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La sfida della bioetica

Relazione al Convegno nazionale dei Cristiano Sociali - Vallombrosa, 8 settembre 2000

C’è una tematica che ci ha fatto soffrire, in modo particolare, in diversi passaggi della legislatura che si avvia alla conclusione. Ha fatto soffrire il movimento dei Cristiano sociali, a cominciare dai nostri parlamentari. E’ la tematica del rapporto tra laici e cattolici, nell’Ulivo, attorno alle questioni etiche più controverse e "sensibili": quelle che riguardano la vita umana personale, la sua origine, la sua fine, la sua riproduzione.


 


Naturalmente usiamo i termini "laici" e "cattolici" con consapevole genericità e approssimazione. Usiamo, stavolta, il termine "cattolici" e non quello "cristiani" che ci è consueto – anche grazie alla preziosa presenza, tra di noi, di autorevoli esponenti del cristianesimo non cattolico – perché è in particolare col cosiddetto "mondo cattolico", nei suoi rapporti col "mondo laico", che si sono registrate in questi anni, su questi temi, le maggiori difficoltà.


 


Vorrei utilizzare come filo d’Arianna del ragionamento, un passaggio dell’intervento di Alcide De Gasperi alla Settimana sociale dei cattolici italiani del 1945. "Avvicinarsi a questa assise – diceva De Gasperi – è come eseguire una grande ascensione montana. Ci si trova in un’atmosfera ossigenata… Non sempre quando si scende dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera e direi non sempre la stessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione; ma scendendo a valle, camminando tante volte per vie più difficili, più aspre, più tortuose, trovandoci spesso dinanzi a impensate opposizioni, noi abbiamo sempre bisogno del lume dei princìpi e avremo bisogno dell’ispirazione che viene dalla vostra assise".


 


Le parole di De Gasperi ci aiutano, credo, a impostare correttamente i temi, strettamente intrecciati tra loro, anche se tutt’altro che sovrapponibili, del rapporto tra laici e cattolici e tra etica e politica.


 


De Gasperi parla da credente a credenti, da cattolico a cattolici. Ma parla anche da laico, suggerendo la possibilità di concepire e di vivere storicamente la coppia laici-cattolici, o meglio ancora cristianesimo-laicità, in termini non oppositivi, ma anzi di forte e felice integrazione.


 


Egli fissa una distanza, uno scarto, potenzialmente perfino un conflitto, tra quelle che definisce significativamente "aspirazioni di principio" – e vorrei sottolineare il termine "aspirazioni", sul quale tornerò tra breve – e le "possibilità di azione", "quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui". Seconda sottolineatura: De Gasperi parla di "opinioni", non di rapporti di forza. Come dire che la ricerca della "via di mezzo", della mediazione tra le aspirazioni di principio e le possibilità di azione, non solo è una necessità, ma è anche un valore.


 


De Gasperi traccia in questo modo anche un profilo del rapporto tra etica e politica, proponendo dell’etica una concezione dinamica, come "aspirazione", potremmo dire come "ricerca", ancorché "ispirata" – altra, significativa espressione degasperiana – e illuminata dai "princìpi".


 


Con questo linguaggio, con questa accurata scelta di termini, De Gasperi indica ai cattolici italiani una visione dell’etica liberante e liberale – che non significa affatto, si badi bene, una visione meno esigente e rigorosa. Una visione nella quale il tema del dialogo tra lo Spirito e la storia prevale di gran lunga sulla concezione autoritaria – allora, e talvolta verrebbe da dire ancora oggi, egemone nel mondo cattolico – secondo la quale i princìpi morali sono iscritti nella natura, sono di immediata evidenza e non si deve far altro che trascriverli nella società, sotto la guida dell’autorità della Chiesa.


 


Una visione, quella degasperiana, che anticipa di vent’anni la storica dichiarazione conciliare sulla libertà di coscienza, la "Dignitatis humanae", e che si allontana sideralmente dalla condanna senza appello, della stessa libertà di coscienza, da parte del Sillabo di Pio IX.


 


Una visione liberante e liberale, ma non per questo meno esigente e rigorosa. All’autorità di una legge esterna si può tentare di sfuggire, con mille pretesti e sotterfugi. Ad una legge morale agostinianamente (e kantianamente) impressa "in interiore homine", cioè affidata alla responsabile libertà della coscienza, non si può invece né sfuggire, né mentire.


 


Sarebbe bene – ultimo inciso, a conclusione di questa premessa – che il centrosinistra non regalasse De Gasperi alla destra, avallando una riduzione della figura del grande statista trentino allo stereotipo generico dell’anticomunista. Uno stereotipo che dimentica che l’anticomunismo di De Gasperi fu un anticomunismo in nome della libertà e non degli interessi cattolici; tanto meno in nome degli interessi del "capitale", o della "borghesia", come dimostra la sua arcinota ma spesso dimenticata fede "laburista", opportunamente riproposta dal "Popolo" diretto da Rosy Bindi, con la pubblicazione qualche settimana fa della storica intervista al "Messaggero".


 


 


 


La sconfitta sulla procreazione assistita


 


 


La meditazione degasperiana, tanto credente quanto laica, ci consente, io credo, di gettare una luce sulla difficoltà, dinanzi alla quale si è trovata in questi anni l’alleanza di centrosinistra, l’Ulivo, ogni volta che ha dovuto fare i conti, in Parlamento e nel Paese, con questioni ad alta intensità e problematicità etica, tradizionalmente terreno di scontro tra la sensibilità che sommariamente definiamo "laica" e quella che, in modo ugualmente approssimativo, chiamiamo "cattolica".


 


Si tratta, come è noto, di questioni che riguardano, in particolare, lo stato giuridico della vita umana personale, con particolare riferimento alla sua origine, alla sua fine, alla sua riproduzione. Nonché, sia pure in modo assai meno critico, dei temi della sessualità, della famiglia, dell’educazione.


 


L’esperienza più lacerante e frustrante è stata, come è noto, quella della legge in materia di procreazione medicalmente assistita, sulla quale si è registrata, in varie fasi dell’iter parlamentare, una frattura scomposta – e dunque pericolosa e dolorosa –all’interno dell’Ulivo, col risultato, almeno al momento, di un sostanziale fallimento del tentativo, pure largamente condiviso, di regolare per legge un tema di grande importanza e rilevanza sociale.


 


Un fallimento grave, che sarebbe un errore minimizzare. Un fallimento che, ove confermato e ove non si operasse per porvi rimedio in modo convincente, rischierebbe e sta già rischiando di appannare la credibilità dell’Ulivo come luogo di incontro e di alleanza tra le diverse culture riformiste, a partire da un condiviso e definitivo superamento degli "storici steccati" tra laici e cattolici.


 


Un fallimento che rischierebbe e sta già rischiando di offrire alla destra argomenti a sostegno della tesi propagandistica, infondata e inaccettabile, che dipinge il centrosinistra come un accordo di potere, che può reggere solo a condizione di rimuovere o di accantonare almeno una parte significativa delle grandi questioni di principio che interpellano l’intelligenza e la coscienza dell’umanità contemporanea.


 


La vicenda più dolorosa è stata, per l’appunto, quella della legge sulla procreazione assistita. Ma non sono mancate difficoltà, polemiche, conflitti anche in altre occasioni: dall’atteggiamento da assumere in occasione della manifestazione sul "gay-pride", al tema spesso ricorrente, non solo in parlamento, ma anche in molte assemblee regionali o locali, del trattamento giuridico delle famiglie di fatto, o delle iniziative di prevenzione dell’aborto.


 


Da ultimo, la frattura è riemersa, anche se con qualche significativo intreccio di fronti tra laici e cattolici, dinanzi ai recenti sviluppi della ricerca scientifica e tecnologica sulla clonazione di cellule umane a fini terapeutici.


 


Le difficoltà nella coalizione hanno evidenziato il limite e la debolezza intrinseca di un’impostazione metodologica che ha pensato di poter distinguere nettamente tra questioni politiche e di governo da una parte – questioni impegnative per la coalizione e che come tali implicano un elevato grado di disciplina di maggioranza – e questioni etiche e di coscienza dall’altra, affidate alla libera discussione parlamentare.


 


Alla luce dell’esperienza, questa impostazione – pure largamente condivisa, e che per quanto ci riguarda anche noi cristiano sociali abbiamo fortemente sostenuto – mostra il bisogno di essere quanto meno riesaminata e rielaborata.


 


Innanzi tutto, questa impostazione è risultata debole nella sua applicazione anche perché non ha mai potuto realizzarsi compiutamente. Il dibattito parlamentare non è mai stato impostato sulla base di questo principio. La libertà di coscienza del singolo parlamentare è stata compressa, mortificata, in definitiva negata come principio fondamentale, da un insieme di fattori.


 


Sul versante cattolico, si è verificata una pesante pressione ecclesiastica, che ha più volte richiamato le coscienze dei parlamentari credenti non all’esercizio responsabile di una libertà, ma all’adeguazione del loro comportamento ad un’altra disciplina, diversa da quella di schieramento politico, ma pur sempre disciplina: quella dell’appartenenza ecclesiale.


 


Si è così nei fatti affermata una concezione della comunità cristiana che ne fa il luogo nel quale non solo si coltivano, degasperianamente, le "aspirazioni di principio", ma si definiscono anche – almeno su questi temi – le mediazioni possibili (e vincolanti) in sede legislativa e politica, trasferendo in sede ecclesiastica una responsabilità tipicamente laicale.


 


D’altra parte, sul versante della sinistra, a cominciare dal nostro partito, i Ds, la libertà di coscienza del singolo parlamentare ha dovuto confrontarsi con un orientamento maggioritario fatto valere come tale, sia nella comunicazione esterna, soprattutto da parte del partito, sia nella gestione dei gruppi parlamentari. La libertà di coscienza del singolo parlamentare, che pure ha potuto esprimersi, ha finito così col tradursi e ridursi all’esercizio di una facoltà di dissenso dall’orientamento del gruppo e del partito.


 


Infine, la decisione del Polo di assumere un orientamento politico unitario – sia pure tollerando dissensi individuali – ha trasformato dibattiti che si riteneva originariamente dovessero e potessero svilupparsi trasversalmente, in quanto per l’appunto regolati dal principio della libertà di coscienza del singolo parlamentare, in reiterati tentativi di mettere in difficoltà la maggioranza di governo, facendone intravedere una alternativa.


 


Il combinato disposto di queste tre fattori di pressione "disciplinare" ha sortito tre effetti: primo, ha trasformato nel centrosinistra la libertà di coscienza del singolo parlamentare in libertà d’azione, a prescindere dalla coalizione, per ciascuna forza politica, o quanto meno per ciascuna tradizione culturale, riproponendo l’antica frattura tra laici e cattolici; secondo, sia nel centrosinistra che nel centrodestra, ha ridotto la libertà di coscienza a libertà di dissenso dagli orientamenti espressi dai partiti e dai gruppi; terzo, ha consentito al centrodestra di presentarsi all’opinione pubblica con un’immagine di coesione, in contrasto con le lacerazioni emerse in modo vistoso nel centrosinistra.


 


Il rischio di un Ulivo "minimo" e di una sinistra "radicale"


 


 


Si può naturalmente minimizzare l’accaduto, ad esempio paragonandolo a quanto si verificava nel vecchio centrosinistra Dc-laici: una coalizione relativamente stabile e coesa sul piano del governo e quindi in grado di assorbire anche il colpo di maggioranze anomale e trasversali, in parlamento e nel Paese, su questioni come il divorzio o l’aborto.


 


Una minimizzazione del genere implica tuttavia un corollario che ha tutte le caratteristiche dell’inconveniente. Il corollario è una concezione minimalistica dell’Ulivo. Ove per minimalismo si intende una concezione della coalizione come alleanza tra forze politiche incapaci di un incontro, profondo e non solo estrinseco, contingente, transitorio, verrebbe da dire "emergenziale", tra le culture che li ispirano. In particolare, una concezione della coalizione come alleanza tra cattolici e laici che può produrre collaborazione al governo, ma non nella costruzione di un "ethos civile" o, come qualcuno dice, di una "religione civile" condivisa.


 


Non è certo il caso di riaprire la discussione sulla presenza o l’assenza del "trattino" nella parola "centrosinistra". Ma è certo che un centrosinistra che, su temi tanto rilevanti, come quelli, per così dire, "eticamente sensibili", per certi versi i temi che paiono destinati a conquistare centralità nella discussione sul futuro del genere umano, si rassegnasse alla giustapposizione delle culture tradizionali, rinunciando al dialogo ravvicinato e alla costruzione anche di una cultura politica comune, sarebbe un centrosinistra assai meno suggestivo dell’impresa ideale e culturale, prima ancora che politica, che l’Ulivo riesce ad evocare.


 


Vorrei aggiungere che anche ove la coalizione decidesse per sé una declinazione minimalista del dialogo e della collaborazione tra laici e cattolici e tra le diverse tradizioni e culture del riformismo italiano, a questo minimalismo non potrebbe rassegnarsi il partito dei Democratici di sinistra, che reca nel suo patrimonio genetico la cifra della contaminazione, della mescolanza, dell’incontro fecondo tra storie e culture, ben oltre la confederazione di partiti e partitini alla quale, secondo i critici, si sarebbe ridotta a Firenze la Cosa2. E invece, un partito nuovo, moderno e plurale, con alle sue radici, insieme, Gramsci e don Milani, Einaudi e i fratelli Rosselli, come si è immaginato, voluto e deciso al Congresso di Torino.


 


I Ds, il nostro partito, hanno particolare bisogno del dialogo ravvicinato e non della giustapposizione di culture tra laici e cattolici, se vogliono evitare il rischio che è stato definito da varie parti di una "deriva radicale". Un rischio che un recente editoriale della "Civiltà cattolica" (20 maggio 2000), dedicato ai Socialismi di ieri e socialismi di oggi in Europa – un editoriale che del socialismo di oggi esprime un giudizio sostanzialmente positivo – vede vivo e presente.


 


Dopo aver rilevato, in sede di giudizio conclusivo, "alcune convergenze dei ‘nuovi’ socialismi con la visione sociale cristiana, sia per quanto riguarda i princìpi di giustizia sociale, di libertà, di solidarietà, di sussidiarietà, sui quali i socialismi di oggi intendono fondare la loro azione, sia per quanto attiene alla promozione dei diritti umani, alla lotta ai razzismi e alle disuguaglianze sociali e culturali, sia per quanto concerne la necessità di regolare, nell’età della globalizzazione ‘selvaggia’ l’economia di mercato, affinché non crescano gli squilibri e le diseguaglianze tra i popoli ricchi e i popoli poveri", l’editoriale ammette che sulla base di queste "convergenze significative", "almeno su alcuni problemi pratici, cristiani e socialisti, come già in passato, potrebbero collaborare".


 


Tra le divergenze, "la Civiltà cattolica" annovera, sul piano teorico, "la visione laicista, immanentista e dunque non trascendente e non religiosa dell’uomo e della società". Sul piano pratico, un passato "anticlericale e anticristiano", del quale sono visibili "residui" anche nei socialismi di oggi. "Basti ricordare – si legge nell’editoriale – che i socialisti, ovunque giungono al potere, combattono più o meno apertamente la scuola cattolica e i princìpi etici cristiani riguardanti la morale familiare e quella sessuale".


 


Si tratta di giudizi che hanno, a mio modo di vedere, un carattere forzato e quasi obbligato: una sorta di contrappeso finale, giustapposto ad una lunga trattazione, quasi col proposito di attenuarne gli accenti eccessivamente favorevoli. Discutibile, sul piano dei fatti e non delle opinioni, il giudizio sulla visione "non religiosa dell’uomo e della società": certo, i partiti socialisti non sono partiti di ispirazione cristiana, ma non sono più, al contrario del passato, partiti ideologici; sono partiti programmatici, contraddistinti da una pluralità di ispirazioni ideali, tra le quali vi è anche l’ispirazione cristiana. Basti pensare alle radici religiose del laburismo inglese, alla forte presenza di cristiani e cattolici nel socialismo francese, in quello spagnolo e in quello italiano. Basti pensare alla figura del cattolico portoghese Antonio Guterres, leader del socialismo portoghese, capo del governo di Lisbona e da meno di un anno presidente dell’Internazionale socialista.


 


Quanto ai "residui" anticristiani, è incredibile che venga utilizzata una presunta ostilità nei confronti della scuola cattolica, dimenticando ad esempio che la prima legge di "parità" in Italia porta la firma di un ministro "socialista", il diessino Luigi Berlinguer.


 


E quanto ai temi della morale familiare e sessuale, si continua a sovrapporre, a mio avviso impropriamente, e di conseguenza a confondere, l’opzione di tolleranza e di rispetto per tutti gli orientamenti sessuali e per le diverse figure di famiglia, con un’opzione di indifferentismo o relativismo morale.


 


E’ tuttavia indubbio che il problema di un "pre-giudizio" cattolico nei riguardi dei partiti socialisti e, in particolare, nei riguardi dei Ds, esista e che proprio un ispessimento del dialogo tra culture cristiane e laiche nella sinistra possa aiutare a superarlo.


 


 


Forza Italia: cattolici con lo Statuto e liberali col Papa


 


 


Ma c’è un’altra ragione, una ragione non di partito, ma di coalizione, che conferisce al corollario dell’impostazione minimalistica le caratteristiche dell’inconveniente.


 


E’ la strategia del nostro avversario, del Polo in generale e di Silvio Berlusconi in particolare. Il nostro avversario ha deciso di avanzare agli italiani una proposta politica nella quale il superamento della frattura laici-cattolici ha un ruolo di primo piano. Si può anzi sostenere che non da oggi il Polo in generale e Forza Italia in particolare ha messo in campo, a sostegno della sua proposta politica, un’operazione culturale – sostenuta da un ampio schieramento mediatico, prima ancora che intellettuale – fondata proprio sull’incontro tra laici e cattolici.


 


L’operazione culturale del centrodestra si fonda sulla riproposizione dell’incontro tra cristianesimo e liberalismo. Una riproposizione che appare assai più affine ad un modello "gentiloniano" che ad uno "degasperiano".


 


Con Emmanuel Mounier si direbbe che il centrodestra ripropone un "cristianesimo borghese", la cui funzione principale è quella di fare da stampella al "disordine stabilito".


 


Al suo sorgere, Forza Italia si era presentata come un movimento che aveva al centro della sua proposta politica la "rivoluzione liberale e liberista". Il suo modello era la signora Thatcher e il suo slogan "meno Stato, più mercato".


 


Oggi Forza Italia non ha abbandonato il programma liberista, ma ha cercato di ammorbidirne l’impatto con la società italiana avvolgendolo in un involucro che non saprei definire altrimenti che di "cristianesimo borghese": un cristianesimo minimo, la cui funzione sociale è quella per un verso di addolcire la durezza del liberismo, per altro verso di favorire il formarsi e il consolidarsi di un blocco moderato potenzialmente maggioritario.


 


Ciò avviene, come dicevo, al prezzo di un’inversione "neo-gentiloniana" dello schema culturale degasperiano. I cattolici liberali storici definivano se stessi "cattolici con il Papa e liberali con lo Statuto". Ovvero, fedeli al Papa sulle questioni di fede, quelle che riguardano la coscienza e gli orientamenti di vita di ciascuno; e invece liberali in politica, fedeli allo Stato laico, sulla base della rivendicazione dell’autonomia laicale nel decidere delle questioni storico-politiche. Col Papa nelle questioni spirituali, col Re in quelle temporali. De Gasperi, il popolare e poi il democristiano che più aveva interiorizzato la lezione cattolico-liberale, l’aveva tradotta in uno stile di vita all’insegna del rigore esigente sul piano della coscienza personale e dell’altrettanto gelosa difesa della propria autonomia di laico cristiano nella vita politica.


 


Il modello "neo-gentiloniano", proposto e promosso da Forza Italia, capovolge lo schema cattolico-liberale storico: sulla base di un modello, per l’appunto, di cristianesimo borghese, si torna a proporsi come "liberali col Papa e cattolici con lo Statuto". Ovvero: si propongono e perfino si impersonano modelli non liberali, ma "libertini" di comportamento individuale e sociale – si pensi all’azione "pedagogica" condotta da ormai vent’anni dalle tv di Mediaset – e in cambio si sostengono, sul piano politico e legislativo, soluzioni e proposte fondate su una concezione "borghese", cioè perbenista e sottilmente autoritaria del cristianesimo.


 


Una concezione per la quale viene capovolta la norma morale che impone di essere esigenti con se stessi e tolleranti con gli altri, in favore di una norma che propone l’indulgenza con se stessi, con i propri comportamenti e stili di vita personali, e l’intolleranza moralista sul piano sociale: vizi privati e pubbliche virtù.


 


La Chiesa, o almeno una parte importante di essa, è tentata – nel senso evangelico del termine – dalla proposta berlusconiana. E’ tentata di fidarsi più del sostegno politico-legislativo ad un cristianesimo sociologico – le cui radici spirituali vengono nel frattempo inaridite – che della via maestra del dialogo con le coscienze, la via che dopo il Concilio e sulla spinta del pontificato di Paolo VI, prese il nome, in particolare nell'Azione cattolica di Vittorio Bachelet, di "scelta religiosa". Una scelta che non aveva nulla di intimistico, ma che mirava a spezzare qualunque legame collateralistico e neo-temporale della comunità cristiana, proprio per restituirle capacità di ascolto e di parola nei confronti dell’uomo contemporaneo. Una "scelta religiosa" che si proponeva anche di restituire dignità alla politica, esaltandone il valore e la funzione di servizio, e nutrendola attraverso l’immissione in essa di coscienze libere e forti di laici cristiani, esigenti con se stessi, tanto quanto aperti al dialogo e alla collaborazione con gli altri, vicini o lontani che fossero, in nome del bene comune possibile. Una "scelta religiosa" che ha restituito vigore pastorale alla Chiesa italiana e ha contribuito non poco alla tenuta della società italiana.


 


Da credenti, noi preghiamo il Signore e ci battiamo con serena libertà laicale, perché la Chiesa, la nostra Chiesa, non cada in tentazione. Da cittadini di questo Paese e da militanti del centrosinistra, vorremmo offrire un contributo di riflessione e di azione, affinché l’Ulivo riesca ad avanzare, in modo corale e convinto, una proposta più forte e convincente di incontro tra laici e cattolici. Una proposta culturale, prima ancora che politica. Una proposta che sappia parlare al Paese per aiutarlo a scoprire in sé stesso e nella sua storia le radici di un rinnovato "ethos civile". Radici che sono vive e presenti nella Costituzione repubblicana e che hanno tuttavia bisogno di essere riscoperte e riproposte, in termini rinnovati, dopo la cesura storica – allo stesso tempo liberante e problematica – rappresentata dalla fine dei partiti, di tutti i partiti, che quella Carta avevano scritto per l’Italia del dopoguerra.


 


 


Laici e cattolici: quattro spunti per il dialogo


 


 


L’Ulivo non può dunque accontentarsi di un incontro minimalista ed estrinseco tra laici e cattolici. Ha la necessità politica, oltre che il dovere morale, di proporre al Paese un modello forte e convincente di dialogo e di integrazione tra le culture, finalizzato alla definizione di un rapporto vivo e fecondo tra etica e politica.


 


Quattro mi parrebbero i punti da evidenziare per definire lo spazio di un possibile incontro tra laici e cattolici del centrosinistra, attorno alla questione del rapporto tra etica e politica.


 


In primo luogo, la condivisione di una concezione non ideologica della politica. Ove per ideologica si intenda una visione della politica come strumento di creazione di un uomo nuovo, radicalmente e definitivamente liberato dal male. La politica non ha questo compito. Ne ha uno molto più circoscritto e limitato, ma non per questo meno essenziale. Ha il compito di ridurre il male nel mondo, non quello di estirparlo dal cuore dell’uomo. In questo senso, credo possano essere condivise da tutti, laici e cattolici dell’Ulivo, le parole pronunciate da Giovanni Paolo II al grande raduno giubilare dei giovani a Tor Vergata, quando ha detto che le ideologie politiche che promettono agli uomini il paradiso in terra, si preparano a costruirgli un inferno. Parole sulle quali la convergenza tra laici e cattolici è più che possibile: e mi piace ricordare come accenti analoghi, del resto di derivazione popperiana, fossero contenuti nel passaggio di giudizio del Novecento nella relazione di Veltroni al Congresso Ds di Torino.


 


L’affermazione del limite della politica non va confusa – ecco il secondo punto – con una concezione della politica stessa ridotta a tecnica di conquista e di conservazione del potere, o anche a mera amministrazione dell’esistente. Dalla politica è ineliminabile la tensione morale verso il cambiamento della società. Aldo Moro parlava di "principio di non appagamento". Un principio che ha per strumento l’azione collettiva e non solo individuale. Per questo una visione della politica e della società che accomuni e caratterizzi le culture del centrosinistra non può essere una visione all’insegna dell’arbitrio dell’individuo, concepito come libertà solitaria. E neppure può tradursi in una concezione del rapporto tra etica e politica all’insegna del permissivismo o dell’indifferentismo morale. L’Ulivo non può non porre a fondamento della sua stessa identità una visione eticamente esigente e rigorosa della politica e della vita. Questo è "I care", il celebre motto di don Milani che i Ds hanno riproposto al Congresso di Torino. "I care", come dice don Milani, è il contrario del nichilistico "me ne frego" fascista. E’ il fondamento di una visione della vita come "essere-per-gli-altri" e non solo per se stessi. Una visione che si traduce in uno stile di vita e in un modo di far politica: all’insegna della serietà e della sobrietà, della solidità e della coerenza, del rigore con se stessi (senza moralismi bacchettoni) e anche, in spirito di letizia, di un po’ di ascesi, di spirito di sacrificio e di disciplina interiore.


 


Terzo punto, questa visione del rapporto tra etica e politica rifugge da qualunque tentazione autoritaria. Perché ha come fondamento la coscienza, la responsabile libertà della coscienza. "Nell’età contemporanea – si legge al numero 1 della dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae – gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive". A questa tendenza in atto nel mondo contemporaneo, il Concilio guarda con attenzione e simpatia. E con essa si pone in sintonia quando afferma, in chiave nettamente anti-temporalistica, che "la verità non si impone che per la forza della verità stessa". Ciò significa che alla coscienza umana non si può imporre l’assunzione di una visione, vuoi religiosa, vuoi morale, utilizzando il braccio armato della coercizione politica. Sia sul piano religioso che su quello etico, tanto più quando si tratti dell’etica che tratta degli aspetti più intimi della persona, a cominciare dalla sessualità e dalla procreazione, la verità si afferma – nella storia in modo sempre parziale, opaco e provvisorio – attraverso il dialogo tra le coscienze, la ricerca aperta al dubbio, la serena accettazione del pluralismo come un valore e non solo come una necessità.


 


Quarto punto, la conseguente, necessaria distinzione – che non è separazione – tra etica e diritto. E’ il punto che ponevo in premessa, citando le parole di De Gasperi: la distanza tra le "aspirazioni di principio" e la "necessità di tener conto delle opinioni altrui", quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile. E’ il punto che si identifica con la rigorosa difesa della laicità dello Stato, intesa come garanzia del pluralismo e della libertà delle coscienze. Un punto richiamato anche dal Concilio, quando sempre nella Dignitatis Humanae si afferma che "gli esseri umani postulano una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini della onesta libertà, tanto delle singole persone, quanto delle associazioni". Insomma, una legislazione che sulle questioni eticamente sensibili, si muova con circospezione, discrezione, senso del limite, rispetto del pluralismo etico e della incomprimibile libertà delle coscienze.


 


Queste coordinate di orientamento nel rapporto tra etica e politica non sono una novità, nell’ambito del centrosinistra. In particolare, la concezione discreta del diritto e della politica, in materia di questioni eticamente sensibili come quelle che riguardano la vita umana, è chiaramente presente nel programma dell’Ulivo per le elezioni del 1996. Alla tesi n. 88, "Bioetica e sanità", si legge: "Si è fatto sempre più diffuso il convincimento che la società non può semplicemente stare ad osservare il moltiplicarsi delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita. E’ necessario assumere la coscienza del limite che sola può agire per stabilire confini che non devono essere superati. Il pluralismo etico del nostro Paese non facilita il consenso su quanto deve essere legittimato da una regolamentazione giuridica delle tecnologie riproduttive… Tuttavia, non è impossibile raggiungere il consenso su una base comune sostenuta, in ogni caso, da una norma di legge che tuteli oggettivamente la dignità della vita umana. In particolare, rinunciando a regolamentare in modo rigido il diritto all’accesso a tali tecnologie, sulla base di visioni antropologiche ed etiche prestabilite – nessuna delle quali può rivendicare il diritto a imporsi sulle altre – si può concordare sulla discriminante costituita dalla cura dell’infertilità, non altrimenti affrontabile. In questa prospettiva – conclude la tesi dell’Ulivo – è necessario giungere alla normazione del settore, in coerenza con gli orientamenti europei tesi a portare le pratiche di procreazione medicalmente assistita entro la trasparenza, la legalità, la sicurezza".


 


Non è questa la sede per entrare nel merito della questione della procreazione assistita, né ci interessa farlo in questo momento. Quel che preme qui sottolineare è che, anche su temi difficili e controversi come questo, l’Ulivo dispone già, e da tempo, di una condivisa "tavola di princìpi". Quel che è mancato è dunque probabilmente il clima politico adatto a consentire una forte interiorizzazione e diffusione di questa "koinè etico-politica", nonché un metodo per tradurre la tavola di princìpi in azione legislativa.


 


 


Andare oltre la libertà di coscienza


 


 


Il clima politico va ricostruito, puntando su una visione forte e ambiziosa della coalizione, come grande progetto di incontro tra le culture riformiste. Un progetto che ha come corollario la deposizione delle armi che hanno contrapposto, in modo nefasto, in alcuni passaggi della legislatura, laici e cattolici.


 


Ciò potrà avvenire se da parte dei laici si rafforzerà non solo l’attenzione e il rispetto per chi muove da una visione religiosa del mondo e della vita – rispetto e attenzione che per la verità non sono mai mancati – ma soprattutto la capacità di distinguere con nettezza e rigore tra il sacrosanto primato della coscienza, nella sua incomprimibile, responsabile libertà, e una concezione che veda nella solitudine dell’individuo, al di fuori di qualunque, per l’appunto, "responsabilità" nei riguardi degli altri, la fonte indiscutibile e insuperabile della norma morale.


 


E potrà avvenire se da parte dei cattolici maturerà un forte e coraggioso, degasperiano senso della laicità, fondata sulla distinzione tra "aspirazioni di principio", che devono essere coltivate e alimentate dalla comunità ecclesiale, e mediazioni di tipo politico-legislativo, in un quadro di rispetto e di valorizzazione del pluralismo, dinanzi alle quali è giusto e doveroso rivendicare una piena autonomia laicale, che per nessuna ragione può essere espropriata o anche indebitamente coartata dall’autorità della Chiesa. Ciò che è di Cesare, insegna il Vangelo, non è neppure di Dio. Come può essere della Chiesa?


 


Anche sul piano del metodo, l’Ulivo ha in sé la memoria di risultati positivi, di preziose acquisizioni per il Paese nel dialogo tra laici e cattolici, oltre gli storici steccati. Basti pensare ai temi della famiglia, in particolare sul piano del sostegno socio-economico ad essa, sui quali è maturata una diffusa consapevolezza nuova, nel fertile humus dell’esperienza dei Progressisti e nel dialogo tra questi e l’area popolare nella legislatura 1994-96: una maturazione che ha poi prodotto gli straordinari risultati di questa legislatura di governi di centrosinistra. O si pensi ai temi della scuola, in particolare della parità scolastica e, più di recente, dell’insegnamento della religione: temi sui quali, pur non senza difficoltà e tensioni, la coalizione ha saputo costruire proprie proposte e portarle con successo all’approvazione delle aule parlamentari.


 


Non si capisce perché questo metodo, un metodo fondato sulla ricerca di soluzioni legislative condivise "di coalizione" non possa e non debba essere riproposto anche sui temi bioetici, pur nella consapevolezza della loro delicatezza e complessità – aggravate da un incalzare della ricerca scientifica e da uno strapotere del mercato che paiono talvolta schiacciare le possibilità di regolazione da parte della politica e perfino di comprensione e inquadramento da parte dell’etica – e pur nella piena riaffermazione del diritto del singolo parlamentare a veder rispettato, a conclusione di un serio confronto politico, il proprio orientamento di coscienza.


 


In altre parole, sembrerebbe utile ed opportuno un dialogo programmatico più ravvicinato su questi temi, che eviti la comoda, ma in definitiva inefficace scorciatoia di relegarli al margine del confronto politico, con gli effetti negativi che si sono visti in questa legislatura.


 


Un condiviso quadro di princìpi, sul rapporto tra etica e politica, e un metodo efficace di costruzione delle mediazioni legislative possibili, sembrerebbero invece la via da privilegiare, l’unica via per dare al centrosinistra, alla coalizione dell’Ulivo, l’autorevolezza non solo politica e amministrativa, ma anche culturale, ideale e morale, delle quali l’Italia ha bisogno per guardare con fiducia al suo avvenire.