Apr
01
2011
Libia: gli insorti convincono ma non vincono
Articolo pubblicato sul sito di Democratica: http://www.scuoladipolitica.it/
  Il "Guardian" del 29 marzo ha pubblicato un documento che potrebbe avere un valore di svolta storica. Si tratta di un piano in otto punti per una Libia democratica: primo, una Costituzione scritta, che stabilisca diritti e doveri dei cittadini e il principio della separazione dei poteri; secondo, libertà di dar vita ad organizzazioni politiche e civili; terzo, pluralismo intellettuale e politico senza discriminazioni; quarto, diritto di voto in elezioni "fair and free", parlamentari e presidenziali; quinto, libertà di espressione e di manifestazione; sesto, "uno stato che derivi la sua forza dalla fede religiosa nella pace, la verità, la giustizia e l'uguaglianza"; settimo, giustizia sociale, come lotta alla povertà e alla corruzione, partnership tra settore pubblico e privato, garanzia dei diritti delle donne e di quelli delle minoranze, condanna di ogni intolleranza, estremismo e violenza; ottavo, relazioni internazionali pacifiche .
Si tratta, come è evidente, di un manifesto che esprime una scelta chiara, non solo per la democrazia, ma per lo Stato di diritto, quindi per una democrazia liberale e non autoritaria, o tanto meno totalitaria, cioè guidata da un partito-chiesa, o da una chiesa-partito. E si tratta di un manifesto tanto più importante e significativo, perché non è stato scritto o dettato da qualche generale o governatore occidentale, ma dal "Consiglio nazionale di transizione" di Bengasi, in sostanza dal gruppo dirigente del movimento rivoluzionario anti-Gheddafi. Un movimento che, pur con le giuste prudenze del caso, sembra sempre più capace di rassicurare europei e americani circa il suo carattere democratico e laico, comunque non fondamentalista né estremista.

Il problema è che gli insorti in Libia sembrano più capaci di convincere politicamente e ideologicamente, che di vincere militarmente. Per la seconda volta, stanno riperdendo il terreno appena strappato all'esercito di Gheddafi. La prima volta era accaduto a metà marzo: senza la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza e il pronto decollo dei caccia francesi e britannici, appoggiati dai missili americani, la riscossa dei gheddafisti sarebbe arrivata a Bengasi e il caso-Libia si sarebbe chiuso in un bagno di sangue. Sostenuti dall'intervento militare internazionale, gli insorti hanno ripreso la strada dell'Ovest, fino alla periferia di Sirte. Poi si sono fermati. E infine hanno ricominciato a ripiegare, inseguiti dalle milizie fedeli al leader. Probabilmente anche perché i caccia alleati, ora inquadrati nella Nato, hanno cominciato ad applicare la risoluzione 1973 con maggiore rigore e scrupolo, limitandosi a proteggere le città cannoneggiate dai gheddafisti, come impone il carattere umanitario della missione, ma senza schierarsi dalla parte degli insorti, diventando parte belligerante a tutti gli effetti.

Lo stallo della situazione militare sta dunque riproponendo il dilemma politico di un mese fa: intervenire, attraverso un'escalation dell'uso della forza, correndo il rischio di essere accusati, non solo da Gheddafi, ma dall'intero mondo arabo-islamico, di illegittima ingerenza? O restare fermi ad un'applicazione letterale della 1973, correndo il rischio di una vittoria di Gheddafi e quindi di uno smacco politico, che potrebbe perfino essere letto come un voltafaccia dalle opinioni pubbliche in rivolta in mezzo mondo arabo?

Tra gli opposti strapiombi, c'è un sentiero stretto e tortuoso, quello della pressione, insieme militare e politica, su Gheddafi, ma ancora di più sulle personalità, gli ambienti, i clan a lui fedeli, finalizzata a sgombrare il tavolo dalla presenza, ormai non più tollerata, del dittatore, per poi aprire un negoziato di riconciliazione nazionale e di transizione democratica. E' un sentiero impervio, ma non impossibile, come dimostrano le importanti defezioni di queste ore, a cominciare da quella del ministro degli Esteri di Tripoli ed ex-capo dei servizi segreti di Gheddafi, Moussa Koussa.

E' il sentiero che ha scelto di percorrere il presidente Obama, costringendo tutta la coalizione a riallinearsi: dai francesi, ai turchi, più riluttanti i tedeschi, che hanno scelto una linea di "provincialismo introspettivo", come l'ha definita Joschka Fischer in un duro articolo (consultabile sul mio sito). A differenza di Bush, Obama non vuole intervenire nel mondo arabo-islamico senza una evidente motivazione umanitaria, senza il consenso di almeno una parte significativa di quel mondo e senza un esplicito mandato dell'Onu. Lo ha spiegato con chiarezza nel discorso pronunciato il 28 marzo sera alla National Defence University di Washington (il testo integrale è sul mio sito), che riprende e aggiorna quello del Cairo del 4 giugno 2009.

Obama sa bene che il "Risorgimento arabo", come lo ha chiamato il presidente Napolitano, a sua volta autore di un importante intervento all'Assemblea generale delle Nazioni Unite (anch'esso reperibile sul mio sito), è appena cominciato. In Tunisia e in Egitto le cose si sono messe abbastanza bene. In Libia si sono complicate. Ma incalzano situazioni ancora più difficili, dalla Siria allo Yemen. E sullo sfondo ci sono l'Arabia Saudita e l'Iran. Il mondo può uscirne in fiamme, o invece incamminato verso una fase di pace, di libertà e di giustizia, come si legge nel bel documento di Bengasi. Per non sbagliare, ci vogliono insieme tutta la speranza e tutta la freddezza di cui siamo capaci.  

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