Il primo sono i nostri militari: in un articolo molto critico sulla politica estera del governo Berlusconi, definita eccentrica e priva di visione, uno dei più autorevoli esponenti della diplomazia italiana, l'ex-ambasciatore Antonio Puri Purini, osservava (sul Corriere della sera del 9 novembre scorso) come le missioni militari italiane all'estero sostengano, pressoché da sole, la credibilità, "verrebbe da dire l'onore", del nostro paese. Oggi è così: ed è motivo di orgoglio per le forze armate della Repubblica, apprezzate in tutto il mondo per il loro coraggio, la loro professionalità e la loro umanità, la loro capacità di entrare in comunicazione con le popolazioni. Ma è anche motivo di giudizio severo sulla politica estera italiana, mai stata così confusa e ambigua, e di impegno a ricostruirne coerenza, credibilità, affidabilità, respiro strategico, quando toccherà di nuovo a noi, ai democratici, guidarla nella difficile quotidianità del nostro tempo.
Il secondo punto di riferimento è il presidente Napolitano, il suo richiamo costante, rivolto al paese nel suo insieme, ai fondamenti profondi, e per questo di lungo periodo, della nostra politica estera, quelli scolpiti nell'articolo 11 della Costituzione, che schiera l'Italia tra i paesi pacifisti ("L'Italia ripudia la guerra..."), ma di un pacifismo che non è isolazionismo, ma attiva cooperazione alla costruzione, attraverso le istituzioni multilaterali, a cominciare dall'Onu, di "un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni". Ove necessario, anche attraverso un uso misurato e legittimo della forza.
Il terzo punto di riferimento è il presidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la pace, Barack Obama, il suo impegno per la costruzione, appunto, di un ordine internazionale giusto e pacifico, in un contesto drammaticamente difficile, eppure carico di straordinarie potenzialità progressive, come quello attuale. Penso alle due missioni più pesanti da sostenere, sul piano etico, prima ancora che politico o finanziario: l'Afghanistan e la Libia. Che ci facciamo a Herat, perché non ce ne veniamo via? Perché siamo impegnati, a fianco dei nostri alleati, a cominciare dagli americani e dagli altri europei, e su mandato delle Nazioni Unite, in una difficile transizione verso una, se non piena, almeno accettabile, capacità di controllo del territorio da parte delle forze militari e di polizia afghane. Ce ne andremo dall'Afghanistan (il paese più povero del mondo, ma anche un paese strategico per gli equilibri mondiali) un po' alla volta, in modo ordinato e concertato con gli alleati, man mano che le forze afghane risulteranno in grado di farcela da sole. Dalla Libia invece, proprio non possiamo andarcene: perché la Libia ce l'abbiamo davanti a casa. Potevamo e possiamo solo scegliere, se schierarci con la comunità internazionale e con gli insorti di Bengasi, di Misurata, speriamo presto anche di Tripoli, o se continuare a stare dalla parte di Gheddafi. Solo Berlusconi e la Lega possono avere dubbi su da che parte stare.
Il quarto punto di riferimento siamo noi stessi, il nostro lavoro politico e parlamentare. Lo abbiamo cambiato, in Senato, il decreto del governo. Siamo riusciti, invocando il nostro diritto a votare in modo bipartisan un testo che non presentasse contenuti per noi inaccettabili, a ripulirlo dalle norme sbagliate e spurie, come l'emendamento leghista sulla liberalizzazione della vendita delle armi, o la rivisitazione in senso penalizzante per le Ong di alcune norme amministrative della legge 49. Siamo riusciti a restituire 16 milioni e mezzo di euro alla cooperazione civile, in particolare in Afghanistan: un componente tanto più prezioso del nostro intervento in quei paesi, man mano che dovrà procedere il ritiro delle forze militari. Siamo riusciti, soprattutto, ad ottenere dal governo l'impegno, formalizzato in una norma di legge, ad un passaggio parlamentare di discussione approfondita su ciascuna delle missioni e sulla loro rimodulazione futura, entro due mesi prima della scadenza del decreto, cioè entro ottobre. A questo importante appuntamento, vera e propria prova generale della nostra capacità di governo di uno dei dossier più importanti e delicati, i gruppi parlamentari del PD si presenteranno forti delle loro idee e delle loro proposte.