Non è accettabile il fastidio col quale è stata liquidata la lettera a Bersani di quindici parlamentari democratici (tra i quali Fioroni e Follini), preoccupati che la manifestazione di Parigi potesse segnare uno slittamento identitario del Pd verso il socialismo europeo: una famiglia politica con la quale in modo convinto collaboriamo da alleati, ma della quale, per le note ragioni storiche che sono alla base dell'originalità del sistema politico italiano, abbiamo deciso di non essere parte integrante.
Quando è in ballo il codice genetico di un partito, le decisioni possono essere prese solo all'unanimità, o quanto meno a maggioranza qualificata, e sempre in un clima che garantisca a ogni minoranza il massimo di rispetto e di ascolto. Anche dallo scrupolo col quale si osserva questa regola elementare, si capisce se un partito è un "bene comune", patrimonio storico di una comunità, col suo pluralismo e le sue garanzie democratiche, o invece proprietà privata di un leader, o di un "gruppo dirigente", più o meno esteso. Sotto questo profilo, qualche sforzo in più, per "socializzare" nel partito la discussione sulla manifestazione di Parigi e sulla sua piattaforma politica e programmatica e per "pluralizzare" la composizione della delegazione, avrebbe giovato alla serenità del confronto.
E tuttavia, detto tutto questo, essere a Parigi, a fianco di Hollande, è stato da parte del Pd, almeno a mio modo di vedere, non solo opportuno e doveroso, ma perfino naturale. Se infatti è vero che il Pd non è un partito socialista, è altrettanto vero che esso intende svolgere, in Italia, la stessa funzione che, nella stragrande maggioranza degli altri paesi europei svolgono i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti (a differenza di quanto avviene fuori dal Vecchio Continente, ove abbondano i partiti "democratici"): rappresentare, nella competizione democratica per il governo, generalmente da soli, in qualche caso in coalizione con pochi, selezionati e coerenti alleati, il polo di centrosinistra, o se si preferisce di sinistra riformista e di governo, nella generalità dei casi nettamente distinta dalla sinistra estrema.
Noi l'abbiamo chiamata "vocazione maggioritaria", proprio per distinguerci dal minoritarismo identitario della sinistra antagonista. Ed è proprio la vocazione maggioritaria, insieme al patrimonio di valori di libertà e democrazia, uguaglianza e solidarietà che connotano questa metà del campo politico, ciò che più ci accomuna ai grandi partiti socialisti europei. Una vocazione che è sempre più chiamata ad esprimersi, non solo al livello dei singoli stati nazionali, ma anche a quello "federale" dell'Unione europea: dando vita ad una piattaforma politica e programmatica nella quale possa riconoscersi una maggioranza di cittadini europei.
La dichiarazione di Parigi è un buon punto di partenza in questa direzione. Lungi dall'essere espressione di una "svolta a sinistra" (ma meglio sarebbe dire, in questo caso, di "un'inversione a U" rispetto alla storia del socialismo riformista), la dichiarazione di Parigi assume senza ambiguità i principi fondamentali dell'ortodossia europea: "La responsabilità di bilancio e la disciplina fiscale sono imperativi per la zona euro e per rilanciare il modello sociale europeo. In ogni stato dovrebbe essere istituito un percorso che garantisca la riduzione del deficit e dell'indebitamento. È indispensabile ridurre l'indebitamento sovrano in Europa". Nessun cenno a ipotesi di rinegoziazione del "Fiscal compact".
Allo stesso tempo, la dichiarazione rilancia l'obiettivo di una "crescita sostenuta e sostenibile", trainata in particolare dalle tecnologie verdi, e "la creazione di posti di lavoro e la lotta contro la segmentazione del mercato del lavoro, in particolare nei confronti dei giovani e delle donne". La famigerata lettera estiva della Bce, firmata dal tandem Trichet-Draghi, non è poi così lontana. Non a caso, nella dichiarazione non c'è neppure l'ombra di una censura del ruolo attivo svolto in questi mesi dalla Banca, che viene piuttosto considerato come una supplenza resa necessaria dal "fallimento dei tentativi di rispondere alla crisi da parte dei governi conservatori in Europa": ogni riferimento al governo Berlusconi-Tremonti appare tutt'altro che casuale.Opportunamente, la dichiarazione propone politiche attive per il superamento degli squilibri macroeconomici, anche invocando politiche espansive della domanda, ma rigorosamente limitate ai paesi in surplus (per gli altri c'è l'obbligo di aumentare la competitività) e comunque distinguendo nettamente tra spese di investimento e spese di funzionamento. Giusta enfasi è posta sulla istituzione di una "tassa sulle speculazioni finanziarie", ma sembra di capire a livello europeo più che nazionale: insomma linea Monti. Cautela "tedesca" invece sugli Eurobond: la dichiarazione propone di "prendere in considerazione il rafforzamento di una responsabilità comune europea per una parte del debito sovrano".
Impegnativa la parte finale, quella sull'Europa politica, all'insegna del primato del metodo comunitario su quello intergovernativo, fino a rilanciare l'idea di una candidatura comune, da parte dei partiti socialisti, progressisti e democratici, alla presidenza della Commissione, in occasione delle prossime elezioni per il parlamento europeo: affermazioni tutt'altro che scontate in una dichiarazione approvata a Parigi, ma certamente coerenti con l'insegnamento del grande Delors, insieme a Mitterrand punto di riferimento politico di Hollande.
Nella dichiarazione manca invece qualunque riferimento non solo alla lettera dei dodici, promossa da Monti e Cameron, ma anche al tema che essa ha sollevato, quello della costruzione del grande mercato unico, come fattore di rilancio della crescita economica in Europa. La "mossa del cavallo" non c'è stata. Forse perché il Pd non l'ha sostenuta con la giusta convinzione. O forse perché Parigi, più ancora di Berlino, fatica a sentirci, da quell'orecchio. E anche se l'Europa guadagna terreno, la politica europea è ancora tanto, troppo, una questione di rapporti tra politiche nazionali.