È un vero e proprio "Manifesto del pensiero democratico", il discorso che Barack Obama ha tenuto il 25 maggio scorso a Westminster, sede storica del grande Parlamento inglese. Un manifesto che confuta, con efficacia retorica e forza argomentativa, la tesi secondo la quale quello democratico sarebbe un pensiero "debole" e la stessa espressione "democratico" avrebbe senso solo come aggettivazione di un qualche pensiero "sostanziale" (socialista, liberale, cristiano...), mentre non potrebbe in alcun modo ambire a proporsi esso stesso come sostantivo.
Obama ignora questi cascami ideologici novecenteschi ed esalta la forza del pensiero democratico, proponendolo al tempo stesso come identità profonda, moderna e aperta dell'Occidente e come patrimonio universale dell'umanità, come ideale ispiratore e regolativo di ogni progresso possibile, in ogni angolo della terra.
Lo fa da statista, non da uomo di parte. Come è nella migliore tradizione della presidenza americana, che sempre ricomprende in una visione generale le posizioni politiche e culturali di partenza. Ma come è, anche e soprattutto, nelle sue corde profonde, di idealista pragmatico, che mal sopporta la deriva hyper-partisan che ormai da decenni sta mutando geneticamente il mondo repubblicano (e di converso, parti significative dell'area liberal), alla quale egli cerca di opporre, con pazienza e tenacia che stanno forgiando la sua leadership, la riscoperta delle virtù dell'approccio bi-partisan, di convergenza attorno ad un patrimonio culturale e morale comune a tutta la nazione.
La nostra relationship, dice Obama ai britannici, è "speciale" non solo per ragioni storiche, culturali, linguistiche, ma soprattutto "in ragione dei valori e dei principi che hanno unito i nostri popoli nelle diverse fasi storiche". Sono i valori e i principi della libertà, dei diritti umani, della rule of law, della democrazia, impressi nella Magna Carta, nel Bill of Rights, nella Dichiarazione di indipendenza americana. Un percorso lungo e tortuoso, che ha attraversato i secoli ed è costato lotte, conflitti, guerre, fino alla seconda guerra mondiale e alla guerra fredda. Un percorso che ha visto protagoniste in modo del tutto particolare le due sponde dell'Atlantico. E tuttavia, aggiunge Obama, "Attraverso le lotte degli schiavi e degli immigrati, delle donne e delle minoranze etniche, delle ex-colonie e delle religioni perseguitate, noi abbiamo imparato che l'anelito alla libertà e alla dignità umana non è inglese o americano, oppure occidentale, ma è universale e batte in ogni cuore".
È questa esperienza, che ha fatto del mondo anglo-sassone in primis e subito dopo dell'Occidente nel suo insieme, il motore dell'evoluzione democratica del mondo, la ragione del suo primato: passato, ma anche presente e futuro. Obama rifiuta con nettezza la ricorrente profezia del declino americano (variazione sul tema del tramonto dell'Occidente): quello che Fareed Zakaria chiama the rise of the rest, ossia la crescita a passi da gigante degli altri, di quelli che non sono l'Occidente (a cominciare da Cina, India e Brasile), è una buona notizia in sé, "perché ha sollevato centinaia di milioni di persone dalla povertà", ma anche per noi, perché ha creato nuove opportunità e aperto nuovi mercati ai nostri paesi. Non è dunque affatto ineluttabile che l'ascesa degli altri produca il declino dell'influenza americana ed europea nel mondo.
Per Obama è vero esattamente il contrario. "The time for our leadership is now", ha scandito il presidente americano a Westminster Hall. Perché "in un tempo nel quale minacce e sfide di ogni genere chiedono alle nazioni di lavorare di concerto le une con le altre, noi rimaniamo il più grande catalizzatore per l'azione globale". Non solo e non tanto per il nostro hard-power, come direbbe Joseph Nye, ossia la nostra potenza economica e militare, quanto soprattutto per il nostro soft-power, ossia per la forza dei nostri principi e dei nostri valori: "In un'era caratterizzata dal rapido fluire del commercio e dell'informazione, è la nostra tradizione di libero mercato, il nostro modello di società aperta, rafforzato dal nostro impegno per la sicurezza sociale di base per i nostri cittadini, che offre la migliore possibilità di una crescita del benessere che sia al tempo stesso forte e ben distribuita. E dinanzi al fatto che milioni di persone nel mondo si vedono negati i loro basilari diritti umani, a causa di chi sono, o in cosa credono, o al tipo di governo al quale sono soggetti, noi siamo le nazioni che più di tutte le altre intendono schierarsi dalla parte dei valori di tolleranza e di autodeterminazione, che portano alla pace e alla dignità".
È questa sapiente miscela di libertà economiche e diritti umani il segreto del successo dell'Occidente: della sua forza, che per Obama resterà tale solo se europei e americani sapranno mantenere e rilanciare il loro primato nella formazione, nella ricerca, nell'innovazione; e poi della sua capacità di attrazione nei riguardi degli altri, che sarà tanto più forte, quanto più sarà capace di proporsi nella libertà e non attraverso l'imposizione dall'esterno di modelli avvertiti come estranei.
La bussola ideale, secondo Obama, è il principio secondo il quale alla base, dunque prima dei diritti delle nazioni, ci sono i diritti dei cittadini, delle persone. Dopodiché, si affretta a precisare il presidente, "la storia ci dice che la democrazia non è facile": perché l'idealismo di Obama è sempre controllato da una robusta dose di realismo e in questa sintesi sta la forza del pensiero democratico.
Dunque la strada della democrazia è lunga: è stato così per l'Occidente, è stato così per l'Est europeo, sarà così anche per il mondo arabo-islamico. "Ma attenti a non sbagliare - dice Obama - quello che abbiamo visto e vediamo a Teheran, a Tunisi, a piazza Tahrir (una sequenza tutt'altro che casuale e assai significativa, ndr) è il desiderio per le stesse libertà che noi consideriamo garantite qui a casa nostra. Ed è il rifiuto della tesi secondo la quale le persone in certe parti del mondo non vogliono essere libere, o hanno bisogno che la democrazia sia loro imposta dall'alto".
Questo grande movimento di popolo, pur con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, ha segnato una svolta nel mondo arabo-islamico, dinanzi alla quale non ci sarebbe nulla di meno realistico che restare aggrappati ad un mondo che sta affondando irreversibilmente nei flutti della storia. Non c'è altra strada, dice Obama, che quella di far incontrare i nostri interessi, primo tra tutti quello alla stabilità dell'area, con i nostri valori di libertà e democrazia: o avremo una stabilità democratica o non avremo nessuna stabilità, perché la stabilità dei regimi autoritari e dittatoriali è morta per sempre.
"È questa semplice verità che guida il nostro intervento in Libia - continua Obama - Sarebbe stato facile, all'inizio della repressione in Libia dire che non erano affari nostri, che la sovranità di una nazione è più importante del massacro dei civili entro i suoi confini. Questo argomento ha peso per molti. Ma noi siamo diversi. Noi sentiamo una più grande responsabilità. E anche se non possiamo fermare ogni ingiustizia, ci sono circostanze che spazzano via la nostra prudenza: quando un leader minaccia il su popolo e la comunità internazionale ci chiede di agire".
Quasi riecheggiando il Kant della Pace perpetua, Obama fa seguire un terzo caposaldo del suo pensiero democratico, dopo le libertà civili e i diritti umani e dopo l'interventismo umanitario e multilaterale: è il principio dell'integrazione inter- e non multi-culturale. "A differenza della maggior parte dei paesi del mondo, noi non definiamo la cittadinanza in base alla razza o all'etnia. Essere americani o britannici non è una questione di appartenenza a questo o a quel gruppo, ma di adesione ad un corredo di ideali... Per questo, noi riusciamo a tenere questa incredibile diversità dentro i nostri confini".
Obama trasforma in motivo di orgoglio e in grande risorsa di civiltà e di progresso quella che è vista come la sfida più complessa e drammatica dinanzi alla quale si trovano le democrazie occidentali ed europee in particolare: la sfida dell'integrazione. Può farlo perché indica in modo preciso il giusto punto di equilibrio tra identità e apertura. Habermas lo definirebbe il "patriottismo costituzionale": una società può essere aperta e integrare tutte le diversità, culturali, etniche, linguistiche, religiose, se nutre un forte senso di appartenenza alla sua storia, intesa come storia della conquista della libertà e della democrazia. Se è alimentata costantemente da un nuovo pensiero democratico.