Signora Presidente, signora rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il Gruppo PD voterà convintamente a favore del provvedimento in esame, come del resto ha già fatto in Commissione, e si sente impegnato in un forte sostegno all'azione del Governo nel difficile scenario descritto anche nell'odierno dibattito.
Dunque, esprimeremo un voto a favore del provvedimento pur sapendo che esso rappresenta un piccolo tassello all'interno di un mosaico molto complesso, che probabilmente richiederà ben altro (in realtà, già ora lo richiederebbe) per essere all'altezza della situazione di crisi umanitaria, come è stata giustamente definita dal rappresentante del Governo. Egli non ha voluto prudentemente utilizzare l'espressione «catastrofe umanitaria», ma siamo al confine tra la crisi e la catastrofe, nel pieno di una ormai conclamata guerra civile.
Un tiranno - ormai non si può definire in altro modo - sta massacrando il suo popolo, usando tutte le armi di cui dispone, comprese quelle per la guerra pesante: sta sparando con l'artiglieria, i carri armati e gli aerei contro la popolazione civile. Questa è la realtà! Un tiranno che si comporta in tal modo naturalmente perde qualunque legittimazione a restare al suo posto: questa è una regola elementare della convivenza civile a livello internazionale, sulla base della Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia il dilemma nel quale ci troviamo è dato dal fatto che, non solo per ragioni occasionali, ma per ragioni di orientamento di fondo della stessa comunità internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, l'uso della forza deve davvero restare l'extrema ratio con il forte impegno a non ricorrervi mai.
Pertanto, l'unica via di soluzione che si può profilare davanti a noi è quella della costruzione di una compattezza della comunità internazionale che faccia una pressione unitaria e convergente sul regime di Assad per «tagliargli le unghie» ed aprire una via diplomatica che oggi sembra francamente preclusa, nonostante gli sforzi dell'ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan.
Il problema, però, è rappresentato dal fatto che oggi non vi è compattezza nella comunità internazionale: questo è il dato di realtà con cui dobbiamo confrontarci. Innanzi tutto, come noto, la Siria ha i suoi alleati a livello regionale, a cominciare dal «grande fratello» iraniano. Sappiamo poi che all'interno della guerra civile siriana vi è un interesse geopolitico di altri attori della regione, come ad esempio delle potenze sunnite - per così dire - dell'area, cioè l'Arabia Saudita e gli emirati del Golfo. Alla fine, ciò che rende veramente difficile la costruzione di una compattezza della comunità internazionale è una divergenza strategica di fondo tra l'Occidente - gli Stati Uniti e l'Europa - e la Russia, come capofila di un'aggregazione più ampia che arriva fino alla Cina, nel giudizio sulla cosiddetta Primavera araba.
Sta in ciò il punto fondamentale di divergenza politica e geopolitica a livello globale che, naturalmente, poi attraversa anche questi campi. Abbiamo infatti ascoltato qualche accenno di tale divergenza anche nel nostro dibattito.
Per l'Occidente, trainato in particolare dal presidente degli Stati Uniti Obama, la primavera araba è una grande, straordinaria occasione seppure, come tutte le grandi occasioni storiche, gravida di rischi, di incognite, di problemi e di difficoltà, per compiere un salto in avanti verso un mondo più giusto e pacifico. Cosa significa, infatti, la primavera araba se non la faticosa ricerca da parte del mondo arabo del proprio posto nella globalizzazione, in una globalizzazione che è così diversa da come ci appariva all'inizio del secolo? La globalizzazione che non è americanizzazione, occidentalizzazione forzata del mondo ma, semmai the rise of the rest, come l'ha definita Zakaria, cioè il sorgere degli altri, dei nuovi protagonisti che entrano nella scena.
Il mondo arabo islamico vuole trovare il suo posto nella scena mondiale e si rende conto che la ragione per cui fa fatica a trovarlo non è data dal complotto dell'Occidente cattivo, ma dai limiti dei suoi regimi, dei regimi con i quali si governa. Quindi, c'è questa forte, difficile ricerca di un equilibrio nuovo tra islam e democrazia. Questo è il punto, la sfida cruciale della primavera araba.
Dall'altro, c'è l'idea prevalente nella Russia, sia a livello di governo che di osservatori, per la quale la primavera araba è un'espressione di caos, un rischio (molto più che un'opportunità), anzi la certezza di entrare in una fase di disordine dovuta principalmente alla debolezza e ad errori strategici dell'Occidente. Questa è la divergenza strategica di fondo che spiega la ragione per la quale siamo fermi, bloccati di fronte alla crisi siriana che, altrimenti, avrebbe probabilmente trovato, attraverso una forte spinta convergente di tipo diplomatico, una soluzione.
Credo allora che la strada per gestire questa difficile situazione non possa che essere quella di una offensiva diplomatica sulla Russia come, del resto, il nostro Governo e, più in generale, le cancellerie occidentali stanno cercando di fare, a cominciare da Washington.
Dobbiamo convincere la Russia che è anche nel suo interesse, trovando un compromesso tra gli interessi dell'Occidente e quelli della Russia, che ci sia una evoluzione positiva di questa crisi.
È un compito molto difficile questo, ma ho l'impressione che se non sblocchiamo questa situazione tutto il resto rischia di essere una manifestazione di impotenza, un grande «vorrei ma non posso» di cui ho sentito anche l'eco nelle riflessioni di alcuni colleghi: dobbiamo mandare gli osservatori, ma a condizione che osservino senza fare nulla e allo stesso tempo vogliamo salvare i bambini, il corridoio umanitario e quanto altro. Non si può avere tutto e il contrario di tutto.
La soluzione che va cercata è diplomatica e perché questa soluzione diplomatica e politica abbia forza deve essere proposta con energia dalla comunità internazionale nel suo insieme. Per conseguire questo risultato dobbiamo sbloccare la situazione della Russia con un'offensiva diplomatica su Mosca. Questo è il punto politico che mi sembra cruciale.
Detto questo è detto poco perché il problema è come fare a cambiare l'atteggiamento della Russia. Ci sono idee in giro. È necessario però che il nostro Governo proceda sulla strada della persuasione che deve unire, innanzitutto, la comunità occidentale, quindi l'Europa e gli Stati Uniti, per poter esercitare una pressione costruttiva, positiva e propositiva sulla Russia nel suo insieme.
Del resto, abbiamo dalla nostra un elemento di realtà, ossia che la scelta da parte degli Stati Uniti, con l'amministrazione Obama, e da parte dell'Europa, con riflessi più lenti e spesso in ordine sparso, ma alla fine la scelta dell'Occidente di investire sul suo soft power e quindi di scommettere su un esito positivo nonostante tutte le difficoltà sul successo della primavera araba, e quindi dell'incontro tra Islam e democrazia, si è rivelata utile dal punto di vista anche del presidio degli interessi dell'Occidente nell'area, nel senso più aperto e meno miope possibile del termine.
Quindi, questo è il nodo sul quale incoraggiamo il Governo a concentrarsi, insieme all'altro che è stato citato dalla sottosegretario Dassù sull'aiuto umanitario. Nel frattempo dobbiamo fare tutto quello che è possibile, fin tanto che le pressioni diplomatiche non avranno fatto il loro corso e non avranno raggiunto qualche risultato, pur sapendo che il percorso è molto stretto e molto difficile, gli spazi sono molto limitati, ma non dobbiamo lasciar nulla di intentato per alleviare le gravissime sofferenze del popolo siriano dal punto di vista umanitario.
È per tutte queste ragioni che, con il convinto sostegno al Governo in questa difficile iniziativa e in questo difficile dossier, votiamo convintamente a favore del decreto.