Apr
21
2012
Rewrite the world
Intervento alla tavola rotonda su "I progressisti e la ricerca della libertà", nell'ambito della 2ª Conferenza dei leader parlamentari progressisti
 

Troppo spesso, noi democratici e socialisti europei ci dimentichiamo di essere progressisti, ossia di credere nella possibilità del progresso e finiamo per trasmettere più pessimismo di quanto sarebbe ragionevole e realistico nutrire.


Forse questo accade proprio perché siamo europei: e il Vecchio Continente, mai come oggi, è diventato un "continente vecchio", in evidente e drammatico declino demografico. E forse, in questo pessimismo che troppo spesso sopravanza il progressismo, sta una della spiegazioni della nostra fatica a raccogliere il consenso necessario a vincere le elezioni e a governare l'Europa come Unione e gli Stati nazionali che la costituiscono.


Bene ha fatto dunque il Pd ad organizzare questo secondo meeting di parlamentari progressisti, al quale veniamo con grande voglia di imparare, di farci contagiare dalla grande energia, dalla grande speranza di cambiamento che abbiamo sentito nelle parole di chi mi ha preceduto in questa tavola rotonda: il presidente dell'Assemblea costituente tunisina, Mustapha Ben Jaafar; il ministro marocchino, Nebil Benabdallah; il parlamentare egiziano, Basem Kamel; il rappresentante della Lega nazionale birmana per la democrazia, Baudee Zawmin.


Perfino uno dei più promettenti leader socialisti europei, l'allora ministro degli Esteri britannico David Milliband, in una relazione sullo stato della democrazia nel mondo, tenuta nel febbraio del 2008 al St. Hugh's College di Oxford, nell'ambito della Aung San Suu Kyi Lecture, manifestava un certo pessimismo, denunciando un paradosso:


"Da una parte - diceva Miliband - gli ultimi trent'anni hanno visto una vera e propria terza ondata democratica. Negli anni '70, il collasso dei regimi autoritari ha portato al ristabilimento della democrazia in Portogallo, Grecia e Spagna. Ma è stato con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell'Impero sovietico che la marea si è davvero girata. Con i primi anni '90 la maggior parte dei paesi dell'Europa centrale e orientale hanno eletto democraticamente i loro governi e molti di essi si sono reintegrati nella famiglia europea."


"Allo stesso tempo, molti regimi autoritaritari in Asia (Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Indonesia) si sono convertiti alla democrazia. Una buona parte dell'Africa ha imboccato la transizione, culminata nella elezione di Nelson Mandela nel 1994. E attorno alla fine del secolo, tutta l'America latina, ad eccezione di Cuba, ha espresso governi democraticamente eletti. Oggi c'è solo una regione, il Medio Oriente, nella quale i regimi democratici rimangono un'eccezione. Secondo la Freedom House, nei primi anni '70 meno di un quarto dei paesi del mondo erano democratici. Trent'anni dopo, quella cifra è passata al 60 per cento."


E tuttavia, conclude Miliband, "col successo economico della Cina, non possiamo più dare per scontata l'avanzata della democrazia. Dal Duemila ad oggi, c'è stata una pausa nel progresso della democrazia e il numero delle democrazie si è stabilizzato."


Insomma, solo quattro anni fa, si poteva dire che il Medio Oriente era l'unica eccezione alla regola democratica che si andava affermando nel mondo. Insieme all'eccezione per eccellenza, quella della Cina, che poteva anzi rappresentare il trampolino di lancio di una riscossa antidemocratica, un modello di successo basato su un impetuoso sviluppo economico di tipo capitalistico, associato ad una sostanziale indifferenza per i diritti umani e ad una chiusura nei confronti dello stato di diritto e della democrazia.


Quattro anni dopo non possiamo ancora dire che il paradosso denunciato da Miliband sia stato superato. Ma tra oggi e allora sono avvenuti tre fatti nuovi, strettamente legati tra loro, che hanno rimesso in movimento l'onda democratica, spiazzando il nostro pessimismo tutto europeo.


Il primo fatto nuovo: solo pochi mesi dopo la conferenza di Miliband, alla fine del 2008, gli americani hanno eletto presidente degli Stati Uniti il democratico Barack Hussein Obama: il primo presidente nero della storia degli Usa, un cristiano dal nome islamico. Il messaggio che gli americani hanno mandato al mondo è apparso subito chiaro: la dottrina dello scontro di civiltà è archiviata, al suo posto c'è la proposta di un incontro tra civiltà per il governo comune della globalizzazione e dei nuovi problemi che essa pone dinanzi a noi: la crisi finanziaria ed economica globale, il terrorismo e la proliferazione nucleare, il cambiamento climatico, lo stesso rapporto tra le grandi religioni.


Il secondo fatto nuovo è la Primavera Araba. Dieci anni fa, lo spaventoso attentato dell'11 settembre 2001 era stato il tragico, estremo frutto di un'opposizione frustrata e rancorosa  di larghi strati del mondo arabo-islamico ad una globalizzazione vista allora come sinonimo di americanizzazione e occidentalizzazione forzata del mondo.


Ma la globalizzazione ha preso tutta un'altra piega. Come l'ha acutamente definita Fareed Zakaria, la globalizzazione sempre più si presenta come "the rise of the rest", l'ascesa degli altri, dei non occidentali, in un mondo che si è fatto ormai multipolare e chiede un governo multilaterale.


In questo contesto nuovo, i moti popolari di questo inaspettato "Risorgimento arabo", come lo ha definito il presidente Napolitano, esprimono ora la volontà, la decisione del mondo arabo-islamico, di uscire dall'auto-isolamento, di rientrare in gioco, di trovare il suo posto nella e non più contro la globalizzazione. Ma, per l'appunto, il suo posto, conquistato, guadagnato in proprio, non concesso o regalato da altri.


Chi ha compreso meglio e per primo cosa si poteva muovere nel mondo arabo-islamico è stato, ancora una volta, Barack Obama. Con il famoso discorso all'Università del Cairo del 4 giugno 2009, il presidente americano, immagine vivente di una globalizzazione inclusiva e plurale, affermava la compatibilità tra islam e democrazia, si schierava dalla parte dei popoli che si battono per il valore universale della libertà e dei diritti umani e al tempo stesso ripristinava il rispetto della sovranità altrui e l'opzione preferenziale per il multilateralismo: entrambi violati da George W. Bush con l'intervento in Iraq.


La "dottrina" del Cairo non ha evitato ad Obama esitazioni e incertezze, dinanzi ad un precipitare degli eventi imprevedibile per tutti, almeno nei modi e nei tempi. E tuttavia gli ha consentito di disporre di uno schema di analisi e di azione, che credo debba essere condiviso da tutti i democratici e progressisti del mondo: schierarsi con nettezza dalla parte dei popoli, senza troncare il rapporto con l'establishment, in molti paesi innanzi tutto militare, essenziale per un governo equilibrato della transizione; e, senza escludere l'uso della forza come extrema ratio, riaffermare il primato del diritto e della legalità internazionale e privilegiare il soft-power nel promuovere e accompagnare un difficile e rischioso cambiamento.


Come hanno dimostrato le vicende prima della Tunisia e poi della Libia, l'Europa ha tardato a capire cosa andava succedendo, in definitiva a poche miglia nautiche dalle  sue coste. A lungo è prevalso il rimpianto per un Ancien régime in via di dissoluzione e che rappresentava una stabilità funzionale ai nostri interessi immediati: geopolitici, perché quelli ora entrati in crisi erano tutti regimi "moderati", cioè filo-occidentali, ostili al fondamentalismo e al terrorismo; economici, perché ci garantivano forniture energetiche certe; e di sicurezza, perché avevano posto una barriera, non importa quanto rispettosa dei diritti umani, al flusso migratorio verso le nostre rive.


Si tratta di sentimenti comprensibili. Ma si tratta anche, in definitiva, di sentimenti irrazionali e irragionevoli. Ammesso e non concesso che sia da rimpiangere, l'Ancien régime arabo-islamico sta morendo e non tornerà più. È quindi interesse, oltre che dovere dell'Europa, attestarsi su una linea coraggiosa, che scommetta su una nuova centralità del Mediterraneo, attraverso una nuova stabilità, affidata non più a regimi autocratici, ma a risposte affidabili alla domanda di libertà e di democrazia dei popoli della regione.


L'esito dei rivolgimenti in atto in molti paesi arabo-islamici è tutt'altro che scontato: molti sono i rischi di disgregazione (basti pensare alla Libia) o di involuzione (rischi particolarmente elevati in Egitto). E tuttavia, è difficile leggere il tumultuoso ribollire di movimenti dagli sviluppi indubbiamente ancora incerti, se non come una difficile ricerca di una nuova mediazione tra cultura islamica e principi liberal-democratici, mutatis mutandis assimilabili alla mediazione, alla conciliazione, tra cristianesimo e democrazia, che è stata una delle grandi conquiste del Novecento europeo.


Non a caso il paese che sta vedendo crescere, in modo spettacolare, il suo ruolo e il suo peso nel grande mondo arabo-islamico, è la Turchia di Erdogan, paese della mediazione per eccellenza: tra Europa e Asia, tra Occidente e mondo arabo, tra islam e democrazia nello Stato di diritto. Non a caso, sul versante opposto, la fine di Osama Bin Laden ha solo sancito in modo formale la sconfitta politica di Al Qaeda, già decretata proprio dalla primavera araba. E non a caso, l'altro grande perdente appare ogni giorno di più l'Iran degli ayatollah: il grande paese dal quale la primavera ha preso le mosse, con l'"Onda Verde" del 2009, e nel quale la primavera "minaccia" di tornare, ingigantita, magari attraverso la Siria.


In questo complesso, ma promettente scenario, l'interesse nazionale dell'Italia, come degli altri paesi euro-mediterranei, è che il Mediterraneo diventi una vasta area di pace e di sviluppo, nella giustizia e nella democrazia: per evidenti ragioni economiche (pensiamo agli effetti positivi sulla crescita del nostro Mezzogiorno) e politiche (in termini di crescita di ruolo dell'Italia in un quadro di nuova centralità dell'area mediterranea).


E perfino per ragioni demografiche. È un dato ormai consolidato che, per mantenere gli attuali livelli di crescita economica, l'Europa avrà bisogno, entro il 2050, di 20 milioni di nuovi immigrati in età da lavoro, da aggiungere ai 20 milioni attuali. Si tratta di una sfida tanto gigantesca quanto ineludibile, dinanzi alla quale lo psicodramma degli sbarchi a Lampedusa della primavera 2011 impallidisce fino ad apparire ridicolo.


È evidente che l'attuale quadro normativo-istituzionale e politico-culturale europeo è del tutto inadeguato a sostenere un'impresa di questa portata: il quadro normativo-istituzionale, perché distingue in modo difficilmente gestibile i rifugiati richiedenti asilo dai migranti economici e affida solo i primi alle istituzioni comunitarie, mentre lascia agli Stati nazionali la competenza esclusiva sui secondi; e il quadro politico-culturale, perché in ogni paese europeo l'immigrazione attuale e la paura di quella futura stanno ingrossando i consensi a formazioni di destra xenofoba che finiscono per condizionare, in termini di chiusura, di respingimenti, di riaccompagnamenti, le politiche di tutti i governi.


Il terzo fatto nuovo è di pochi giorni fa e arriva dal cuore dell'Asia. Il 1° aprile si sono tenute le elezioni suppletive in Birmania, che hanno segnato la straordinaria vittoria della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi aprendo una fase nuova, dopo la stagione delle elezioni ambigue del novembre 2010. Anche se ambigue, le elezioni sono sempre e comunque un passo avanti, un segnale di apertura e rinnovamento, ma certamente in quella occasione furono segnate in maniera drammatica dalla persecuzione dei dissidenti politici (più di 2.000 persone sono ancora detenute in Birmania come prigionieri politici) e dall'esclusione brutale di Aung San Suu Kyi dalle elezioni, perché temuta dalla giunta militare per la sua popolarità.


Oggi il cambiamento è evidente, anche se la prudenza naturalmente è d'obbligo. Tanto resta il cammino da fare verso una vera democrazia. Ma la Birmania si è mossa, si è mosso un grande Paese asiatico:  con una popolazione di 50 milioni di abitanti, è come un tassello tra l'India e la Cina, tra la grande democrazia indiana, la più grande democrazia del mondo, e il modello cinese, il modello di una transizione di successo verso un capitalismo senza democrazia. In qualche modo il segnale che viene dalla Birmania è che non è detto che questi due modelli debbano per forza confliggere: è possibile che si incontrino sulla via dello sviluppo che si coniuga con la democrazia.


Credo che questo sia un fatto di straordinaria speranza. Dopo la grande speranza della Primavera Araba, iniziata lo scorso anno (che tutti sappiamo essere faticosa, lunga e per tanti versi dolorosa), abbiamo davanti a noi la prospettiva di una Primavera Asiatica della democrazia.


Nel simbolo del Pd, come nello stemma della Repubblica italiana, c'è l'Ulivo, simbolo di pace, ma anche di crescita e di sviluppo, a partire dal Mediterraneo. Un simbolo che è anche un programma di lavoro insieme.

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