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La lezione irachena e i ritardi del centrosinistra

Relazione all'Assemblea annuale di LibertàEguale Orvieto, 1 ottobre 2004

Ieri, mentre in Italia festeggiavamo il ritorno a casa di Simona Torretta e Simona Pari, a Baghdad morivano 37 bambini, dilaniati da un'autobomba di al-Qaeda - che definire "terrorista" è troppo poco - "accorsi, riferisce l'Ansa, a prendere le caramelle distribuite da soldati americani". Evidentemente, per la follia fanatica e nichilista del terrorismo jihadista, bisognava salvare quei bambini dal peccato, dalla corruzione, dalla contaminazione, anche a costo di immolare le loro giovani vite. Dio fermò la mano di Abramo su Isacco, ma il terrorismo blasfemo sembra averlo dimenticato. Stamattina, gli stessi americani delle caramelle hanno ammazzato 80 persone a Samarra: alcuni erano "insurgents", uomini con le armi in pugno (comunque, nello stesso linguaggio dell'esercito Usa, non "terroristi"); altri erano persone inermi, donne e bambini compresi. Evidentemente, per gli strateghi del Pentagono, è normale che la falce della morte, virgilianamente recida anche i fiori appena sbocciati. In questo chiasmo del dolore e dell'orrore sta l'assurdità della tragedia irakena, ma forse anche, per chi si sforzi di guardarvi dentro con spirito di verità, il possibile spiraglio su una via d'uscita.

A quanto è dato capire, l'esito felice della drammatica vicenda delle due giovani volontarie italiane rapite a Baghdad, è stato reso possibile da tre fattori fondamentali, oltre alla professionalità e all'impegno dei nostri apparati pubblici e di sicurezza: la compattezza del fronte interno italiano, la solidarietà del mondo islamico e della società irakena, l'apertura di canali di trattativa politica con l'area "grigia" sunnita, situata tra il terrorismo e il governo Allawi. Si tratta di tre risorse preziose, che sarebbe irresponsabile disperdere e imperdonabile non riutilizzare nella ricerca di una soluzione, almeno passabilmente parziale, alla crisi irakena. Questo sembra essere del resto il significato concreto dell'appello angosciato, nella gioia della libertà e della vita ritrovate, da parte delle due Simona, a "non dimenticare l'Iraq". Un appello nel quale è implicita la convinzione, tutt'altro che infondata, che l'Italia possa fare qualcosa - e qualcosa di non marginale - per "salvare l'Iraq".

Per provare a ragionare su quale possa essere il contributo italiano ad una "exit strategy" non dall'Iraq, ma per l'Iraq, può essere utile affrontare le tre domande che il direttore di "Newsweek International", Fareed Zakaria, ha rivolto dal suo giornale ai due candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Primo: qual'è la natura del conflitto nel quale siamo coinvolti (beninteso il conflitto che è cominciato l'11 settembre di tre anni fa, del quale quello in atto in Iraq, come per altri versi quello in Afghanistan, è solo una battaglia, ancorché una battaglia oggi forse decisiva). Secondo: che cosa intendiamo per vittoria, in questa guerra. E terzo: come pensiamo che ci si possa arrivare, alla vittoria.

Alla prima domanda di Zakaria, un grande intellettuale democratico americano, il Decano della Kennedy School of Government ad Harvard, Joseph Nye, risponde così: "Gli americani - e non solo - si trovano a fronteggiare una sfida inedita da parte del lato oscuro della globalizzazione e della privatizzazione della guerra che ha accompagnato le nuove tecnologie. Questo è il focus della nostra strategia di sicurezza nazionale, che talvolta è riassunto nel termine di guerra al terrorismo. Come la guerra fredda, le minacce poste da varie forme di terrorismo non saranno risolte rapidamente e lo 'hard power' militare giocherà un ruolo vitale... Ma come la sfida della guerra fredda, anche questa non può essere affrontata solo con la forza delle armi. Per questo è essenziale che gli americani - e non solo loro - capiscano e utilizzino il 'soft power'", ovvero, nella definizione di Nye, che ha il "copyright" del termine, "la capacità di ottenere ciò che vuoi attraverso l'attrazione, piuttosto che la coercizione o il pagamento. Una capacità che scaturisce dalla forza di attrazione di una cultura, da un sistema di ideali e di valori, da scelte politiche. Quando le nostre scelte politiche sono viste come legittimate agli occhi degli altri, il nostro soft power si accresce...Se si riesce a portare gli altri ad ammirare i nostri ideali e a volere ciò che noi vogliamo, non si deve spendere più di tanto né in bastoni né in carote per muovere gli altri nella nostra direzione. La seduzione è sempre più efficace della coercizione e molti valori come la democrazia, i diritti umani, le pari opportunità individuali sono profondamente seducenti... Ma l'attrazione può capovolgersi in repulsione se si agisce in modo arrogante, perché si distrugge il messaggio attrattivo dei nostri valori."

Zakaria condivide la tesi di Nye. La guerra al terrorismo, al "dark side" della globalizzazione, è - dal punto di vista del rapporto tra hard e soft power - come la guerra fredda. Ma Zakaria osserva anche che l'amministrazione Bush, e in essa l'uomo forte per eccellenza, il vicepresidente Dick Cheney, ama invece accostare la guerra al terrorismo alla Seconda guerra mondiale. E questa diversa valutazione sulla natura del conflitto in atto è alla radice non solo della decisione di invadere l'Iraq, ma anche della minimizzazione dei costi sopportati e degli errori, anche militari, commessi. "I sostenitori del presidente - osserva Zakaria - spiegano che in una guerra all'ultimo sangue con un nemico mortale, si deve combattere ovunque e comunque. E le cose non sempre vanno bene. Churchill e Roosvelt fecero molti errori durante la Seconda guerra mondiale. Ma essi andarono avanti, fino in fondo. Chi discute più, oggi, se valse la pena invadere il Nordafrica? Qualche volta si conquista la collina sbagliata. E' la guerra".

L'Iraq è la collina sbagliata, tanto quanto l'Afghanistan è una collina giusta. Martedì 21 settembre scorso, a New York, mentre Bush parlava all'Onu, a pochi grattacieli di distanza, alla New York University, Kerry attaccava: "Il presidente sostiene che l'Iraq è il pilastro della sua guerra al terrore. In realtà l'Iraq ha costituito una profonda diversione da questa guerra e dalla lotta contro il nostro più grande nemico, Osama bin Laden e i terroristi". Uno sbaglio di collina, frutto di un errore di valutazione sulla natura del conflitto. Uno sbaglio di collina che rischia di costare caro, in termini di soft power, agli americani e non solo a loro. Filippo Andreatta ha osservato come all'invasione dell'Iraq mancassero almeno tre dei quattro requisiti della tradizionale dottrina della "guerra giusta": la giusta causa (le armi di distruzione di massa), l'autorizzazione dell'autorità legittima (il Consiglio di sicurezza), la mancanza di alternative percorribili (il containment funzionava). Quanto al quarto requisito, la proporzionalità tra la minaccia subita e i mezzi impiegati e gli obiettivi perseguiti, la sua sussistenza è almeno dubbia.

Ciò non significa, va detto peraltro, che avessero ragione Francia e Germania. Come ha detto Bill Clinton in un'intervista al "Financial Times" del 15 luglio scorso, Bush non ha dato agli ispettori Onu il tempo che essi chiedevano per completare la verifica circa l'esistenza di armi di distruzione di massa. Blair voleva dare ad Hans Blix e ai suoi uomini il tempo che essi chiedevano. La posizione di Blair dunque non era la posizione di Bush. Ma Blair è stato spiazzato dalla posizione assunta da francesi e tedeschi che non erano preparati a rimuovere Saddam Hussein in alcuna circostanza. "Mr Blair had been right, but nobody was with him". Blair aveva ragione, ma in Europa nessuno si è schierato con lui. Non Chirac e Schroeder, ma neppure Aznar e Berlusconi, che si sono limitati a sostenere Bush, per così dire, "a prescindere".

Ma una collina sbagliata, in un conflitto così diverso dalla Seconda guerra mondiale, in un conflitto nel quale il soft power è così rilevante, rischia di produrre una disfatta strategica. "Saddam Hussein - ha detto ancora Kerry alla NYU - era un dittatore feroce, che merita il suo posto all'inferno. Ma questo non era, di per sé, un motivo valido per fare una guerra. La soddisfazione che traiamo dalla sua caduta non può nascondere questo fatto: abbiamo sostituito un dittatore con un caos che ha reso l'America meno sicura". Anche perché l'ha resa più sola nel mondo. "Pensateci un attimo - dice Kerry - Dopo gli eventi dell'11 settembre avevamo l'opportunità di unire il nostro Paese al mondo nella lotta contro i terroristi. Il 12 settembre i giornali stranieri titolavano "siamo tutti americani". Ma attraverso la sua politica in Iraq, il Presidente ha sprecato questa occasione e, invece di isolare i terroristi, ha isolato l'america dal mondo". Filippo Andreatta conclude che "i danni collaterali a livello di ordine globale (Onu, Nato, ecc) probabilmente non sono valsi la candela di un intervento, sebbene i benefici locali, per gli iracheni innanzi tutto, siano fuori discussione".

Per la verità, anche sui benefici locali la discussione è aperta eccome. E tuttavia questa forse ottimistica previsione di Andreatta ci regala la risposta alla seconda domanda di Zakaria: dov'è la vittoria, cosa intendiamo per vittoria? Al punto in cui sono oggi le cose, Zakaria (come per altri versi lo stesso Kerry) su questo punto concorda con Bush. La vittoria non può che consistere nella stabilizzazione democratica (almeno relativa) dell'Iraq. E' solo a partire dall'evidenza dei "benefici locali", che è possibile anche porre rimedio ai "danni collaterali a livello di ordine globale". E d'altra parte, pare difficile produrre effettivi benefici locali, ossia la stabilizzazione democratica dell'Iraq, senza riprendere la tessitura della trama strappata delle relazioni globali. Questa è anche l'opinione di Kerry, quando dice (alla NYU) "In Iraq c'è il caos. Ma non possiamo arrenderci. Non possiamo permettere che l'Iraq diventi una fonte permanente di terrore che metta in pericolo la sicurezza americana negli anni a venire"

Veniamo così alla terza questione posta da Zakaria: "the path to success", la via per riuscire a vincere la guerra col terrorismo, vincendo la ormai decisiva battaglia irakena. Nonostante le sue rassicuranti affermazioni, Bush sta perdendo la battaglia irakena, mettendo così a repentaglio l'esito della guerra al terrorismo. Su "Foreign Affairs", in un saggio dal titolo eloquente "What went wrong?", Larry Diamond, che non è solo un docente di Stanford o il condirettore del "Journal of Democracy", ma è stato anche uno dei consulenti di Paul Bremer in Iraq, scrive che "in conseguenza di una lunga catena di errori, la coalizione occupante ha condotto l'Iraq in una condizione assai peggiore di quella che sarebbe necessaria ed ha indebolito la prospettiva democratica". L'elenco degli errori politico-militari nella conduzione della guerra è lungo e dettagliato. Ma in definitiva, conclude Diamond, "non c'è alternativa al programma di transizione democratica che non implichi l'uno o l'altro di tre scenari terribili - la guerra civile, una nuova repressione di massa, l'instaurazione di un porto franco per organizzazioni terroristiche - o magari di tutti e tre insieme."

Ma il programma di transizione democratica non può basarsi sulla fideistica confusione strategica che regna tra la Casa Bianca, Foggy Bottom e il Pentagono. Kerry ha proposto il suo programma alternativo: "Dobbiamo rendere l'Iraq una responsabilità di tutto il mondo, perché tutto il mondo ha interesse in un'evoluzione positiva e quindi anche altri devono prendersi le loro responsabilità. Dobbiamo addestrare gli irakeni perché siano responsabili della propria sicurezza. Dobbiamo fare passi avanti nella ricostruzione, perché è essenziale rompere la diffusione del terrore. E dobbiamo aiutare gli irakeni ad avere un governo credibile, perché tocca a loro gestire il loro Paese. Questa è la maniera migliore di terminare l'opera e di portare le nostre truppe a casa".

Lo stesso Kerry dice che "non possiamo aspettare gennaio", ovvero (speriamo) un nuovo inquilino alla Casa Bianca, per cambiare rotta. Da subito è necessario un cambio che consenta una più ampia gestione multilaterale della crisi e la praticabilità delle elezioni, fortemente volute dalla principale autorità morale del Paese, l'ayatollah sciita al-Sistani, e gestite dall'Onu d'intesa col governo provvisorio e le forze della coalizione. La rotta va corretta con due iniziative politiche: la conferenza internazionale sull'Iraq di cui ha parlato la scorsa settimana Colin Powell, in qualche modo rispondendo all'iniziativa di Kerry; e una trattativa politica con l'area grigia, tra il terrorismo islamista e il governo Allawi, che sembra aver voluto rivelare la sua esistenza col sequestro delle due volontarie italiane.

Bisogna evitare di mettere tutte le forme di violenza in atto in Iraq nello stesso contenitore ideologico, per il quale tutto è terrorismo, o tutto è resistenza. In Iraq ci sono almeno tre o quattro forme di lotta violenta. C'è al-Qaeda, attraverso al-Zirkawi, terrorismo islamista, forma estrema e impazzita (nichilista, suicida) di jihad; c'è la rivolta sociale, più ancora che politica, del proletariato urbano dell'immenso quartiere sciita di Sadr City; c'è la vasta zona grigia sunnita: baathisti, ex-militari, ex-guardie repubblicane, ex-servizi segreti di Saddam. E' necessario distinguere, per isolare i terroristi da una parte, per offrire, dall'altra, una prospettiva ai diseredati e una via d'uscita ai vinti. Come dicono al Palazzo di Vetro, la sicurezza in Iraq non è solo una questione militare o di polizia, è innanzi tutto una questione politica: includere nel processo di guida della transizione tutti quanti non si oppongano in via di principio alla democrazia e alle elezioni. "L'occidente - ha scritto l'altro ieri Giani Riotta sul "Corriere" - deve imparare, con umiltà, a riconoscere il nemico. Affrontare con la guerra gli irriducibili, ma usare politica e diplomazia con chi è disposto al negoziato"

L'Italia può svolgere un ruolo importante, in questa direzione, sullo scenario internazionale e in Iraq. La vicenda delle due Simone lascia intravedere spazi di negoziato che vanno percorsi in questo mese che ci separa dalle elezioni americane. L'opposizione deve chiedere al Governo di muoversi in modo deciso in questa direzione e di esercitare ogni pressione possibile sugli americani perché non mettano in campo la forza militare nelle città insorte, senza aver prima esplorato fino in fondo la via della trattativa politica. L'opposizione deve garantire al Governo italiano lo stesso appoggio che ha saputo garantirgli nella vicenda delle due volontarie sequestrate, in cambio della stessa concertazione. Bisogna far presto. Tra un mese potremmo trovarci dinanzi alla scelta tra gli spaventosi scenari paventati da Diamond: abbandonare il campo, lasciando l'Iraq alla guerra civile e al terrorismo, o partecipare o anche solo assistere ad una controffensiva americana contro le città controllate dagli "insurgent", con i carri armati che sparano sulle case, i guerriglieri che muoiono insieme alle donne, ai bambini e a ciò che resta del soft power, americano e non solo.

Se Governo e opposizione riuscissero a condividere un'iniziativa per l'Iraq, che vada oltre l'insopportabile battibecco tra dischi rotti - "ritiro immediato" contro "restiamo perché la nostra è una missione di pace" - il bipolarismo italiano potrebbe ritrovare la strada di una politica internazionale condivisa nelle sue linee di fondo, come instancabilmente auspicato e richiesto dal Presidente Ciampi: no alla contrapposizione transatlantica tra un velleitario multipolarismo antiamericano e un arrogante unilateralismo americano, in favore di un unipolarismo multilaterale; no alla guerra di civiltà e si al dialogo tra le culture e le religioni e all'impegno convergente di Europa e Stati Uniti per un riequilibrio socio-economico tra Nord e Sud del pianeta; rilancio di una politica estera fondata su tre assi inseparabili: convergenza transatlantica, europeismo, amicizia mediterranea.