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La Sinistra e il futuro dell'Italia, lavoro, economia, Europa, Democrazia

Intervento al Convegno della Fondazione Italianieuropei - Roma, 19 marzo 2002

C'è un tema, al tempo stesso critico e ineludibile, nel confronto tra quelle che la convocazione di questa giornata di riflessione definisce, giustamente al plurale, "le culture del riformismo", impegnate nell'organizzare l'opposizione e nell'elaborare un progetto per il futuro del Paese.

E' il tema del "pluralismo sociale", riproposto con forza e perfino con durezza dall'aspro passaggio politico-sindacale che stiamo vivendo.

Il pluralismo sociale, l'articolato presidio di un fitto tessuto di quelle che Mario Romani chiamava "istituzioni della società civile", è condizione di democrazia, quanto al rapporto Stato-società, così come lo è la separazione dei poteri, nell'ambito della dottrina dello Stato.

"Le dottrine pluralistiche – scriveva un quarto di secolo fa Norberto Bobbio, nel vivo di una querelle sull'insufficienza della visione democratica dell'allora Pci, proprio perché incapace di pensare il pluralismo – nascono dalla scoperta dell'importanza dei gruppi sociali (una volta si diceva 'i corpi intermedi') che si interpongono tra gli individui singoli e lo Stato; e tendono a considerare bene organizzata quella società in cui i gruppi sociali godono di una certa autonomia rispetto al potere centrale e hanno il diritto di partecipare, anche in concorrenza tra loro, alla formazione delle deliberazioni collettive".

Si tratta di un tema che, come pochi altri, evidenzia la complementarietà delle culture, nessuna delle quali può definirsi autosufficiente rispetto alla grande questione del governo democratico della società moderna.

Il tema del pluralismo sociale è tra quelli che meglio definiscono l'apporto dell'ispirazione cristiana al riformismo. Furono i giovani professori democratici cristiani a spingere in Assemblea costituente perché l'articolo 2 della Costituzione parlasse di diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle "formazioni sociali" in cui si svolge la sua personalità. E fu in occasione della discussione di questo articolo che Dossetti parlò, per la prima volta in quell'aula, di "pluralismo sociale", aggiungendo che "dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate".

Dossetti aveva in mente, con tutta probabilità, il socialismo pluralistico di Hobson e Cole, del giovane Laski, noto soprattutto come "guild socialism", socialismo sindacalistico. Scriveva Cole nel 1941: "La democrazia reale che esiste in Gran Bretagna deve essere cercata non nel Parlamento né nelle istituzioni del governo locale, ma nei gruppi minori, formali e informali…E' in queste comunità che risiede lo spirito reale della democrazia".

Accanto al socialismo pluralistico, Dossetti pensava forse al pluralismo liberaldemocratico, da Bobbio definito, sulle orme di Tocqueville, come "l'ideologia più rappresentativa della società americana". Una visione che Robert Dahl riassume così: "invece di un singolo centro di potere sovrano, ci debbono essere molti centri, nessuno dei quali sia o possa essere interamente sovrano. Per quanto nella prospettiva del pluralismo americano il solo sovrano legittimo sia il popolo, anche il popolo non deve essere mai un sovrano assoluto...la teoria e la pratica del pluralismo americano tendono ad affermare che l'esistenza di una molteplicità di centri di potere, nessuno dei quali è interamente sovrano, aiuterà a domare il potere, ad assicurare il consenso di tutti, e a risolvere pacificamente i conflitti".

Attraverso il confronto con le culture di ispirazione socialista e liberaldemocratica, il pluralismo secondo quella che Bobbio definisce "la dottrina cristiano-sociale" ha potuto liberarsi del suo limite principale, l'organicismo statico, per abbracciare invece, grazie in particolare a quel grande crogiolo culturale che è stata la Cisl, una visione modernamente liberale e conflittuale della società.

Benigno Zaccagnini poteva quindi scrivere, nel 1976, che "la nostra concezione più aggiornata del pluralismo cristiano-sociale rifugge da modelli di società organica, giacché, con una coscienza storicamente più matura, riconosce e sconta le condizioni permanenti di conflittualità e tende a raggiungere "dinamicamente" una serie di equilibri che pur vengono continuamente minacciati".

Fin dalle sue radici più profonde, il tema del pluralismo allude ad una contaminazione, assai più che ad una demarcazione, tra le culture del riformismo. Una contaminazione che è sfidata a mostrare tutta la sua fecondità nel pieno dello scontro culturale, sociale e politico della fase che viviamo.

Nei riguardi del pluralismo sociale, il centrodestra ha un atteggiamento ambiguo. Per un verso, esso magnifica e sostiene la cosiddetta "solidarietà orizzontale", in chiave polemica contro i monopoli pubblici - senza neppure distinguere tra settori economici e servizi sociali - e la cultura "statalista" nella quale identifica il centrosinistra.

In realtà, tuttavia, il berlusconismo - inteso come cultura egemone, anche se in modo non pacificato, nel centrodestra - non propone, in alternativa al "tutto pubblico", una moderna visione di pluralismo sociale, ma piuttosto la riduzione della società alla sola dimensione del mercato: per di più un mercato nel quale la concentrazione del potere prevale sull'attenzione liberale alle regole a garanzia della concorrenza.

Una differenza di non poco conto, quella tra un antistatalismo in nome del pluralismo sociale e un antistatalismo in nome della pervasività unidimensionale del mercato; una diversità radicale, che molti settori, anche autorevoli, del mondo cattolico sembrano non cogliere, esponendosi così, nell'alleanza o comunque nell'intesa col berlusconismo (si pensi all'idea di buono-scuola) ad un forte rischio di eterogenesi dei fini. L'autorganizzazione non mercantile da parte della società civile è contemplata dal berlusconismo tutt'al più nell'ambito riparativo del sostegno alla marginalità sociale, secondo quell'ottica di "conservatorismo compassionevole" che accomuna molti partiti e governi di centrodestra, in Europa e nel mondo.

Esemplare è, al riguardo, la nuova normativa in materia di cooperazione. Mentre fin qui la cooperazione era stata considerata come un valore in sé, un arricchimento pluralistico del tessuto sociale ed economico del Paese, per il centrodestra essa va vista come un'anomalia, da sostenere in via eccezionale solo dove il mercato non può o non ha interesse ad arrivare. Sulla base della stessa cultura antipluralista, il Governo Berlusconi ha ripetutamente dichiarato morta la concertazione. In sua vece, ha proposto un ambiguo "dialogo sociale" che, a differenza della concertazione, presuppone una subordinazione gerarchica – e non solo una differenziazione funzionale – della rappresentanza sociale rispetto a quella politica.

Con il "no" allo stralcio della riforma unilaterale dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il Governo ha scelto la via dello scontro con l'intero movimento sindacale italiano. Non solo con la Cgil, ma con la stessa Cisl, da sempre convinta del carattere pluralistico delle società contemporanee e dell'impossibilità di ricondurre il conflitto sociale dentro il solo alveo del conflitto politico: tra la dimensione sociale e quella politica del conflitto esistono infatti legami intensi, ma anche una irriducibile autonomia reciproca, che solo una visione ideologica può ignorare.

E' essenziale che questa visione, la visione di un moderno pluralismo sociale, assieme al necessario corollario di una cultura dell'autonomia, a cominciare dall'autonomia del sindacato dai partiti e dagli schieramenti politici, compreso il nostro schieramento politico, entri a pieno titolo nella rielaborazione della piattaforma culturale del riformismo italiano.

Lo richiede la fatica, evidente soprattutto a sinistra, nel liberarsi da una vecchia concezione collateralistica tra sinistra politica e sinistra sindacale: un ritardo che ha contribuito, in una misura che è difficile sopravvalutare, all'ennesimo fallimento, in questi anni, della prospettiva unitaria per il sindacalismo confederale; un ritardo che ha pesato, e non poco, sullo stesso risultato elettorale del 2001; un ritardo che, qualora non venisse colmato da un supplemento di riflessione e di elaborazione culturale e politica, potrebbe condurre la grande mobilitazione sociale in atto, verso sbocchi sterilmente antagonistici, come già fu nel 1984-85, anziché ad esiti riformisti, gli unici che possono portare a vincere le ragioni del lavoro.