In effetti, Stati Uniti a parte, l'Italia è uno dei primi paesi al mondo per impegno nelle missioni internazionali d'imposizione e di mantenimento della pace: solo negli ultimi dodici mesi, tra il secondo semestre del 2010 e il primo del 2011, al netto del contributo all'intervento della Nato in Libia, ancora difficilmente quantificabile, l'Italia ha mobilitato circa 8.500 effettivi, tutti professionisti ben addestrati e molto apprezzati dai comandi internazionali, e una grande quantità di mezzi, terrestri, navali e aerei, per un onere finanziario, a carico del bilancio dello Stato, di quasi un miliardo e mezzo di euro. Alto è stato, in questi anni, anche il costo umano delle missioni: decine di caduti, militari e civili, in combattimento, in attentati o in incidenti; numerosi feriti gravi e un numero imprecisato di ammalati a causa di contaminazioni, come quelle da uranio impoverito.
Soprattutto, si tratta di un impegno ormai di lungo periodo: Balcani, Afghanistan, Iraq, Libano, ora Libia, per citare solo i più importanti, sono altrettanti teatri di conflitto che vedono, o hanno visto, una presenza militare dell'Italia, in alcuni casi più che decennale. Si può dire che negli ultimi vent'anni, quelli seguiti alla fine dell'ordine internazionale della Guerra Fredda, e più precisamente dalla prima Guerra del Golfo fino ad oggi, l'impegno italiano nelle missioni militari internazionali è divenuto una costante della nostra politica estera e di difesa.
Con la sola eccezione di quella in Iraq, contestata perché considerata in qualche modo figlia di un intervento illegittimo e sbagliato, il Partito democratico oggi, come l'Ulivo ieri, ha sempre sostenuto col suo voto in parlamento, sia dal governo che dall'opposizione, le nostre missioni militari all'estero. E per questo ha anche dovuto affrontare un dissenso, in qualche caso esteso, del suo stesso elettorato (basti pensare al Kosovo e all'Afghanistan nella prima fase), oltre ad una divergenza, talora radicale, con gli alleati alla sua sinistra, che è stata tra le cause principali della crisi sia del primo che del secondo governo Prodi.
È quindi difficile sopravvalutare l'importanza politica delle missioni militari all'estero: per la radicalità delle questioni che mettono in gioco (la pace e la guerra, il diritto e la forza) e per la rilevanza delle implicazioni che comportano in termini di politica estera e di difesa (la policy che forse più di ogni altra influenza la politics), esse hanno svolto e tuttora svolgono di fatto il ruolo di marcatore privilegiato dell'identità di ogni forza politica, nonché della "credibilità, affidabilità e praticabilità" (Napolitano citando Antonio Giolitti, il 5 maggio scorso) delle coalizioni di governo, che non possono durare in presenza di divergenze di fondo a questo riguardo. Come l'esperienza dei governi di centrosinistra dimostra in modo difficilmente controvertibile.
Sulle orme dell'Ulivo, il Partito democratico ha fatto del sostegno alla partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali d'imposizione e mantenimento della pace uno dei suoi tratti identitari. E non semplicemente per ragioni di Realpolitik, o di fedeltà alle alleanze internazionali dell'Italia: anche sulla base di entrambe queste ragioni, i democratici hanno dato vita nel tempo ad un solido framework di cultura politica, costituito da principi di fondo e da analisi geo-politiche di lungo periodo, che può essere utile, almeno sommariamente, richiamare.
Sul piano dei principi fondamentali, la stella polare che ha orientato la rotta dei democratici è stato, indubbiamente, l'articolo 11 della Costituzione: un testo che, letto nella sua interezza, prevede a un tempo e nella stessa logica, il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; il consenso, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; e la promozione delle organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L'articolo 11 della Costituzione schiera dunque l'Italia tra i Paesi "pacifisti", che ripudiano la guerra, se non per legittima difesa. Ma il pacifismo dell'articolo 11 non ha un carattere neutralista o isolazionista. La seconda e la terza proposizione dell'articolo (non a caso composto di un unico comma) escludono in radice questa possibilità: tutto al contrario, esse impegnano l'Italia a promuovere attivamente un ordinamento internazionale che assicuri la pace e la giustizia. E indicano nella limitazione della sovranità nazionale e nella promozione di organizzazioni sopranazionali (quelle che poi saranno la Comunità europea, la Nato e l'Onu), la via maestra per raggiungere un tale scopo.
Il pacifismo costituzionale ha dunque un carattere attivo, interventista e multilateralista: l'Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell'ordine mondiale; l'Italia deve intervenire attivamente nel contesto internazionale, ma col duplice vincolo segnato dal fine, che deve essere la promozione di un ordinamento più pacifico e più giusto, e dal mezzo, che deve essere la limitazione della sovranità in un quadro multilaterale e non l'affermazione unilateralistica della sovranità stessa.
Parte integrante e qualificante della limitazione della sovranità è la progressiva cessione del monopolio dell'esercizio della forza armata, dal livello statuale (fermo restando il diritto-dovere alla legittima difesa) a quello sovrastatale e multilaterale. È quanto prevede il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che contempla e regola l'uso della forza, da parte della comunità internazionale, per mantenere la pace e la sicurezza.
Il nesso strettissimo che lega la Costituzione repubblicana alla Carta delle Nazioni Unite è stato di recente richiamato dal presidente Napolitano nel suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu, a New York, il 28 marzo 2011. Dalla tribuna ai piedi del Palazzo di vetro, Napolitano ha definito le scelte compiute dall'Italia, negli stessi anni in cui nascevano le Nazioni Unite, da un lato di abbracciare la democrazia e dall'altro di aderire ad un ordine internazionale multilaterale, come "due facce della stessa medaglia". Ed ha affermato solennemente che gli ideali contenuti nell'articolo 11 della Costituzione, "fissati nei principi fondamentali della Repubblica, hanno ispirato l'azione internazionale del mio paese nel corso di più di sessant'anni di vita delle Nazioni Unite e in particolare il nostro fattivo contributo alla costruzione delle istituzioni europee sopranazionali".
In quell'importante discorso, Napolitano ha in effetti riaffermato i quattro pilastri fondativi della politica estera italiana, da De Gasperi fino ad oggi: "I due punti fermi della posizione dell'Italia nelle relazioni internazionali - ha detto il presidente della Repubblica - sono stati e sono la creazione e il rafforzamento della Comunità Europea e l'adesione all'Alleanza Atlantica. Le Nazioni Unite (terzo pilastro, ndr) incarnano la medesima scelta multilateralista su scala globale". Poco prima, nello stesso intervento, Napolitano aveva evidenziato la vocazione mediterranea dell'Italia, il quarto pilastro della nostra politica estera: "La storia, la geografia e la cultura dell'Italia sono radicate nel Mediterraneo... Il nostro futuro risiede in un partenariato condiviso con i nostri amici in Nord Africa, nel Medio Oriente, nel Golfo".
Nelle parole del Capo dello Stato, principi fondamentali etico-politici e linee direttrici geo-politiche di lungo periodo s'incontrano e si fondono in un quadro robusto e solido, quello della costruzione di un ordine internazionale giusto e pacifico, perché fondato su istituzioni solide e durature, rivolte a tale scopo. È lo stesso quadro che, beninteso su un piano diverso e senza alcuna pretesa esclusiva, anzi con l'esplicita ricerca di una condivisione bi-partisan di lungo periodo, ha orientato ed orienta la linea di politica estera e di difesa dei democratici italiani.
Sulla base di questa costellazione di criteri, è stato possibile in questi anni, prima per l'Ulivo e poi per il Pd, sostenere la partecipazione dell'Italia alle missioni militari internazionali, affermandone la piena coerenza con il dettato costituzionale: esse infatti, da un lato non violano l'articolo 11, in quanto non si pongono come azioni di guerra finalizzata a offendere la libertà degli altri popoli, o a risolvere con la forza, anziché col diritto, le controversie internazionali; dall'altro, esse concorrono all'adempimento del precetto costituzionale che impegna l'Italia a collaborare, attraverso il metodo multilaterale, alla costruzione di un ordine internazionale più giusto e più pacifico, nel quale la forza sia posta, per quanto gradualmente e imperfettamente, al servizio del diritto e non sia più essa stessa unica misura dei rapporti internazionali.
Naturalmente, non tutte le missioni sono uguali: l'esperienza difficile e anche sofferta di questi vent'anni, ha consentito di definire una gerarchia d'interventi preferibili ad altri, stabilire i confini di un'area problematica, sotto il profilo della legittimità costituzionale, ed escludere decisamente un'ultima tipologia d'interventi.
È evidente che l'area di massima preferibilità coincide con quella di massima multilateralità, sotto il profilo della forma giuridico-politica, e a più marcato carattere di peace-keeping, sotto il profilo delle finalità politico-militari. La missione in Libano (2006), voluta e costruita in primo luogo per l'iniziativa internazionale del governo Prodi, è tra quelle che meglio rispondono a questi criteri: una missione di caschi blu, sotto comando Onu collocato al Palazzo di vetro, e finalizzata a presidiare una frontiera calda, quella israelo-libanese, dopo un accordo di cessate il fuoco, del quale la missione d'interposizione è stata una delle clausole decisive. Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, grazie all'impegno dell'Italia, una risoluzione del Consiglio di sicurezza (la n. 1701 dell'11 agosto 2006) ha fermato una guerra e creato le condizioni politiche perché il segretariato generale dell'Onu si dotasse di un comando militare diretto (assunto da un generale italiano), non più delegato a singoli paesi o a organizzazioni militari regionali.
La seconda area, più problematica, è quella segnata da una legittimazione multilaterale meno diretta e da un più elevato ricorso all'uso della forza (peace-enforcing), sia pure sempre orientato, quanto alle finalità, alla promozione di un ordinamento di pace e di giustizia tra i popoli e generato da evidenti ragioni di sicurezza internazionale (Afghanistan, 2001) o da gravi emergenze umanitarie (Kosovo, 1998 e Libia, 2011). È l'area nella quale si colloca la maggior parte delle missioni più impegnative, sia politicamente che militarmente, in un ordine decrescente di multilateralità: dall'Afghanistan (e ora dalla Libia), autorizzate da risoluzioni dell'Onu, ma affidate alla Nato (Libia) o a un'ampia coalition of willings (Afghanistan) per la loro conduzione politico-militare, fino al caso del Kosovo, quando l'intervento contro Belgrado partì privo di autorizzazione dell'Onu, bloccata dal veto russo in Consiglio di sicurezza, pur nell'evidenza di una drammatica catastrofe umanitaria.
È invece da escludere la partecipazione dell'Italia a missioni internazionali prive di legittimazione multilaterale, o addirittura effettuate contro la maggior parte della comunità internazionale, e motivate da obiettivi di assai dubbia legittimità, come il regime-change o la cosiddetta "esportazione della democrazia": fu questo il caso della guerra contro l'Iraq (2003), alla quale l'Italia non poté partecipare, per il veto opposto dal presidente Ciampi, Costituzione alla mano, contro le intenzioni interventiste del governo Berlusconi. L'Italia inviò poi, a guerra finita, una missione di supporto alla difficile transizione irachena, legittimata dalle Nazioni Unite, ma in un quadro di divisione politica, sia internazionale che interna. L'Ulivo votò sempre contro la missione in Iraq, pur nella solidarietà con le nostre forze armate, nell'apprezzamento del loro lavoro e nella condivisione del dolore e del lutto prodotti da diversi gravi episodi bellico-terroristici, a cominciare dalla strage di Nassiriya (12 novembre 2003), la più cruenta della storia delle nostre missioni militari all'estero (19 caduti italiani, tra militari e civili).
L'applicazione dei criteri generali di legittimità costituzionale ed etico-politica alle singole missioni resta quindi un problema aperto e mai risolto una volta per tutte: il contesto geo-politico è infatti in continuo mutamento e ciò influenza non poco obiettivi e metodi delle missioni. Basti pensare all'alternanza, nell'ultimo quarto di secolo, tra amministrazioni repubblicane e democratiche alla Casa Bianca e quanto essa abbia connotato in modo diverso l'uso della forza nelle relazioni internazionali e influenzato il giudizio delle forze politiche, democratici italiani compresi: dal prudente realismo di Bush padre, all'interventismo umanitario di Clinton (e Blair), fino all'unilateralismo neo-conservatore di Bush jr. E ora, alla complessa "dottrina Obama", alla ricerca, da parte del presidente nero dal nome arabo, di una sintesi tra "realismo" e "idealismo", tra ridimensionamento "realistico" dell'esposizione americana e occidentale nel mondo, in favore di un più forte e deciso investimento sulle organizzazioni multilaterali, a cominciare dall'Onu, e dovere "idealistico" di sostenere, anche attraverso un uso regolato, proporzionato, misurato della forza, legittimato da quelle stesse organizzazioni, quanti nel mondo, a cominciare, proprio in questi mesi, dai paesi arabo-islamici, si battono per la libertà, la democrazia, i diritti umani fondamentali.
Nell'importante discorso tenuto a Oslo il 10 dicembre 2009, nel ricevere il Premio Nobel per la Pace, il presidente Obama ha proposto come bussola, per orientarsi in un passaggio storico di tale, enorme complessità, un pensiero del suo grande predecessore, John F. Kennedy: "Concentriamo il nostro impegno su un'idea di pace più concreta e raggiungibile, affidata non a un'improvvisa rivoluzione dell'umana natura, ma a una graduale evoluzione delle umane istituzioni". Non si potrebbe, credo, definire meglio il pacifismo dei riformisti, il pacifismo dei democratici.