Partiamo dai primi. A me pare che il voto alla Camera sul caso Papa, insieme con quello in Senato sul caso Tedesco, abbia dimostrato in modo definitivo la strutturale inadeguatezza, dell'attuale regime di applicazione delle garanzie costituzionali a tutela dell'attività parlamentare, ad assicurare il giusto equilibrio tra principio di legalità e salvaguardia della rappresentanza politica. L'articolo 68 della Costituzione, come modificato in senso restrittivo nel 1993, quando è stata abolita l'autorizzazione a procedere per tutti i reati contenuta nella Carta del 1948, prevede infatti che nessun parlamentare possa essere perseguito per i reati d'opinione (comma 1), e che non possa venire privato della libertà, o sottoposto a perquisizione o intercettazione "senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene" (comma 2), La garanzia di immunità è quindi affidata a un atto discrezionale di un organo politico, per di più (e non potrebbe essere diversamente) espresso a maggioranza. Detto con altre parole, la valutazione circa una garanzia costituzionale è affidata dalla Costituzione stessa a un atto squisitamente politico di una maggioranza parlamentare. La conseguenza di questa norma è una a me pare tragica eterogenesi dei fini: un istituto immaginato per impedire l'uso politico della giustizia si è rovesciato nel suo contrario, la sistematica politicizzazione della giurisdizione sui parlamentari. E' infatti del tutto evidente che il deputato Papa deve il suo arresto alla circostanza, tutta e solo politica, che la richiesta che lo riguardava è giunta alla Camera quando "la pazienza della Lega era ormai finita". Fosse arrivata un attimo prima, quando la pazienza padana c'era ancora, oggi Papa, per ragioni ugualmente tutte e solo politiche, non sarebbe tra i sommersi a Poggioreale, ma a Montecitorio, insieme con i tanti suoi colleghi salvati, come Tedesco, "a maggioranza". Difficile costruire, su basi tanto fragili e incerte, un rapporto tra giustizia e politica equilibrato e credibile, capace di sostenere lo sguardo, comprensibilmente sempre più severo, dei cittadini.
Non dissimile il discorso da fare riguardo all'altro versante del problema, quello della magistratura. Nel citato discorso ai tirocinanti, il presidente Napolitano ha denunciato un offuscamento dell'immagine di indipendenza dell'ordine giudiziario, a causa del diffondersi tra i magistrati di fuorvianti esposizioni mediatiche e di improprie presunzioni di investitura di esorbitanti funzioni politiche: un offuscamento che mina alla radice la fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura. La domanda che sorge spontanea è perché simili comportamenti non vengano sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura, al quale l'articolo 105 della Costituzione attribuisce la competenza dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. La risposta è probabilmente la stessa: per i limiti insuperabili della giustizia corporativa, tanto più se essa viene amministrata da rappresentanze elettive, per le quali il vincolo di solidarietà finisce inevitabilmente col prevalere sul principio di legalità e sulla sua applicazione in modo imparziale.
Queste due parallele considerazioni, basate su fatti difficilmente contestabili, mi pare convergano nel suggerire di prendere in esame l'ipotesi di un superamento di entrambi gli istituti di giustizia corporativa, per affidare sia l'autorizzazione prevista dall'articolo 68, sia i procedimenti disciplinari contemplati dall'articolo 105, a un organo terzo, collocato presso la Corte costituzionale, composto ad esempio dagli ultimi tre presidenti della Corte stessa, provenienti rispettivamente dai giudici nominati dal Presidente della Repubblica, da quelli eletti dal Parlamento e da quelli scelti dalle magistrature. Un organo siffatto (o di analoga composizione e natura) avrebbe il pregio di spoliticizzare l'amministrazione delle garanzie costituzionali a tutela dei parlamentari e di rendere più penetrante la vigilanza disciplinare sulla magistratura. Farebbe venir meno, tra l'altro, l'attuale paradossale contraddizione, per la quale all'inflazione di autoassoluzioni della classe politica, mediante l'invocazione, a proposito e più spesso a sproposito, del "fumus persecutionis", non corrisponde poi alcuna conseguenza disciplinare nei riguardi dei magistrati solennemente proclamati "persecutori" dal Parlamento. Con evidente sconcerto dei cittadini e disdoro delle istituzioni. Unificando la sede del giudizio, non si potrà più dar torto a una parte senza dar ragione all'altra e viceversa. Resta aperta, naturalmente, la domanda circa il realismo di una riforma costituzionale in una temperie politica come l'attuale. Spes contra spem.