Sep
28
2011
Perchè il crollo non ci trascini
Articolo pubblicato su "Europa"
  Le parole più sagge le ha pronunciate Bersani: "Non mi permetto di commentare la prolusione di Bagnasco. L'ho letta, chiunque può farsene un'opinione". Forse per un riflesso di antica scuola, il segretario del PD ha saputo così evitarsi di prendere parte al coro di alleluia per la chiara e netta presa di distanze, da parte del presidente della CEI, rispetto alla squallida conclusione della parabola politica di Berlusconi.

Non si tratta solo di una questione di stile, per la quale sono sempre da evitarsi gli eccessi di zelo: del resto, nulla rattrista di più, quanti hanno responsabilità pastorali, del sentirsi strattonati di qua o di là nella lotta politica. In questo caso si tratta di molto di più: in gioco c'è un passaggio che non è improprio definire storico, per il nostro paese, alle prese allo stesso tempo con la più grave crisi economica dal dopoguerra ad oggi e con una non meno vasta crisi politica.

Questa è la luna che ha indicato il cardinale e solo gli sciocchi possono aver capito che parlava del dito: la miserabile fine del berlusconismo, nelle parole del presidente dei vescovi italiani, è certo importante in sé, ma lo è soprattutto per la profondità della crisi che disvela e insieme per lo spazio di opportunità che apre. Ed è su questo piano che i democratici devono sentirsi chiamati in causa. Proprio il carattere epocale della crisi in atto pone infatti ogni forza politica dinanzi alla più radicale delle domande: quella riguardo al proprio ruolo storico, al proprio essere parte del mondo che muore, o invece levatrice di quello che nasce; al proprio appartenere alla crisi, esserne la mera rappresentazione speculare, o invece essere segno e strumento di speranza, una speranza operosa e attiva, capace di fare largo al futuro.

La risposta a questo interrogativo tocca a noi e a nessun altro. E tuttavia, non può trattarsi di un esercizio autistico: come ci percepiscono gli altri conta almeno quanto ci rappresentiamo noi. Non fosse altro perché, da come gli altri ci percepiscono, è possibile anche capire come noi stessi davvero ci rappresentiamo. Se non vogliamo rinchiuderci dentro un mondo illusorio, costruito a immagine e somiglianza delle nostre aspettative, non può dunque non interrogarci la sensazione, diffusa sia a livello popolare (basti pensare ai ricorrenti sondaggi sulla fiducia nel governo e nell'opposizione), che di classi dirigenti, per la quale ciò che abbiamo costruito, forse per come lo stiamo costruendo, non è oggi in grado di proporsi come "credibile, affidabile, praticabile" via d'uscita dalla crisi.

Ne è prova il moltiplicarsi di ipotesi di ritiro di qualunque delega, diretta o indiretta, alla politica come oggi è, a tutta la politica, non solo a quella governativa, da parte di settori importanti della società civile: si tratti di mondi produttivi e di associazioni di interessi, o di aggregazioni sociali, come quelle che in varie forme sono riconducibili al movimento cattolico e alla presenza della Chiesa. "Sembra rapidamente stagliarsi all'orizzonte - ha detto il cardinale Bagnasco nella sua prolusione - la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che - coniugando strettamente l'etica sociale con l'etica della vita - sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni". Dopo una severa critica della "cultura radicale" fondata su un'idea di libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale, Bagnasco conclude: "La transizione dei cattolici verso il nuovo inevitabilmente maturerà all'interno della transizione più generale del paese, e oserei dire anche dell'Europa, secondo la linea culturale del realismo cristiano, e secondo quegli atteggiamenti culturali di innovazione, moderazione e sobrietà che da sempre la connotano".

Sarebbe improprio e arbitrario dedurre giudizi politici da parole così chiare e così prudenti al tempo stesso. E tuttavia, un indizio, o un inizio, di traduzione storico-politica lo ha già proposto, in via ufficiosa ma autorevole, l'agenzia Sir, in una nota dedicata alla prolusione del presidente della CEI: "il senso di blocco che tutti percepiscono e che tutti in questo momento si rimpallano è dovuto al fatto che, dopo quasi vent'anni di alternanze, puntualmente prodottesi tra il centro-destra e il centro-sinistra, l'alternativa non è l'alternanza, cioè la sostituzione dell'attuale maggioranza di governo con l'attuale opposizione, ma la ristrutturazione del sistema". Una ristrutturazione che veda i cattolici protagonisti. Difficile non pensare a quella "sezione italiana del Ppe" che è il progetto attorno al quale possono scomporsi e ricomporsi gli attuali equilibri politici italiani.

Può darsi che questa visione difetti di realismo. Ed è certo che essa emerge da ambienti che non hanno mai guardato con fiducia e speranza all'ipotesi storico-politica che ha generato il Partito democratico: la costruzione di una casa comune di tutti i riformisti, capace di proporsi come "partito del paese" per ampiezza di rappresentanza e come leva per farlo uscire dalla crisi, attraverso un coraggioso e realistico programma di riforme. Quel che dovremmo chiederci è tuttavia se noi per primi crediamo ancora a questa ipotesi, o se non siamo stati innanzi tutto noi a preferire alla fatica dell'incontro, finalizzata alla costruzione di un pensiero nuovo, di una nuova cultura politica, che guardasse davvero oltre i confini storicamente minoritari della sinistra italiana, il più rassicurante riflusso in quell'alveo, magari compensato dall'attesa di una nuova fase di alleanze al centro.

Proprio la fine ingloriosa del berlusconismo sta spazzando via quelle che la nota del Sir definisce "le alternanze per disperazione", e che molto prima noi stessi, alla nascita del PD, avevamo definito le "alleanze contro", pensate per vincere e non per governare. Se non vogliamo rassegnarci a far parte del mondo che muore, dobbiamo imprimere un colpo d'ala alla nostra rotta, che deve ritrovare l'ambizione di esplorare cieli e terre nuove.


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