Nel corso di una visita ufficiale a Roma tre settimane fa, il presidente della commissione esteri del Parlamento iraniano, Eloeddin Boroujerdi, ha detto in Senato che in Egitto e nel Maghreb i popoli si stanno finalmente sollevando contro regimi autoritari e corrotti, sostenuti dai militari, appoggiati da Usa e Israele. L'obiettivo di Teheran è chiaro: conquistare le piazze arabe alla causa islamista e alla crociata contro i nemici di sempre. In concorrenza diretta con gli iraniani, parole non dissimili, solo più aggressive e fanatiche, sono state pronunciate via internet da Al-Zawahiri, l'ideologo (egiziano) di al-Qaeda.
I tentativi degli islamisti, almeno finora, sono andati a vuoto. Da Tunisi al Cairo, da Manama a Sanaa, da Bengasi a Tripoli, le piazze in rivolta sono rimaste ancorate ai loro obiettivi di riforme socio-economiche e liberal-democratiche. Tutto è ancora possibile, naturalmente: anche una gelata fondamentalista della primavera araba. Ma al momento, la realtà sotto i nostri occhi è ben diversa, carica di incognite, problemi, sfide gigantesche, ma anche di speranze e di opportunità.
La primavera araba ha tutta l'apparenza di una svolta profonda e radicale, che ha come fulcro un nuovo posizionamento rispetto alla globalizzazione. Nel 2001, l'attacco dell'11 settembre aveva come obiettivo la chiamata delle masse arabo-islamiche alla guerra santa contro una globalizzazione vista come omologazione del mondo alla visione e agli interessi dell'America. Dieci anni dopo, la situazione sembra essersi capovolta: il mondo arabo vuole entrare in una globalizzazione che si è dimostrata assai più multipolare, plurale e inclusiva di quanto si teorizzasse dieci anni fa. La globalizzazione, per dirla con Fareed Zakaria, è "the rise of the rest", la crescita degli altri, dei non-occidentali: cinesi, indiani, brasiliani, perfino africani. Gli arabi, i giovani arabi, secolarizzati ed esclusi al tempo stesso, vogliono che sia anche la loro crescita, il loro ritorno sulla scena del mondo.
Le uniche parole intonate con questa nuova musica erano state finora quelle pronunciate da Barack Obama nel famoso discorso all'Università del Cairo del 4 giugno 2009. Da quella prestigiosa tribuna, il presidente nero dal nome arabo, un monumento vivente non solo al sogno americano, ma anche alla globalizzazione inclusiva, aveva affermato la compatibilità tra islam e democrazia, si era schierato dalla parte dei popoli che si battono per il valore universale della libertà, pur nel rispetto del principio di non ingerenza, violato con l'intervento in Iraq. La dottrina del Cairo, tipicamente obamiana perché al tempo stesso idealista e pragmatica, non ha evitato alla Casa Bianca esitazioni e incertezze, dinanzi ad un precipitare degli eventi imprevedibile nei modi e nei tempi. E tuttavia le ha consentito di disporre di uno schema di analisi e di azione: schierarsi con nettezza dalla parte dei popoli, senza troncare il rapporto con i militari, essenziali per un governo equilibrato della transizione.
Non altrettanto si può dire dell'Europa, che non solo ha pagato, ancora una volta, la sua incapacità di parlare con una voce sola, ma è apparsa lontana e distratta, tanto più protesa a Nord-Est, quanto più si indebolisce il ruolo nell'Unione dei paesi mediterranei. Le responsabilità del governo italiano sono a questo riguardo evidenti. A cominciare dal clamoroso deficit di analisi della situazione di paesi che distano poche miglia dalle coste della Sicilia e della Sardegna e pullulano di presenze italiane. A governo tunisino già caduto, il 17 gennaio scorso, il ministro Frattini, in un'improvvida intervista al "Corriere" , ancora si schierava per la "stabilità" dei regimi e proponeva la Libia di Gheddafi come modello per il mondo arabo.
Ora la situazione è radicalmente mutata. A rimorchio degli Stati Uniti, l'Europa si è mossa, portandosi dietro anche l'Italia. La storia ci ha offerto un'altra, grande occasione. Se il Mediterraneo torna ad essere un'area di pace, di libertà e di sviluppo, il primo a potersene avvantaggiare è il nostro Mezzogiorno e dunque il paese nel suo insieme. Invece di piagnucolare sull'egoismo dell'Europa rispetto ad un'immigrazione di massa per ora solo immaginaria, o di accapigliarci sulle sorti del trattato di amicizia italo-libica, che avrà la sorte che il nuovo governo libico deciderà di dargli, ci vorrebbe uno sforzo di elaborazione bi-partisan di una nostra dottrina sul futuro del Mediterraneo, attraverso la quale ritrovare, anche in Europa, il ruolo che abbiamo perduto.