I rischi non sono azzerati, non tutto è già andato a posto. Per non dire dei 50 mila libici, fonte Cnt, ai quali la guerra civile del dittatore ha rubato la vita. Ma le notizie che arrivano da Tripoli ci dicono che il 18 marzo scorso abbiamo fatto la cosa giusta, noi senatori e deputati del PD: quando, quel venerdi pomeriggio di quasi-primavera, il nostro voto fu determinante, nelle commissioni esteri e difesa, per consentire la partecipazione italiana all'intervento militare in Libia.
Senza quel nostro si, la fuga della Lega e le imbarazzate esitazioni berlusconiane avrebbero portato l'Italia a fare come la Germania, peggio della Germania. Come i tedeschi, anche noi avremmo voltato la testa dall'altra parte, rimanendo insensibili al grido di dolore che si levava da quello che, proprio nelle stesse ore di solenni commemorazioni del 150º anniversario della ritrovata unità d'Italia, il presidente Napolitano definiva il "Risorgimento arabo". E mentre Joschka Fischer scriveva parole dure e amare contro la decisione avara e miope di Frau Merkel, noi l'avremmo fatta nostra.
Come la Germania, peggio della Germania. Perché Berlino ha potuto presentare la sua come una scelta di neutralità: quasi si possa rimanere neutrali, perfino al Consiglio di sicurezza dell'Onu, in un conflitto che oppone la feroce repressione di un dittatore, alla lotta per la libertà del suo stesso popolo. La nostra storia e la nostra geografia, così diverse da quelle tedesche nel rapporto con la Libia, avrebbero invece dato, alla nostra decisione di non intervenire, l'inequivocabile significato di una scelta di campo dalla parte del dittatore. "L'Italia si schiera con Gheddafi": così i giornali e i telegiornali di tutto il mondo avrebbero spiegato il nostro no ai raid aerei (peraltro quasi impossibili, anche per gli alleati, senza l'uso delle nostre basi), contro le colonne militari di Gheddafi che stavano entrando a Bengasi per soffocare nel sangue la rivolta popolare.
Pacifismo assoluto o ideologico a parte, l'intervento in Libia è risultato subito assai difficile da contestare sul piano dei princìpi: due risoluzioni Onu, il placet della Lega Araba, il nulla osta dell'Unione africana, oltre all'appello accorato degli insorti, lo rendevano pressoché inattaccabile, anche perché così lo aveva voluto Obama, sullo scivolosissimo versante della legittimità.
Si sono allora moltiplicate obiezioni, riserve e critiche, anche radicali, sul piano della sua fattibilità, della sua efficacia, dei suoi possibili esiti. Per quasi sei mesi, da destra e da sinistra, da analisti e osservatori oltre che da esponenti politici di primissimo piano di entrambi gli schieramenti, ci è stato spiegato che l'intervento avrebbe prodotto solo disastri: saremmo stati travolti da una marea di immigrati, tagliati fuori dal petrolio libico, forse perfino colpiti da rappresaglie terroristiche islamiche, mentre Gheddafi avrebbe vinto la guerra, anzi la stava già vincendo, perché gli americani ci avrebbero piantato in asso, gli europei si sarebbero divisi tra loro e noi avremmo subito la prepotenza francese nella inevitabile divisione e spartizione della Libia, e ove mai quel Cnt fosse riuscito a vincere saremmo caduti dalla padella di Gheddafi nella brace del fondamentalismo islamico.
Nulla di tutto questo ha neppure accennato a verificarsi. È l'ennesima lezione che la storia convulsa di questo passaggio di secolo offre alla politica: fare la cosa giusta, in politica internazionale, è il modo migliore di fare anche l'interesse del proprio paese. E perfino del proprio par