimentato e continua ad alimentare una copiosa letteratura sulla naturale e perciò insuperabile diversità, anomalia, originalità del caso italiano, come tale irriducibile al più ampio contesto europeo.

Questo argomento è stato a lungo invocato per contrastare il bipolarismo politico, oggi viene ampiamente utilizzato per contrastare la prospettiva del Partito democratico, o almeno (e più diffusamente) per ridurne in modo sensibile la carica innovativa.

E tuttavia, per utilizzare ancora lo schema di Andreatta, lo storicismo tory è un cattivo storicismo e la visione whig della storia ha ben più solidi argomenti dalla sua parte. E’ infatti la storia del nostro paese e non la cronaca politica, che domanda la fondazione di un nuovo partito che sia anche un “partito nuovo”: il Partito democratico, il partito dell’Ulivo.

Perché è storia del nostro paese e non cronaca politica il ricongiungimento dell’Italia all’Europa: dopo l’89 e la caduta del muro di Berlino, che chiusero la lunga anomalia dell’egemonia comunista sulla sinistra italiana e determinarono di conseguenza anche le condizioni della fine dell’unità politica dei cattolici; e dopo il ’91-’93, con il superamento del vecchio sistema politico bloccato e governato dal centro, in favore di uno di stampo europeo, perché bipolare e fondato sulla competizione al centro.

Un ricongiungimento all’Europa, quello del sistema politico italiano, intrapreso e tuttavia ancora incompiuto, proprio perché limitato a due, pur fondamentali, aspetti: le culture politiche e le regole della competizione (peraltro anch’esse riformate a metà). Al pieno ricongiungimento all’Europa manca un terzo pilastro, che è per l’appunto quello dei soggetti politici: partiti che per dimensione elettorale e qualità democratica siano in grado di svolgere, nel nostro paese, una funzione paragonabile a quella svolta negli altri paesi europei dai grandi partiti nazionali.

La mancanza del terzo pilastro rende fragili gli altri due: sul terreno delle culture politiche, l’innovazione aperta dalla frattura dell’89 resta incompiuta e quindi sempre in bilico tra nuovismo populistico e nostalgie identitarie. Allo stesso modo, il bipolarismo indotto dalle regole, in mancanza di partiti politici “a vocazione maggioritaria”, dunque grandi, plurali, nazionali, orientati al governo, resta sospeso tra semplificazioni plebiscitarie e rigurgiti neo-proporzionalisti.

La mancanza del terzo pilastro è in definitiva un fattore di debolezza del sistema politico e quindi della stessa democrazia. E’ un fattore di freno oligarchico alla partecipazione democratica ed al ricambio fisiologico del ceto politico. Ed è un ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione di governo, che non può prescindere, in una moderna democrazia, dalla funzione di rappresentanza e di sintesi politica di grandi partiti nazionali. E’ insomma uno dei fattori non secondari, proprio in quanto di medio periodo, di quel rischio di declino col quale l’Italia si trova drammaticamente a confrontarsi.

La consapevolezza dell’ambiziosa complessità della fondazione di un partito nuovo, quale vuole essere, nel campo del centrosinistra, il Partito democratico dell’Ulivo, deve quindi accompagnarsi alla simmetrica consapevolezza della ineludibile necessità e anzi della stringente urgenza, per il paese, di una simile intrapresa: c’è in gioco il successo dell’azione del governo di centrosinistra; c’è in gioco il futuro stesso del paese, il segno dell’esito dell’attuale transizione, che può sfociare in una crisi democratica o invece in una rinascita civile.

La consapevolezza della necessità e dell’urgenza di dar vita al partito nuovo nulla toglie alla difficoltà dell’impresa. Che è anche e forse innanzi tutto una difficoltà politico-culturale: come costruire in Italia un moderno partito di centrosinistra europeo, che sia al tempo stesso pienamente europeo e pienamente italiano, pienamente inserito nel sistema politico europeo e tuttavia capace di parlare alla storia politica italiana, così diversa da quella degli altri paesi europei: perché per l’appunto segnata a lungo dall’egemonia comunista (sia pure di un comunismo originale e anch’esso anomalo) sulla sinistra, dalla speculare unità politica dei cattolici in un grande partito di centro (che peraltro, secondo la celebre affermazione degasperiana, muoveva verso sinistra) e dal carattere minoritario, frammentato, talvolta subalterno, del socialismo democratico.

Fede religiosa e idea socialista

Di questa diversità italiana era lucidamente consapevole il giovane Giuseppe Dossetti, che in un profetico articolo apparso agli albori della nuova Italia, l’8 settembre del 1945 su “Reggio Democratica” (e che potrebbe a pieno titolo figurare tra i testi fondativi del nuovo Partito democratico), si interrogava sulla compatibilità tra “Fede religiosa e idea socialista”.

Per stabilire se c’è compatibilità tra religione e socialismo, scriveva Dossetti, “bisogna innanzi tutto precisare che cosa si intende per fede religiosa e per idea socialista; ed in particolare bisogna chiarire di che socialismo si parla.

Soprattutto non bisogna barare accomunando sullo stesso piano il socialismo, per esempio italiano, e quello odierno di Blum o quello del laburismo inglese”.

“La religione – continuava Dossetti – richiede per lo meno le seguenti cose: che si creda allo spirito umano come libero e immortale e che perciò si creda al valore essenziale della persona, in quanto libera e destinata all’eterno, come fine al quale il buon ordinamento dello Stato è preordinato e condizionato, e non come mezzo e strumento che può essere allo Stato subordinato e dallo Stato usato a suo piacimento”.

“Ora – scriveva ancora Dossetti – con una religione così intesa è perfettamente compatibile un socialismo che vuole rompere le catene dei lavoratori, che vuole portarli ad edificarsi con le loro mani una società giusta, ma che desidera tutto questo appunto perché in ogni momento riconosce e aspira a potenziare la persona e la libertà e perciò si vale di metodi che non contrastano alla dignità spirituale della persona (come invece contrastano la predicazione dell’odio e della violenza) o alla sua libertà interiore (come contrastano la dittatura, l’asservimento totale del singolo alla collettività)”.

“Incompatibile, irrimediabilmente incompatibile con la religione (con qualsiasi religione: con la cattolica come con le protestanti, con la cristiana come con l’ebrea)” è invece per Dossetti “quel socialismo che nelle sue giuste e vere aspirazioni di giustizia sociale e di rinnovamento strutturale della società, parte però dalle false premesse del materialismo storico, cioè della negazione dello spirito, della sua vocazione eterna e della sua libertà, e perciò pretende di attuare quaggiù la società perfetta con la lotta di classe, con la distruzione violenta, con l’imposizione dall’esterno, con l’assoggettamento dell’uomo allo Stato, con la dittatura del proletariato, ecc. Questo come dottrina è il socialismo marxista; questo, come esperienza storica, è il socialismo del Partito comunista; questo è il socialismo del Partito socialista italiano, finché Nenni si dichiarerà, come si dichiara, fermamente e irriducibilmente legato alle radici del marxismo ortodosso”.

“Non è però – osserva Dossetti – il socialismo dei laburisti inglesi e degli altri partiti socialisti dell’Europa Occidentale che comprendono sempre più la parte di menzogna del marxismo e più ancora la sua antistoricità, cioè il suo superamento, e che perciò si orientano verso forme nuove, verso orizzonti più aperti. Sono gli orizzonti di un socialismo spirituale e cristiano, quel socialismo che non solo noi vogliamo, ma che fermamente crediamo sarà la grande conquista dell’Europa di domani”.

Così si esprimeva, sessantuno anni fa, uno dei padri del cattolicesimo democratico italiano, ancora oggi da più parti ingiustamente dipinto come l’ideologo del “cattocomunismo”. Un testo che dimostra come, scavando sotto le radici della diversità italiana, ci si possa imbattere in una vena profonda, che con l’Europa comunicava. Una vena nella quale socialismo e cristianesimo si cercavano nel nome della libertà eguale. Una vena che può alimentare in modo storicamente consapevole l’incontro che oggi può realizzarsi nel Partito democratico. A condizione che il terreno della discussione e del confronto sia politico-culturale, dunque storico-concreto e non astrattamente identitario.

Per il giovane Dossetti, il problema del rapporto col socialismo non è identitario, del tipo: non possiamo dirci socialisti perché siamo cristiani. Ma politico-culturale: dobbiamo distinguere tra il socialismo che noi vogliamo e quello con noi incompatibile. Una distinzione che nella sua analisi passa lungo il confine che separa l’Italia dall’Europa: qui, nell’Italia del 1945, nel socialismo prevale la versione comunista o comunque marxista, incompatibile con l’ispirazione cristiana e religiosa in generale, mentre nel resto dell’Europa occidentale il socialismo è democratico, liberale e in molti casi, a cominciare dal laburismo inglese, impregnato di cristianesimo.

Dalle illuminanti considerazioni del giovane Dossetti sarebbe fuorviante trarre la conclusione che si tratti oggi di costruire in Italia un grande Partito socialista. Sessant’anni di storia non passano invano. E quella storia non ci ha consegnato un partito socialista assimilabile, sul piano della cultura politica, della capacità di rappresentanza e delle dimensioni elettorali, ai grandi partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei. La nostra storia è stata diversa, nel bene e nel male: e con la storia non si polemizza. Per dare alla democrazia italiana un partito che svolga in Italia la funzione nazionale che quei partiti svolgono nei loro paesi, è necessario dar vita, insieme, ad un Partito democratico.

Dalle illuminanti considerazioni del giovane Dossetti va tratto piuttosto lo stimolo a deideologizzare, per così dire a “ridurre allo stato laicale”, la questione della collocazione europea del nuovo partito. Il Partito democratico italiano non potrà collocarsi in Europa, se non nel campo del socialismo europeo. Un campo che potrà (e dovrà) essere ulteriormente allargato ed arricchito, ma che in nessun caso potrà prescindere dal Pse. Non solo non ci sono le condizioni per pensare ad altro: non ci solo le ragioni per farlo.

Un socialismo spirituale e cristiano

E non perché il Pse sia oggi semplicisticamente identificabile con “quel socialismo che non solo noi vogliamo, ma che fermamente crediamo sarà la grande conquista dell’Europa di domani”, di cui parla Dossetti. Ma certamente perché è in quel campo di forze e non altrove che il sogno dossettiano può trovare una qualche realizzazione politica.

Il problema del partito nuovo non sarà quindi, non dovrà essere, quello di concepirsi come distinto e distante dal socialismo europeo, ma piuttosto quello di battersi, insieme al socialismo europeo (e oltre il socialismo europeo) per quegli obiettivi umanistici che Dossetti indicava nel suo articolo giovanile: “rompere le catene dei lavoratori… per edificare una società giusta… in quanto riconosce e aspira a potenziare la persona e la libertà…”

Un programma autenticamente socialista, proprio in quanto allo stesso modo e inestricabilmente liberale e cristiano. Un programma tutt’altro che “moderato”. Un programma “radicale”, che tuttavia non può essere perseguito, non solo “con la dittatura del proletariato”, condannata dalla storia, ma neppure con “l’assoggettamento dell’uomo allo Stato”, secondo una visione statalistico-burocratica che ha permeato le politiche pubbliche, socialiste e non solo (in Italia e in Germania, anche democristiane), di buona parte della seconda metà del secolo scorso.

Per molte ragioni la via statalista non è più praticabile, ma ce n’è una che le riassume tutte ed è la crisi di sovranità dello Stato nazionale, che a lungo era stato lo strumento principale delle politiche di stampo egualitario. Una politica per la giustizia in gran parte è oggi una politica sovranazionale. E una politica “socialista”, ma potremmo dire una politica “umanista”, è oggi una politica che mira alla costruzione di regole e strumenti di governo internazionali, che non lascino il destino degli uomini e dei popoli, di miliardi di esseri umani, in balia di ciechi e impersonali meccanismi automatici, basati esclusivamente sulle ragioni della forza.

Una sfida gigantesca, dalla quale dipende probabilmente la salvezza stessa dell’umanità. Una sfida che sta già connotando il secolo presente e che può riempire di senso la lotta collettiva di un’intera generazione. Una sfida alla quale il partito nuovo, il Partito democratico italiano, non può non prendere parte. E non potrà farlo se non insieme al socialismo europeo e internazionale e al più ampio schieramento progressista e democratico: quella grande comunità di forze che, pur tra limiti e contraddizioni, rappresenta oggi la principale multinazionale politica della solidarietà e dell’uguaglianza.

Ma la riflessione di Dossetti non si ferma qui, alla compatibilità tra cristiani e socialisti, come sostiene Castagnetti in garbata polemica con noi. Dossetti dice qualcosa di più: il “socialismo che non solo noi vogliamo, ma che fermamente crediamo sarà la grande conquista dell’Europa di domani”, è un socialismo “spirituale e cristiano”. Questo è un punto di assoluta importanza: ne va della qualità del Partito democratico, il suo essere davvero un partito nuovo, oppure un mero contenitore di partiti confederati.

Castagnetti ha ragione quando sostiene che il Partito democratico deve rappresentare non un ingresso, ma un incontro. Il problema è capirsi sulla natura e la qualità di questo incontro. Castagnetti chiede che “la tradizione del cattolicesimo democratico sia riconosciuta, alla pari di quella del socialismo democratico e della liberaldemocrazia, come cultura di riferimento del nuovo partito”. Espressioni quasi identiche, per la verità, sono abitualmente utilizzate da molti nostri compagni, dirigenti dei Ds.

C’è un’insidia tory in questo linguaggio. Si sente aria di eterno ritorno dell’identico. Perché espressioni come queste non sembrano tener presente la ragione principale della necessità e urgenza di dar vita ad un partito nuovo: l’insufficienza di tutte e di ciascuna delle culture riformiste del Novecento, separatamente prese, a comprendere e affrontare le sfide del nuovo secolo.

Ma anche perché espressioni come queste non sembrano cogliere come il cambiamento di paradigma politico-culturale sia già e da tempo in mezzo a noi: al punto che è diventato ormai del tutto impossibile, non solo in Europa e nel mondo, ma perfino in Italia, cogliere ciascuna delle culture politiche del Novecento, per così dire “allo stato puro”, non già pienamente e diffusamente “contaminata” con le altre.

Non esiste, in Europa e nel mondo, una cultura socialista democratica che non sia impregnata di liberalismo e, assai di frequente, di spirito religioso. Tony Blair è allo stesso tempo socialista, liberale e cristiano. E non è affatto un’eccezione, nel panorama europeo. E il fatto che in Italia questo ancora non si veda abbastanza nella leadership dell’Ulivo e il sogno di Dossetti del 1945 ci appaia ancora come un’utopia davanti a noi è il segno di un ritardo da colmare e non di una originalità da diffondere.

Per questo a me piace usare espressioni leggermente, ma significativamente diverse. La tradizione cattolico-democratica, al pari delle altre, deve concorrere alla costruzione di una nuova cultura politica, fondamento del Partito nuovo. E ciò è possibile, proprio perché è da molto tempo che lo stiamo facendo, anche se spesso lo facciamo senza nemmeno accorgercene.

A questo allude, profeticamente, l’espressione del giovane Dossetti “socialismo spirituale e cristiano”: un’espressione intraducibile nel senso della coabitazione tra culture autosufficienti, ma nella elaborazione di una cultura nuova, che superi gli storici steccati tra sinistra laica e cattolicesimo democratico.

Non potrà infatti affermarsi in Italia una cultura politica nuova, senza una visione nuova del rapporto tra laicità e ispirazione religiosa. Il partito democratico non potrà e non dovrà essere un partito “di ispirazione cristiana”, ma dovrà essere un partito nel quale l’ispirazione cristiana abbia piena cittadinanza.

Al tempo stesso, il Partito democratico dovrà essere un partito laico, ma nel senso habermasiano di “post-secolare”: ovvero di una laicità che non ha nulla a che vedere “con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica”, in quanto essa riconosce alle convinzioni religiose “uno status epistemico che non è semplicemente irrazionale”, ma costituisce una dimensione irrinunciabile, ancorché non esclusiva e neppure generalizzabile, della comune razionalità.

In modo più discorsivo, il neosenatore democratico dell’Illinois, il nero Barack Obama, diceva in una conferenza nel giugno scorso che “i laicisti si sbagliano quando chiedono ai credenti di lasciare la religione fuori dalla porta, prima di fare il proprio ingresso in pubblico. Lincoln, Martin Luther King e in sostanza la maggior parte dei grandi riformisti della storia americana non solo erano motivati dalla fede, ma hanno più volte usato un linguaggio religioso per sostenere la loro causa”.

Penso che sarebbe più interessante, per i cattolici democratici, una discussione innovativa (e perciò non introversa) sul rapporto tra spiritualità, etica e politica, che questa guerra di trincea (che a me parrebbe già persa nei fatti, al di là delle intenzioni) sulla collocazione europea del nuovo partito.

O anche sulle forme e sui modi di una nostra presenza associata dentro il Partito democratico. Non sono contrario, in linea di principio, a momenti e strumenti di riflessione comune, nel partito nuovo, tra cattolici democratici.

Ma la sfida vera è altrove. E altrove è allora la nostra funzione, almeno quella di noi cristiano sociali. Dobbiamo promuovere una riflessione di tutto il partito nuovo sul ruolo “politico” della religione: un ruolo che nessuno può più disconoscere, ma che può degenerare verso il fanatismo, fino a fare della religione la più potente forza distruttrice, fino al nichilismo, del nostro tempo, o invece produrre le motivazioni più tenaci e pazienti alla costruzione della pace e della libertà eguale per tutti, attraverso la cultura della fraternità.

E per altro verso sui termini nuovi del rapporto tra etica e politica: le grandi questioni antropologiche del nostro tempo, che chiedono una rivisitazione della tavola dei valori fondamentali della convivenza civile, lungo l’asse che collega la libertà con la responsabilità. Questioni che possono essere comprese, affrontate e risolte, in una chiave né repressiva né permissiva (due varianti dell’unica cultura di destra), ma pienamente umanistica, solo attraverso la contaminazione tra le culture: una contaminazione della quale la “spiritualità”, prima ancora dell’etica, cristiana non può non essere parte fondamentale.