L'inserimento, da parte della commissione bilancio del senato, nel testo del decreto sulla revisione della spesa pubblica (spending review), della clausola di salvaguardia per le autonomie speciali, è un piccolo successo delle regioni e province a statuto speciale e in particolare dei senatori trentini e friulani che sostengono il governo Monti. Ho imparato da giovane, alla scuola di un grande sindacalista come Pierre Carniti, che da una trattativa è sempre meglio uscire con una brutta vittoria che con una bella sconfitta. E quindi rallegriamoci del successo. Ma senza nasconderci che è davvero piccolo: la clausola di salvaguardia è solo l'ennesima toppa, cucita alla meglio, sull'ennesimo strappo alle prerogative delle autonomie speciali e alle procedure pattizie, previste a tutela delle stesse, dalla Costituzione, dagli statuti e dalle norme di attuazione. La domanda che a questo punto non possiamo non porci è perché è sempre più difficile sostenere, dinanzi al governo (qualunque governo, non solo questo: un anno fa, col governo Berlusconi, era andata esattamente allo stesso modo), le ragioni delle autonomie speciali. Le risposte, a mio modo di vedere, sono tre, a tre diversi livelli di profondità.
La prima risposta è quella che ha dato il presidente Dellai: è in atto una controffensiva antiautonomistica del centralismo burocratico romano, che col governo dei tecnici ha rialzato la testa. C'è del vero in questa tesi. Una delle componenti portanti del governo Monti, accanto a quella dei professori, è quella dei prefetti, dei consiglieri di stato, in una parola dell'alta burocrazia statale, che è stata investita direttamente della funzione politica di guida di molti ministeri. E certamente, tra queste personalità, molte delle quali di assoluto valore, è diffusa e prevalente una cultura politica per la quale efficienza è sinonimo di semplificazione centralistica, mentre autonomia, pluralismo, poliarchia sono sinonimi di complessità, farraginosità, inefficienza. In tempi ordinari, si darebbe potuto trattare di un'interessante disputa tra scuole di pensiero. Ma, come è noto, non siamo in tempi ordinari, siamo in guerra: contro lo spread e contro il rischio fallimento del debito pubblico italiano e, di conseguenza, dell'euro. E quando si è in guerra, prevale la cultura sostanzialista e antiformalista dell'emergenza, delle leggi speciali, non quella delle garanzie e del rispetto delle forme e delle procedure. Dunque, l'emergenza economica sta soffiando nelle vele del centralismo: come ben sanno non solo le autonomie speciali, ma anche e soprattutto comuni, province e regioni ordinarie. La risposta tuttavia, questo è il punto, non può essere trovata in una più forte lamentazione anti-romana, ma piuttosto in un rilancio della sfida sul terreno dell'efficienza: le autonomie regionali e locali, ordinarie o speciali che siano, devono dimostrare coi fatti di saper fare, prima e meglio dello stato, quella spending review che è la sola alternativa ai tagli lineari. Bene ha fatto la giunta Dellai a mettersi, finalmente, su questa strada, certamente più produttiva delle ambigue riunioni in quel di Borghetto, o della patetica minaccia del ricorso alla "potenza tutrice".
La seconda risposta è quella che ha dato l'assessore Panizza: è la debolezza della nostra "delegazione parlamentare" a rendere flebile la voce dell'autonomia a Roma. Anche in questa tesi c'è del vero: in effetti Trento e Bolzano non hanno mai contato così poco a Roma come in questi ultimi anni. Può darsi che questo dipenda dalla mediocrità dei parlamentari (naturalmente parlo per me e non per i colleghi), anche se non credo fosse questo il pensiero di Franco Panizza. La vera ragione della nostra debolezza è politica e affonda le sue radici nella cultura politica che sta alla base proprio del concetto di "delegazione parlamentare": un'espressione che si usa solo dalle nostre parti e che rimanda ad una visione del deputato e del senatore come ambasciatore del Trentino o dell'Alto Adige a Roma. Una visione incompatibile con la Costituzione, per la quale ogni parlamentare rappresenta la nazione, ma soprattutto autolesionistica. Perché la forza dei parlamentari trentini o sudtirolesi a Roma, non fosse altro che per motivi numerici, non potrà mai venire dalla loro separatezza, ma semmai, tutto al contrario, dalla loro autorevolezza in seno ai gruppi parlamentari maggiori e dunque ai partiti nazionali. Ai tempi della Dc, furono la forza e il prestigio della Dc trentina e della stessa Svp, in seno o accanto al partito nazionale di maggioranza relativa e di governo, a garantire al meglio (e sempre con ragionevolezza) le prerogative delle autonomie speciali. Fatte le debite proporzioni, analogo sarebbe il discorso con i socialisti o i verdi. Lo stesso è accaduto negli anni dell'Ulivo. Al contrario, la scelta della Svp di presentarsi alle ultime elezioni in una posizione "blockfrei" si è rivelata suicida. Stringe il cuore vedere come, in pochi anni, il partito di raccolta sudtirolese abbia disperso un inestimabile patrimonio di autorevolezza accumulato nei decenni: confondendosi, nella fase di agonia del governo Berlusconi, tra i tanti partitini che commerciavano il voto di fiducia con gli emissari di palazzo Grazioli, per poi finire nell'attuale irrilevanza politica. Oggi i senatori della Svp non voteranno la fiducia al governo Monti, ma lo faranno nell'indifferenza generale, perché nessuno, a Palazzo Madama, si sforza più di capire da che parte stanno. Sarà bene riflettere su questa esperienza dei cugini sudtirolesi, quando eleggeremo, tra qualche mese, i nuovi parlamentari trentini.
La terza risposta, la più profonda, alla domanda sulle ragioni della crescente impopolarità nazionale delle autonomie speciali, l'ha data il direttore di questo giornale, con l'editoriale di domenica scorsa, che condivido dalla prima all'ultima parola. Chiedendo ai colleghi parlamentari delle altre regioni di sostenere il nostro emendamento con la cosiddetta "clausola di salvaguardia", ci siamo nei fatti impegnati con loro, come del resto hanno fatto le giunte con il governo, a fare fino in fondo e senza sconti la nostra parte nella guerra contro il default dello stato italiano, che trascinerebbe con sé anche la nostra autonomia, anche se a farla, la nostra parte, nel rispetto delle procedure pattizie previste da Costituzione e statuti. Ora il cuore della discussione si sposta sul contenuto del patto. Che non può non investire, a mio modo di vedere, il cosiddetto accordo di Milano, ovvero la riscrittura del capitolo dello statuto che riguarda i rapporti finanziari con lo stato. Una riscrittura che è stata concordata, come ebbi a dire allora, con ottime intenzioni e importanti risultati, ma anche con una certa frettolosità, alla vigilia della più vasta e profonda crisi economica dalla seconda guerra mondiale, e prima che venissero introdotti nel nostro ordinamento due principi che vincolano in modo inedito la finanza pubblica del paese (e non solo dello stato) alle regole comuni dell'Unione europea: il principio del pareggio strutturale del bilancio, ora parte dell'articolo 81 della Costituzione; e il principio del rientro dal debito eccessivo, nella misura di un ventesimo l'anno della differenza tra il 60 programmato e l'attuale 120 per cento del pil, al quale ci siamo impegnati con il trattato europeo cosiddetto "Fiscal compact". Solo riscrivendo i rapporti finanziari tra lo stato e le nostre istituzioni autonomistiche dentro questo nuovo quadro, insieme italiano ed europeo, potremo dare all'autonomia trentina le certezze, anche finanziarie, alle quali ha diritto, insieme al rispetto e alla considerazione che merita presso i nostri connazionali.