Jun
02
2011
Il ghetto di Shu'fat
Impressioni da una visita ad un campo palestinese a Gerusalemme Est

Piùche un campo, Shu'fat è un ghetto, mi dice la mia guida, Michael Neuwirth, unfunzionario Onu di origine tedesca, innamorato dei palestinesi e che parlainglese con una velocità pari alla passione. Un ghetto paradossale: imposto daebrei e gestito dalle Nazioni Unite.

Quasi20 mila persone, più della metà giovani sotto i 25 anni, vivono in un quinto dichilometro quadrato, chiusi da uno dei pezzi del famoso muro, fatto a tratti dicemento e a tratti di filo spinato. Gli abitanti possono uscire, non soloperché quasi tutti lavorano all'esterno, ma anche perché hanno il privilegio diessere cittadini di Gerusalemme, come tali in possesso di carta d'identitàisraeliana. Ma è un privilegio che costa caro. Al prezzo che pagano tutti ipalestinesi dei territori, che per entrare in Israele devono passare attraversoi checkpoint, davanti ai quali ogni giorno nelle ore di punta si formano codeestenuanti, per quelli di Shu'fat si aggiunge un salatissimo supplemento.L'amministrazione israeliana li sottopone ad un vero e proprio"mobbing" collettivo: li vuole spingere ad andarsene, per eliminarequella fastidiosa enclave palestinese nell'area urbana della capitale diIsraele.

Einfatti, a Shu'fat, più che la povertà, colpisce il degrado: mancano leinfrastrutture e i servizi civili essenziali. Le strade sono dissestate, lecase ammassate tra loro, le più vecchie rialzate di due o tre piani oltre aquelli previsti in origine, con grave rischio di crolli, i cavi elettrici etelefonici volanti, i rifiuti... (lasciamo perdere paragoni imbarazzanti). Ilproblema è che gli abitanti di Shu'fat pagano le tasse come tutti i cittadinidi Gerusalemme, come quelli dell'insediamento israeliano che si vede oltre ilmuro: casette ordinate, strade asfaltate, illuminazione e verde pubblico daquartiere residenziale europeo. Ma a loro, ai contribuenti di Shu'fat,l'amministrazione di Gerusalemme non dà in cambio nessun servizio: nemmeno lapolizia (l'ordine pubblico a Shu'fat è autogestito), perché quella israeliananon entra in quello che comunque è un campo palestinese e quella palestinesenon c'è perché quelli di Shu'fat sono cittadini di Gerusalemme.

Allasanità e alla scuola ci pensa l'Unrwa, il braccio operativo dell'Onu per iprofughi palestinesi: una macchina imponente, dalla quale dipendono moltiaspetti della vita quotidiana di quasi 5 milioni di persone (i palestinesi"espulsi" da Israele dopo il 1948), divisi in decine di campi traWest Bank, Gaza, Libano, Siria e Giordania. Una macchina con 30 mila dipendentinel motore (che pesano sul budget nella misura dell'11 per cento), milioni didollari nel serbatoio (sempre troppo pochi, frutto delle donazioni degli stati,l'Italia è tra i meno generosi) e dall'anno scorso guidata da un italiano,Filippo Grandi, il nostro connazionale più in alto in grado al Palazzo di Vetrodi New York.

Alresto non ci pensa nessuno. Nessuno pensa, in particolare, alla casa. Col lorolavoro, i palestinesi di Shu'fat se la possono costruire, ma l'amministrazionedi Gerusalemme nega loro la licenza. Quindi i palazzi, alcuni anche più chedignitosi, sono abusivi e l'amministrazione israeliana può decidere da ungiorno all'altro di abbatterli con le ruspe, come in effetti fa periodicamente,trasformando le abitazioni in macerie e mandando in fumo i risparmi di unafamiglia. Ma loro resistono, non se ne vanno, anche perché non vogliono perderela carta d'identità israeliana...

Palestinesie israeliani sono due popoli straordinari, per intelligenza e per coraggio. Matra le loro virtù non abbonda la predisposizione alla nobile arte delcompromesso. Quell'arte che un grande scrittore ebreo, Amos Oz, ha descrittolucidamente come la base indispensabile della pace possibile. Solo da uncompromesso, che garantisca ai palestinesi uno stato loro e agli israeliani lasicurezza, può venire la soluzione al doloroso rompicapo mediorientale. Perquesto noi europei non dobbiamo prende le parti degli uni contro gli altri, maspingere e aiutare entrambe a fare passi in avanti gli uni verso gli altri.Come sta provando a fare, speriamo con successo, Barack Obama.

 

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