Nov
06
2009
Bersani ha vinto le primarie. Bersani è il nuovo segretario del PD: il nostro segretario
1. Bersani ha vinto le primarie, quindi Bersani è il nuovo segretario del PD. E' il nostro segretario. Chi, come noi, crede nell'elezione diretta del segretario, non può non inchinarsi al suo risultato: non farlo, sarebbe come teorizzare che il PD non può reggere ad una vera competizione interna per la leadership, ma può decidere i suoi vertici solo attraverso accordi di larghe intese. Non è il nostro caso, quindi viva le primarie, viva Bersani. Ma vale anche il rovescio: : come chi crede nelle primarie non può non accettarne il responso, così chi le vince non può non riconoscerle. E quindi anche Bersani e i bersaniani dovranno dire con noi viva le primarie. Hanno già cominciato a farlo, per la verità. Entrati nella sfida congressuale al grido minaccioso di fuori gli invasori, ora magnificano la splendida giornata di democrazia, con i quasi tre milioni (un mezzo milioncino meno che per Veltroni, ma di questi tempi è comunque una festa) in fila ai gazebo con i due euro in mano. E come dopo la grande prova di presenza e di mobilitazione degli iscritti, pur con tutte le ombre a mezzogiorno, nessuno ha più potuto parlare di partito liquido, anche se nessuno ha avuto l'onestà intellettuale di riconoscere che Veltroni e Franceschini avevano lavorato sodo per costruire un partito vero, in carne ed ossa, con settemila circoli e mezzo milione di iscritti votanti, il doppio dei Ds, così oggi, dopo la duplice vittoria di Bersani, nessuno parla più di dualismo tra iscritti ed elettori. Forse perché si è scoperta una verità banale: che in politica il potere che conta di più è il potere di agenda. E nel PD sono gli iscritti quelli che ne dispongono, sono loro che istruiscono la decisione, con l'esclusiva dell'elettorato passivo e con la selezione dei candidati che poi vanno al confronto finale tra gli elettori: altro che iscritti senza ruolo e senza poteri. Correzioni ne andranno apportate, a cominciare dall'ammissione alle primarie di due soli candidati. Ma sarebbe bello un bel riconoscimento corale che questo nostro Statuto, perfettibile perché sperimentale come lo è tutto il PD, in cammino in una terra incognita, non è affatto opera di Stranamore, ma è nelle sue strutture portanti un buon compromesso tra democrazia diretta e delegata: è un buon prodotto del nostro made in Italy, potrebbe dire Bersani, che molti in giro per il mondo stanno studiando e forse proveranno a copiare.
2. Bersani ha vinto e noi con Franceschini abbiamo perso, per tante ragioni, ma soprattutto per una vera, grande ragione: perché Bersani è parso agli occhi dei nostri elettori come più adatto alla sfida con Berlusconi per il governo del paese. E bisogna dare atto a Bersani di aver ben compreso questo suo vantaggio e di averlo saputo sfruttare con sapiente abilità. Il vero antiberlusconiano è chi lo manda a casa e noi siamo un partito per l'alternativa e non solo per l'opposizione: sono stati due gol, davanti ai quali tanto di cappello. Su questo sarà bene si apra una riflessione, nella nostra Area Democratica, quella che ha sostenuto Franceschini: non si può conquistare la leadership del campo riformista se non su una linea chiaramente riformista. Non si può dichiarare conclusa la stagione delle alleanze contro, se poi si imposta la propria strategia comunicativa prevalentemente contro. Ma anche Bersani e i suoi hanno di che riflettere. La leadership del PD è interessante, per i nostri stessi elettori, solo se si propone come candidatura alla premiership. Altrimenti è un affare nostro interno, che davvero sarebbe meglio fosse regolato dagli iscritti. Allora: non riapriamo discussioni statutarie, ma prendiamo atto che il PD serve al paese, interessa al paese, solo se produce accumulazione di forza e di idee per il governo del paese stesso. E che questa accumulazione ha nella leadership il suo punto di espressione sintetica. Quindi il nostro non è un partito del leader. Ma è un partito programmato per produrre leader, non tanto e non solo per se stesso, ma per se stesso in quanto per il paese. Non a caso, aver demolito con grande, corale impegno collettivo la leadership di Veltroni, analogamente a quanto l'Unione aveva fatto con quella di Prodi, ha prodotto la crisi di credibilità del PD. Noi non faremo a Bersani ciò che molti dei suoi e in più di un passaggio lui stesso hanno fatto a Veltroni. Non solo perché crediamo che chi porge l'altra guancia è più forte di chi la percuote, ma perché crediamo nel PD, per convinzione e non per convenienza. E speriamo che arrivino alla nostra stessa convinzione quanti hanno oggi dalla loro la forza della convenienza.
3. Tutto questo si chiama vocazione maggioritaria: costruire attorno al PD, ai suoi programmi e alla sua leadership, una maggioranza riformista che riesca a vincere le elezioni, a governare stabilmente, a riformare in profondità il paese. Un'impresa titanica, ma nulla di più di ciò che il paese domanda e merita. Non è mai stato chiaro se Rutelli ci credesse o no, alla vocazione maggioritaria. Più che di vocazione maggioritaria, davanti alla crisi dell'Unione, Rutelli aveva parlato di alleanze di nuovo conio, ovvero rivolte al centro invece che a sinistra. Quasi disperasse, già allora, che il PD potesse davvero andare oltre i tradizionali confini della sinistra italiana, potesse diventare quel partito del paese di cui parlava Nino Andreatta. E quasi pensasse che solo saldando il PD ad un sistema di alleanze rivolto al centro si potesse vincere la tentazione continuista. Oggi Rutelli scopre che l'enfasi sull'alleanza al centro e la tentazione continuista possono benissimo convivere. Non a caso, tutti i centristi fuori del PD hanno tifato Bersani: da Casini a Tabacci, da Pezzotta a Dellai. E non a caso, a parte forse la Bindi, tutti i bersaniani condividono la valenza strategica dell'alleanza al centro, fino a manifestare la disponibilità a concedere ai centristi la destrutturazione neo-proporzionalista del sistema politico italiano. Rutelli può quindi a buon diritto rivendicare una qualche coerenza della sua evoluzione politica: ma il suo itinerario era tracciato da tempo e in esso la vittoria di Bersani era non solo prevista, ma auspicata. Resta aperto l'interrogativo di fondo, per lui e i suoi nuovi compagni di strada, come per Bersani e i suoi sostenitori. Davvero qualcuno può pensare che sia nell'interesse dell'Italia tornare indietro rispetto al bipolarismo e ad un bipolarismo fondato su due grandi partiti a vocazione maggioritaria? A noi pare proprio di no. A noi pare che sia ugualmente rivolta all'indietro sia la strategia di ricostruzione di un'alleanza larga e indifferenziata a sinistra, una fatica di Sisifo nella quale Bersani pare aver già dissipato una parte significativa della sua luna di miele, sia l'ennesima ricerca di un nuovo centro dalla non meno incerta identità e funzione, non si capisce se moderata o modernizzatrice, nella quale Rutelli sembra ora voler riporre le proprie speranze. Due facce del medesimo riflesso conservatore. La verità, smentendo se stesso, almeno il se stesso degli ultimi mesi e dell'ultimo libro, l'ha detta Enrico Letta: il problema è prendere voti dall'altra parte, non ridistribuirli all'interno dell'opposizione. E il PD non può dare in appalto questa funzione strategica a nessun alleato, per quanto utile e importante. Parole sante. E non per egoismo, ma per realismo: sono i grandi partiti quelli che, cambiando se stessi in modo credibile e stabile, spostano gli elettori. Non fu la scissione centrista di Jenkins a battere i conservatori inglesi, ma la riforma blairiana del Labour. E' sul campo del PD che si gioca la partita, la si può vincere o perdere, mai una volta per sempre: il resto sono più o meno utili diversivi.
4. Partito di iscritti e di elettori, un programma e una leadership per il cambiamento del paese e un sistema di alleanze, asciutto e affidabile, attorno ad un grande partito a vocazione maggioritaria. E' attorno a questi capisaldi che il PD può riprendere l'iniziativa e costruire le condizioni per lanciare al centrodestra, nel 2013, la sfida per il governo dell'Italia. C'è un quarto pilastro, ugualmente imprescindibile: il rinnovamento culturale e morale della sua classe dirigente diffusa, nazionale e territoriale. Non per moralismo o per giustizialismo: semplicemente per riformismo. Non si riforma un bel niente con una classe dirigente diffusa che in troppe situazioni fa dell'intermediazione parassitaria, clientelare, quando non malavitosa, del consenso, la propria funzione sociale primaria. Riformismo significa costruire, organizzare il consenso attorno a credibili progetti di cambiamento, per l'appunto di riforma. Senza questo quarto pilastro rischiano di crollare anche gli altri tre. La domanda che a questo punto abbiamo davanti a noi è la seguente: noi che abbiamo perso la partita e che pure vediamo vincere molte delle nostre buone ragioni, abbiamo più possibilità di sostenerle accogliendo l'invito di Bersani ad un governo collegiale del partito, o mettendo meglio in evidenza la nostra distinzione, pur nella leale collaborazione col segretario e il suo gruppo dirigente? Franceschini ha deciso di accettare la sfida del governo collegiale, facendo propria quella massima dei vecchi assistenti spirituali che consigliavano, nei momenti di incertezza, di scegliere la via più in salita, quella più esigente e rischiosa. Noi siamo solidali con questa sua determinazione, ma siamo come lui consapevoli che la condizione di successo di questa sfida è la costruzione dell'Area Democratica: uno strumento di elaborazione politica e programmatica, di forte relazione con la società italiana, di organizzazione politica nel partito e nel paese. Perché la differenza del riformismo non sta tanto nella bontà dei fini, quanto nell'adeguatezza dei mezzi.
2. Bersani ha vinto e noi con Franceschini abbiamo perso, per tante ragioni, ma soprattutto per una vera, grande ragione: perché Bersani è parso agli occhi dei nostri elettori come più adatto alla sfida con Berlusconi per il governo del paese. E bisogna dare atto a Bersani di aver ben compreso questo suo vantaggio e di averlo saputo sfruttare con sapiente abilità. Il vero antiberlusconiano è chi lo manda a casa e noi siamo un partito per l'alternativa e non solo per l'opposizione: sono stati due gol, davanti ai quali tanto di cappello. Su questo sarà bene si apra una riflessione, nella nostra Area Democratica, quella che ha sostenuto Franceschini: non si può conquistare la leadership del campo riformista se non su una linea chiaramente riformista. Non si può dichiarare conclusa la stagione delle alleanze contro, se poi si imposta la propria strategia comunicativa prevalentemente contro. Ma anche Bersani e i suoi hanno di che riflettere. La leadership del PD è interessante, per i nostri stessi elettori, solo se si propone come candidatura alla premiership. Altrimenti è un affare nostro interno, che davvero sarebbe meglio fosse regolato dagli iscritti. Allora: non riapriamo discussioni statutarie, ma prendiamo atto che il PD serve al paese, interessa al paese, solo se produce accumulazione di forza e di idee per il governo del paese stesso. E che questa accumulazione ha nella leadership il suo punto di espressione sintetica. Quindi il nostro non è un partito del leader. Ma è un partito programmato per produrre leader, non tanto e non solo per se stesso, ma per se stesso in quanto per il paese. Non a caso, aver demolito con grande, corale impegno collettivo la leadership di Veltroni, analogamente a quanto l'Unione aveva fatto con quella di Prodi, ha prodotto la crisi di credibilità del PD. Noi non faremo a Bersani ciò che molti dei suoi e in più di un passaggio lui stesso hanno fatto a Veltroni. Non solo perché crediamo che chi porge l'altra guancia è più forte di chi la percuote, ma perché crediamo nel PD, per convinzione e non per convenienza. E speriamo che arrivino alla nostra stessa convinzione quanti hanno oggi dalla loro la forza della convenienza.
3. Tutto questo si chiama vocazione maggioritaria: costruire attorno al PD, ai suoi programmi e alla sua leadership, una maggioranza riformista che riesca a vincere le elezioni, a governare stabilmente, a riformare in profondità il paese. Un'impresa titanica, ma nulla di più di ciò che il paese domanda e merita. Non è mai stato chiaro se Rutelli ci credesse o no, alla vocazione maggioritaria. Più che di vocazione maggioritaria, davanti alla crisi dell'Unione, Rutelli aveva parlato di alleanze di nuovo conio, ovvero rivolte al centro invece che a sinistra. Quasi disperasse, già allora, che il PD potesse davvero andare oltre i tradizionali confini della sinistra italiana, potesse diventare quel partito del paese di cui parlava Nino Andreatta. E quasi pensasse che solo saldando il PD ad un sistema di alleanze rivolto al centro si potesse vincere la tentazione continuista. Oggi Rutelli scopre che l'enfasi sull'alleanza al centro e la tentazione continuista possono benissimo convivere. Non a caso, tutti i centristi fuori del PD hanno tifato Bersani: da Casini a Tabacci, da Pezzotta a Dellai. E non a caso, a parte forse la Bindi, tutti i bersaniani condividono la valenza strategica dell'alleanza al centro, fino a manifestare la disponibilità a concedere ai centristi la destrutturazione neo-proporzionalista del sistema politico italiano. Rutelli può quindi a buon diritto rivendicare una qualche coerenza della sua evoluzione politica: ma il suo itinerario era tracciato da tempo e in esso la vittoria di Bersani era non solo prevista, ma auspicata. Resta aperto l'interrogativo di fondo, per lui e i suoi nuovi compagni di strada, come per Bersani e i suoi sostenitori. Davvero qualcuno può pensare che sia nell'interesse dell'Italia tornare indietro rispetto al bipolarismo e ad un bipolarismo fondato su due grandi partiti a vocazione maggioritaria? A noi pare proprio di no. A noi pare che sia ugualmente rivolta all'indietro sia la strategia di ricostruzione di un'alleanza larga e indifferenziata a sinistra, una fatica di Sisifo nella quale Bersani pare aver già dissipato una parte significativa della sua luna di miele, sia l'ennesima ricerca di un nuovo centro dalla non meno incerta identità e funzione, non si capisce se moderata o modernizzatrice, nella quale Rutelli sembra ora voler riporre le proprie speranze. Due facce del medesimo riflesso conservatore. La verità, smentendo se stesso, almeno il se stesso degli ultimi mesi e dell'ultimo libro, l'ha detta Enrico Letta: il problema è prendere voti dall'altra parte, non ridistribuirli all'interno dell'opposizione. E il PD non può dare in appalto questa funzione strategica a nessun alleato, per quanto utile e importante. Parole sante. E non per egoismo, ma per realismo: sono i grandi partiti quelli che, cambiando se stessi in modo credibile e stabile, spostano gli elettori. Non fu la scissione centrista di Jenkins a battere i conservatori inglesi, ma la riforma blairiana del Labour. E' sul campo del PD che si gioca la partita, la si può vincere o perdere, mai una volta per sempre: il resto sono più o meno utili diversivi.
4. Partito di iscritti e di elettori, un programma e una leadership per il cambiamento del paese e un sistema di alleanze, asciutto e affidabile, attorno ad un grande partito a vocazione maggioritaria. E' attorno a questi capisaldi che il PD può riprendere l'iniziativa e costruire le condizioni per lanciare al centrodestra, nel 2013, la sfida per il governo dell'Italia. C'è un quarto pilastro, ugualmente imprescindibile: il rinnovamento culturale e morale della sua classe dirigente diffusa, nazionale e territoriale. Non per moralismo o per giustizialismo: semplicemente per riformismo. Non si riforma un bel niente con una classe dirigente diffusa che in troppe situazioni fa dell'intermediazione parassitaria, clientelare, quando non malavitosa, del consenso, la propria funzione sociale primaria. Riformismo significa costruire, organizzare il consenso attorno a credibili progetti di cambiamento, per l'appunto di riforma. Senza questo quarto pilastro rischiano di crollare anche gli altri tre. La domanda che a questo punto abbiamo davanti a noi è la seguente: noi che abbiamo perso la partita e che pure vediamo vincere molte delle nostre buone ragioni, abbiamo più possibilità di sostenerle accogliendo l'invito di Bersani ad un governo collegiale del partito, o mettendo meglio in evidenza la nostra distinzione, pur nella leale collaborazione col segretario e il suo gruppo dirigente? Franceschini ha deciso di accettare la sfida del governo collegiale, facendo propria quella massima dei vecchi assistenti spirituali che consigliavano, nei momenti di incertezza, di scegliere la via più in salita, quella più esigente e rischiosa. Noi siamo solidali con questa sua determinazione, ma siamo come lui consapevoli che la condizione di successo di questa sfida è la costruzione dell'Area Democratica: uno strumento di elaborazione politica e programmatica, di forte relazione con la società italiana, di organizzazione politica nel partito e nel paese. Perché la differenza del riformismo non sta tanto nella bontà dei fini, quanto nell'adeguatezza dei mezzi.
1 commenti all'articolo - torna indietro
inviato da vincenzo Calì il 07 November 2009 23:10
caro Giorgio,
il tuo ragionamento sul senso da dare a livello nazionale alla costituzione dell'area democratica (preparare in questo tempo, direbbe Degasperi,le donne e gli uomini che dovranno dar vita "alle cose nuove" di cui il Paese ha urgente bisogno)ha implicazioni locali non indifferenti. In attesa che, come auspica Bersani, si esca dal federalismo delle chiacchiere per passare a fatti concreti, proprio il Trentino è un banco di prova della reale capacità del PD di esplicare una vocazione maggioritaria. La nuova segreteria Nicoletti, grazie anche alla convergenza su di lui della nostra area, e la tua presidenza, sono condizioni necessarie per impostare un alleanza di "nuovo conio" con l'area rutellian-dellaiana che va costituendosi in Italia e in Trentino. Certo condizioni non ancora sufficienti per conquistare fin da subito un consenso maggioritario fra i trentini ( Dellai, che di territorio se ne intende, ci dice che il peso di un partito si vede dai voti che prende alle elezioni). In attesa di dimostrare che con un serio lavoro che guardi ai veri interessi delle nostre popolazioni si può ottenere il consenso delle stesse più e meglio di quanto possa fare l'alleanza fra UPT PATT e UDC, sarà comunque bene industriarsi affinchè al centrosinistra autonomista nel suo insieme risulti ben chiara la vocazione maggioritaria del PD che qui non è, come tu indichi anche per la dimensione nazionale, quella di trastullarsi nel gioco interno sulle cariche di partito, bensì si sostanzia nell'assunzione della guida responsabile del governo dell'intera comunità.
il tuo ragionamento sul senso da dare a livello nazionale alla costituzione dell'area democratica (preparare in questo tempo, direbbe Degasperi,le donne e gli uomini che dovranno dar vita "alle cose nuove" di cui il Paese ha urgente bisogno)ha implicazioni locali non indifferenti. In attesa che, come auspica Bersani, si esca dal federalismo delle chiacchiere per passare a fatti concreti, proprio il Trentino è un banco di prova della reale capacità del PD di esplicare una vocazione maggioritaria. La nuova segreteria Nicoletti, grazie anche alla convergenza su di lui della nostra area, e la tua presidenza, sono condizioni necessarie per impostare un alleanza di "nuovo conio" con l'area rutellian-dellaiana che va costituendosi in Italia e in Trentino. Certo condizioni non ancora sufficienti per conquistare fin da subito un consenso maggioritario fra i trentini ( Dellai, che di territorio se ne intende, ci dice che il peso di un partito si vede dai voti che prende alle elezioni). In attesa di dimostrare che con un serio lavoro che guardi ai veri interessi delle nostre popolazioni si può ottenere il consenso delle stesse più e meglio di quanto possa fare l'alleanza fra UPT PATT e UDC, sarà comunque bene industriarsi affinchè al centrosinistra autonomista nel suo insieme risulti ben chiara la vocazione maggioritaria del PD che qui non è, come tu indichi anche per la dimensione nazionale, quella di trastullarsi nel gioco interno sulle cariche di partito, bensì si sostanzia nell'assunzione della guida responsabile del governo dell'intera comunità.