La condizione minima perché ciò avvenga è tuttavia avere chiaro l'obiettivo, mi si perdoni l'enfasi, "storico-politico" che si persegue. A me pare che questo obiettivo possa essere declinato in questi termini: aprire una nuova fase della vicenda politico-istituzionale della Repubblica. Verrebbe da dire, una "terza fase" della storia repubblicana: dopo la fase (1947-1989) dominata dalla questione comunista e dalla sua difficile e costosa gestione; e dopo la fase (1994-2011) segnata dal berlusconismo e dalla torsione populista e plebiscitaria che esso ha imposto alla democrazia bipolare, competitiva, dell'alternanza: finalmente conquistata e subito ridotta a competizione tra "opposte opposizioni", ad anacronistica e distruttiva "guerra civile fredda" tra "anticomunisti" e "antifascisti", tra coalizioni eterogenee, radunate sulla base di un avversario comune, anziché su un comune programma di governo. E quindi inconcludenti, quando non dannose, rispetto ai gravi e profondi problemi del paese.
La terza fase dovrebbe coincidere con quella che Moro ebbe a definire "democrazia compiuta", quale va oggi delineando e proponendo, col suo preoccupato, ma instancabile magistero civile, il presidente Napolitano: un sistema equilibrato e maturo, nel quale la competizione tra alternative di governo si accompagni alla solidarietà repubblicana attorno ai fondamentali interessi nazionali e alle linee di lungo periodo della grande politica estera, istituzionale, etico-sociale. Un sistema dunque che non solo non rinneghi, ma anzi esalti lo schema bipolare proprio di ogni vera democrazia competitiva, ma lo radichi non più su coalizioni confuse, o leader invincibili in battaglia, ma inetti al governo, ma piuttosto su grandi forze politiche, radicate nella società e capaci della necessaria mediazione tra la società civile, con i suoi valori e i suoi interessi, le sue passioni e le sue pulsioni, e il governo di un paese complesso, esposto ai venti e sottoposto ai vincoli di un mondo sempre più globale.
E tuttavia, la speranza e l'impegno nel perseguire l'obiettivo storico della democrazia compiuta, non possono non accompagnarsi alla realistica considerazione dei due grandi ostacoli che ad esso si frappongono. Il primo, il più evidente e macroscopico, è la crisi, se non l'assenza, dei partiti, particolarmente accentuata in Italia. Lo scenario del 2008, che aveva visto la rinascita, elettorale e politica, culturale perfino, di due grandi partiti, che insieme avevano raccolto il consenso del 70 per cento degli elettori, sembra dissolto da tempo: oggi Pd e Pdl faticano a tenere il 50 per cento degli elettori, in un contesto per di più di spettacolare, conclamato crollo della partecipazione al voto amministrativo e della intenzione di partecipazione al voto politico. Come poggiare su spalle tanto fragili, si obietta da più parti, il rilancio della democrazia parlamentare, affrontando ad un tempo il problema della rappresentatività, mediante il superamento dell'attuale, intollerabile regime di nomina dei parlamentari da parte dei leader, e quello non della "governabilità", ma di un governo dotato della legittimazione popolare e degli strumenti istituzionali necessari ad un ambizioso, quanto ineludibile, programma di riforme strutturali del paese? La sequenza delle elezioni presidenziali francesi, col chiaro mandato popolare a Francois Hollande, e di quelle parlamentari in Grecia, che hanno invece prodotto un esito drammaticamente nullo, ha riproposto la questione della crisi del modello parlamentare, prevalente tra le democrazie europee, e ha rilanciato le quotazioni del modello semipresidenziale francese, meglio adatto (sembrerebbe) a garantire il circuito democratico consenso-governo, in una fase di crisi, pressoché generalizzata in Europa, delle grandi forze politiche, assediate dal proliferare di nuove formazioni, variamente anti-sistema. Seguendo il filo di questo ragionamento, sembrerebbe che la terza fase della vicenda repubblicana debba connotarsi come superamento di una ormai non recuperabile democrazia parlamentare, come tale fondata sull'imprescindibile ruolo ordinatore dei grandi partiti, in favore di una democrazia presidenziale che, come insegna proprio il caso francese, può meglio sopperire alla mancanza di un solido e strutturato sistema partitico.
Ma è proprio la natura della crisi europea della democrazia parlamentare a rappresentare al tempo stesso il secondo ostacolo al compimento del disegno costituzionale della democrazia parlamentare italiana come matura democrazia dell'alternanza e il possibile passaggio, stretto e impervio, ma possibile e necessario, verso questo grande obiettivo storico-politico. Sarebbe infatti un grave errore di analisi leggere la crisi delle democrazie parlamentari europee come la mera coincidenza di crisi nazionali parallele, ciascuna prodotta prevalentemente, se non esclusivamente, da ragioni endogene ai singoli paesi. In realtà, è sempre più evidente come la crisi delle democrazie parlamentari europee sia anche, se non soprattutto, l'effetto del progressivo slittamento della sovranità dagli stati nazionali verso un'Unione ancora priva di un'effettiva governance democratica. Con la duplice, conseguente delegittimazione dei sistemi politico-democratici nazionali, che dispongono della legittimazione popolare, ma non più della titolarità delle decisioni; e della stessa governance europea, titolare della maggior parte delle decisioni, in particolare nell'Eurozona, ma priva di una vera legittimazione democratica, se non per il tramite dei delegittimati governi e parlamenti nazionali.
L'analisi del problema suggerisce anche la via, come ho già detto, impervia ma obbligata, lungo la quale ricercare la soluzione: che non può che prodursi sul piano europeo, rilanciando con determinazione, se necessario anche privilegiando una cerchia più ristretta di paesi disponibili, il progetto federalista degli Stati Uniti d'Europa. È a quel livello che va aperta la strada ad una Casa Bianca europea, ad un presidente eletto dai popoli europei, che possa incarnare, sulla base della logica del governo diviso, insieme al parlamento dei popoli e al consiglio degli stati, la nuova sovranità europea. Rispetto a questo obiettivo, la deviazione presidenzialista nei singoli stati rischia di essere un falso rimedio, al più una cura sintomatica, se non addirittura palliativa, che lascia inalterato e anzi ostacola il percorso di devoluzione delle sovranità nazionali ad una nuova e democraticamente legittimata governance europea. Il problema che ha dunque dinanzi a sé il percorso riformatore italiano non è quello di cambiare strada, ma è piuttosto quello di legare la nostra terza fase al compimento della evoluzione democratica europea. Non dovrebbe essere impossibile, se sapessimo valorizzare la sinergia tra partiti della maggioranza e governo Monti. Sarebbe anche la strada maestra, forse l'unica possibile, per rilanciare ruolo e credibilità delle forze politiche, a cominciare dal Partito democratico.
(Il Domani d'Italia, maggio 2012)
dove sono in Italia le "grandi forze politiche, radicate nella società e capaci della necessaria mediazione tra la società civile, con i suoi valori e i suoi interessi, le sue passioni e le sue pulsioni, e il governo di un paese complesso"? Essendo l'esistenza di queste forze la precondizione perchè nasca l'Obama europeo,siamo punto e a capo.Il PD,il più consistente dei partiti italiani, ha subito una perdita di voti che ai tempi del "migliore", quando i voti si contavano uno ad uno, avrebbe portato ad un congresso straordinario; è il caso di muoversi. In prima istanza, senza partiti europei come li pensarono Spinelli e Rossi, il primo Presidente europeo eletto dai cittadini (ammesso che i tedeschi accettino l'idea) avrà il profilo di un'uomo di spettacolo alla Regan, se paesi come l'Italia non si allineano in fretta alle democrazie mature. La vedo dura, anche se la tua visione prospettica va apprezzata.