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Se il "voto del cielo" si allontana dalla sinistra

Intervento alla Direzione nazionale dei Democratici di sinistra - Roma, 25-26 giugno 2001

Cari amici e compagni, la relazione di Veltroni alla scorsa Direzione, quelle di ieri di D’Alema e Folena, insieme agli interventi di autorevoli compagni, hanno delineato un quadro ampio e approfondito delle ragioni della duplice sconfitta subita dalla coalizione dell’Ulivo e dai Ds lo scorso 13 maggio e del lavoro che ci attende per organizzare l’opposizione parlamentare al governo Berlusconi e il rilancio della nostra iniziativa nel Paese.

A questa comune riflessione vorrei contribuire prendendo in esame un aspetto particolare, anche se a mio modo di vedere non laterale, della crisi di consenso del nostro partito.

Mi riferisco al tema del voto cattolico, più precisamente del voto dei cattolici praticanti, a come si è diviso tra schieramenti e partiti, alle tendenze che ha messo in luce.

Il primo dato – come emerge da un’analisi condotta da un istituto demoscopico per l’autorevole rivista "Il Regno" – è che il voto dei cattolici era e resta diviso, con un sostanziale equilibrio tra la Casa delle libertà (che ha ottenuto alle ultime elezioni politiche il 45,8 per cento del voto dei praticanti) e l’Ulivo (che si è attestato al 43,7 per cento).

Berlusconi ha dunque conquistato la maggioranza relativa dei cosiddetti "voti del cielo", in proporzioni analoghe a quelle dell’universo degli elettori italiani. Niente di meno, ma anche niente di più, nessuno "sfondamento" nel voto cattolico: accanto ad un ampio settore cattolico-moderato, c’è, è in campo, un largo settore cattolico-democratico, che continua a considerare l’Ulivo come il naturale riferimento politico.

Il discorso si fa più complesso – e per noi più amaro – quando si prende in esame il secondo gruppo di dati, ovvero la distribuzione percentuale del voto cattolico praticante tra le forze politiche in lizza per la quota proporzionale della Camera.

In questo ambito balzano agli occhi due dati. Da una parte, la clamorosa avanzata di Forza Italia: nel 1996 il partito di Berlusconi era già la prima scelta dei cattolici italiani, ma con il 19,5 per cento dei voti (attenzione: un punto meno della media nazionale del voto a Forza Italia, che arrivava al 20,6); quel primato si è oggi consolidato fino a toccare la ragguardevole cifra del 29,4 per cento del voto cattolico, questa volta perfettamente coincidente con la media nazionale complessiva del voto a FI.

Alla crescita di Forza Italia fa riscontro il netto ridimensionamento di An (dal 16,7 al 9,7) e della Lega (dal 7,7 al 3,6) e lo stallo del Biancofiore (dal 5,8 al 5,6).

Il secondo dato appariscente è la caduta verticale del voto cattolico ai Ds.

Secondo partito cattolico nel 1996, col 19,5 per cento del voto cattolico (un punto e mezzo in meno della cifra complessiva nazionale che allora fu, per le liste del Pds aperte agli altri gruppi con i quali si sarebbe poi dato vita ai Ds, il 21 per cento), la sinistra democratica ha perso nel 2001 ben 7 punti di "voto del cielo", attestandosi ad un assai meno esaltante 12,5 per cento (ben quattro punti sotto quel 16 e mezzo per cento che è la media nazionale dei voti alla Quercia).

Opposta è la tendenza elettorale della Margherita, che conquista il 21,3 per cento del voto cattolico praticante (e dunque il secondo posto, dopo Forza Italia, nelle preferenze di chi dichiara di andare a messa tutte le domeniche), contro il 16,8 per cento raccolto da Ppi e Lista Dini nel 1996: una lista "plurale" raccoglie dunque assai più consensi, tra i cattolici-democratici, di formazioni politiche esplicitamente (almeno per quanto riguarda il Ppi) "di ispirazione cristiana". Il dato è ancor più significativo, se si considera l’emorragia di voto cattolico dall’area centrista dell’Ulivo (ma non escluderei che qualcosa abbiamo ceduto anche noi Ds) verso Democrazia europea di D’Antoni.

Questi sono i dati, nella loro cruda eloquenza. Sono dati che parlano di una crisi profonda del consenso cattolico al nostro partito. Una crisi che è parte, a mio avviso non marginale, della più generale crisi di consenso che accusa il nostro partito. Ma è anche un dato che pesa come un macigno sulle spalle di chi, come noi Cristiano sociali, ha lavorato in questi anni su questa delicata frontiera.

Se non vogliamo giocare con la realtà, questi dati fotografano la sconfitta, se non il fallimento storico – almeno su un versante, culturale, politico ed elettorale, quello del rapporto con l’area cattolica – dell’impresa politica lanciata a Firenze con gli Stati generali della sinistra che hanno dato vita ai Ds, e poi sistematizzata al Congresso di Torino.

Questa sconfitta impone certamente a tutto il partito, ma ovviamente innanzi tutto ai Cristiano sociali, una pausa di riflessione non rituale, non diplomatizzata, sulle ragioni della nostra difficoltà e di ascolto attento del messaggio che essa trasmette.

In prima approssimazione, a me pare che il massiccio deflusso di voto cattolico dai Ds alla Margherita sia da ricondurre alla crescente difficoltà, da parte del nostro partito, nonostante le ripetute affermazioni di principio in senso contrario, ad essere luogo d’incontro e di contaminazione tra le culture della sinistra riformista italiana.

Farò tre esempi, solo per provare a spiegarmi meglio.

Ho ascoltato e apprezzato molti passaggi dell’intervento di ieri di Sergio Cofferati. Mi ha colpito tuttavia negativamente l’assenza di qualunque cenno, nella descrizione delle cause della sconfitta dell’Ulivo e dello stesso deludente risultato dei Ds, alla crisi della prospettiva dell’unità sindacale: una crisi che ha portato al punto più basso da molti anni i rapporti in particolare tra Cgil e Cisl, con immaginabili, perfino ovvie conseguenze negative, politiche e poi anche elettorali, sulla coalizione dell’Ulivo e su un partito come il nostro, che nutre o almeno nutriva l’ambizione di rappresentare una quota significativa d’impegno sociale di tradizione "bianca".

Una seconda difficoltà, che ha attraversato in questi anni il rapporto tra laici e cattolici nell’Ulivo e quindi, a maggior ragione, nei Ds, è stata la ricorrente contrapposizione sui temi cosiddetti "eticamente sensibili", a cominciare da quelli relativi alla bioetica. Anche in questo campo, il nostro partito è parso più volte imboccare la scorciatoia identitaria della rappresentanza di un solo punto di vista, ancorché quantitativamente prevalente, quello che potremmo definire laico-libertario, rinunciando alla fatica qualitativa della sintesi, nel metodo e nei toni importante quanto se non più che nei contenuti, con chi rappresentava la diffusa inquietudine della coscienza credente.

Terza difficoltà: l’affievolirsi, in molti passaggi della nostra vicenda politica e di governo, della tensione morale a dar vita ad una politica nuova, nei contenuti di critica al disordine stabilito, sul piano sociale nazionale come su quello della scandalosa diseguaglianza globale, ma vorrei dire più ancora nello stile col quale si esercita il potere. Una certa "mondanizzazione" del gruppo dirigente della sinistra, talora rivelatrice di uno sconcertante complesso d’inferiorità nei confronti del nostro avversario, ha colpito negativamente tutto il nostro elettorato, ma in modo particolarmente acuto, quello che ha una duplice ragione di scandalo: per il suo essere di sinistra e per il suo essere cristiano.

A questi passaggi critici, che meriterebbero una riflessione ben più approfondita, va aggiunta la permanente e persistente difficoltà a dar vita, a Roma come in periferia, ad un gruppo dirigente effettivamente "plurale" del nostro partito. Una difficoltà della quale la composizione del comitato di reggenza – espressione di tutta la complessità "verticale" dei Ds, fuorché quella originale e costitutiva delle culture che hanno dato vita insieme al partito nuovo – è apparsa solo come la brutale esplicitazione.

Ho parlato, non a caso, di difficoltà e non di cattiva volontà. Perché nulla mi è più alieno della lamentazione minoritaria. E perché so che ci muoviamo su un sentiero stretto, tra gli opposti strapiombi del monocolore ex-comunista e della rendita di posizione di gruppetti cooptati. Tra i due strapiombi, di solito scegliamo il primo, ma questo è un altro discorso…

Vorrei tuttavia che questa difficoltà venisse avvertita come tale da tutto il gruppo dirigente del partito, da tutti noi. E che fossimo tutti meno ansiosi di "archiviare" Firenze e Torino con fusioni che assomigliano troppo a cancellazioni e a rimozioni, magari proprio mentre ci affanniamo per aprire, incuranti del paradosso, un nuovo processo federativo con altre piccole formazioni politiche a noi vicine.

Vorrei che avvertissimo la difficoltà come tale, che la chiamassimo col suo nome e che su di essa e a partire da essa avviassimo una riflessione. Che anche per noi Cristiano sociali ha un punto fermo: come costruire, anche in Italia, una formazione politica di stampo europeo. Dunque, non una formazione "di sinistra", ma di "centrosinistra", perché così si definiscono oggi i principali partiti riformisti europei, abitabile e abitata da tutte le culture riformatrici, anzi frutto dell’incontro e della contaminazione tra di esse: il ceppo storico del socialismo democratico con l’apporto del pensiero liberaldemocratico e con quello dell’ispirazione cristiana, come sono ormai tutti i partiti socialisti europei.

La domanda che mi pongo è se le difficoltà che abbiamo incontrato in questi anni e che si sono tradotte e quasi fisicamente addensate nella sconfitta elettorale del 13 maggio, non ci dicano che noi, i Ds, da soli non siamo strutturalmente in grado di diventare questa grande forza politica che è nei nostri sogni e, quel che più conta, nell’interesse del Paese.

La domanda che mi pongo è se il radicale cambiamento di quadro prodotto dal successo della Margherita – che non è, come erano il Ppi e la lista Dini, la gamba "moderata", "di centro", o "cattolica" dell’Ulivo, ma la scommessa di un "rassemblement" di formazioni politiche, culture, personalità, che punta ad assomigliare strettamente all’Ulivo come tale e che su questo fonda il suo successo – non imponga un colpo d’ala alla nostra riflessione e alla nostra azione.

Mi domando in altri termini se i tempi nuovi che si annunciano non c’impongano, a partire dal prossimo Congresso, di assumere come nostro obiettivo storico, non la vacua riproposizione di un orgoglio impotente – con l’appello all’orgoglio si possono vincere i congressi, ma non le elezioni – ma piuttosto l’azione operosa e feconda per attrezzare, con umiltà, tenacia e pazienza, il nostro partito a diventare uno dei principali fondatori della "casa comune dei riformisti": il progetto del quale parlò Romano Prodi a Formia e che deve poter diventare, per tutto l’Ulivo, il grande obiettivo politico da raggiungere in vista delle elezioni del 2006: un’aggregazione politica federativa, unitaria, plurale, parte integrante – col tempo che ci vorrà – della grande famiglia dei partiti riformisti europei. Se così sarà, come mi auguro che sarà, noi Cristiano sociali, con l’autonomia collettiva, compresa quella organizzativa e finanziaria, alla quale la fase che viviamo ci impone di non rinunciare, faremo fino in fondo la nostra parte.