Insomma, il governo Monti sta facendo bene all'Italia. E il Pd fa bene a rivendicare la sua quota di merito per questi primi risultati. Del resto, i sondaggi ci stanno dando ragione. Stanno premiando la nostra scelta, una scelta che davvero ha unito il partito, di mettere l'Italia prima di tutto.
Ma proprio il successo dell'azione dell'esecutivo, sta evidenziando una quarta emergenza, con la quale non possiamo non fare i conti. Ne ha parlato Eugenio Scalfari domenica scorsa su "La Repubblica": è il divario crescente tra l'elevato consenso al governo, pure nella impopolarità di molte delle sue stesse decisioni, e la caduta libera del gradimento al sistema politico, con particolare riferimento al sistema dei partiti e allo stesso Parlamento, sempre più vissuto come "casa dei partiti". Lo stesso ritrovato 30 per cento di intenzioni di voto al Pd, per la prima volta dopo il 2008, è calcolato al netto di un abbondante 40 per cento di elettori, di tutti gli orientamenti, che si dichiara incerto nell'orientamento di voto, perché sostanzialmente estraneo, quando non ostile, alla politica dei partiti.
È come se una parte crescente del paese (e dell'opinione pubblica internazionale) nutrisse il timore che, svanito l'incantesimo del governo dei tecnici, si finisca fatalmente per tornare allo "status quo ante", alla brutta politica della quale ci eravamo appena faticosamente liberati. La stessa politica che, nell'arco degli ultimi vent'anni, certo in modi e con responsabilità diverse, ha fallito la sua missione fondamentale: quella di affrontare con serietà e coraggio, trasparenza e rigore, i gravi, complessi, ma tutt'altro che insolubili, problemi del paese.
Probabilmente non ha torto chi vede nello stesso divario tra lo spread dei titoli a breve termine e quelli decennali, il riflesso di questo timore circa la facile reversibilità dei positivi cambiamenti in atto in Italia. Non sarebbe la prima volta, del resto, che nel nostro paese una promettente stagione riformista si rivela effimera: che dopo Ciampi arriva Berlusconi, che dal governo dell'Ulivo si torna ai governi dei partiti, fino ad alternarsi tra le "opposte opposizioni" dell'Unione e della Cdl.
Non so cosa farà il centrodestra, dinanzi a questa situazione. A me pare evidente che noi del Pd non possiamo certo presentarci agli italiani come "quelli di prima". Noi possiamo e dobbiamo presentarci agli italiani come la grande forza democratica che, come ha contribuito a rendere possibile il miracolo del passaggio dal governo Berlusconi-Bossi al governo Monti, così saprà rendere possibile la realizzazione dell'agenda Monti, dell'agenda per l'Italia, che ha riscosso il plauso dell'Europa e dell'America, non solo da qui al 2013, ma anche e soprattutto nella prossima legislatura. Potremo farlo credibilmente, se sapremo esibire tre credenziali fondamentali.
La prima è un sostegno, certo non acritico né passivo, ma convinto e attivo, all'azione riformatrice del governo. Rigore, crescita, equità sono le parole d'ordine del governo anche perché sono le nostre parole d'ordine, sono le parole d'ordine che scaturiscono dalla nostra lettura dei problemi e delle opportunità che l'Italia ha davanti a sé. Se non fosse così, semplicemente il governo Monti non ci sarebbe stato.
La seconda è un impegno altrettanto convinto e attivo per le riforme democratiche, nel segno della democrazia decidente. Dopo il governo Monti, non si può tornare all'incubo del bipolarismo distruttivo, ma neppure si può scambiare per terra promessa la palude del proporzionalismo, delle elezioni senza vincitori, dei governi che si fanno e si disfano in parlamento. Al porcellum delle liste bloccate e del premio di maggioranza, noi dobbiamo opporre un sistema elettorale basato sul doppio turno di collegio alla francese o, in alternativa, su un mix di collegi uninominali alla tedesca e di piccole circoscrizioni alla spagnola, per ristabilire il rapporto tra eletti e territorio e per creare le condizioni di un bipolarismo mite e costruttivo, fondato sulla competizione tra proposte di governo, incarnate nelle leadership di due grandi partiti "a vocazione maggioritaria", come avviene in tutte le grandi democrazie europee.
La terza, quella decisiva, è la qualità del nostro riformismo. Si è riaperta, in questi giorni, una disputa sulla cultura politica del Pd. A mio sommesso parere, ciò che è in gioco, in questa discussione, non è il nostro rapporto col socialismo europeo, che non può che essere stretto e forte, ancorché autonomo e non esclusivo. È in gioco piuttosto il senso del nostro contributo alla discussione in atto nel campo progressista, europeo e non solo. Proprio l'esperienza del governo Monti ci dice che la frontiera del riformismo possibile resta quella dell'economia sociale di mercato: il modello sociale europeo, nel quale socialismo, liberalismo e popolarismo, da ultimo arricchiti dall'apporto di una moderna cultura ambientalista, hanno dato ciascuno il meglio di sé. Un modello al quale noi democratici potremo dare un futuro solo se sapremo pensarlo nel contesto demografico, tecnologico e geopolitico del secolo nel quale viviamo e non di quello che ci siamo lasciati alle spalle.
È questa la cultura politica che ha alimentato le radici dell'Ulivo prima e del Partito democratico poi. In sintonia con le esperienze più avanzate del laburismo, del socialismo, del progressismo europeo, a cominciare da quelle, oggi da qualche parte sbrigativamente liquidate come subalterne al cosiddetto neo-liberismo, che hanno dato vita alla "terza via": la cultura politica che ha ispirato, per fare solo un esempio, la straordinaria "Agenda 2010" del governo rosso-verde di Schroeder e Fischer, quella che ha consentito alla Germania di diventare la grande potenza economica che è, proprio mentre i populismi di Berlusconi e Karamanlis portavano la Grecia e l'Italia verso il baratro. Faremmo bene a ricordarcelo e a r