La prima metamorfosi ha a che fare con il campo di battaglia scelto dal nostro avversario. Pensavamo che fosse lo stesso del '94, l'opposizione al "ribaltone" in nome dello schema plebiscitario del rapporto tra leader e popolo: il mito fondativo della sua Seconda Repubblica. E invece, Berlusconi, che ci studia molto più di quanto facciamo noi con lui, ci ha sfidato e battuto sul terreno più classico dell'era democristiana, quello della governabilità e della sua evoluzione più mite, la sfiducia costruttiva. Siete degli irresponsabili, ci ha detto, perché volete aprire una crisi al buio, senza avere una proposta di governo alternativa. Ci ha preso alle spalle, occupando lui lo spazio strategico della moderazione e della responsabilità, tagliandoci così il rapporto con l'opinione pubblica mediana e perfino quello con i parlamentari, diciamo così, "in bilico".
La scelta di Berlusconi è stata certamente dettata dalla tattica, ma a ben guardare non è priva di un suo respiro strategico, col quale non possiamo non fare i conti. Il berlusconismo ha iniziato da tempo la sua fase calante, abbiamo detto. E non abbiamo sbagliato: il berlusconismo, inteso come ipotesi di modernizzazione neoconservatrice, perseguita attraverso una sintesi originale di libertinismo illiberale e populismo carismatico, sta declinando. Ma il tramonto del berlusconismo, questo è il punto, non sta aprendo uno spazio vuoto, come tale a nostra disposizione, ma sta invece innescando una profonda metamorfosi del centrodestra, che faremmo bene ad analizzare con maggiore attenzione.
I tratti fondamentali di questa metamorfosi a me pare siano quelli delineati da Maurizio Sacconi in un'intervista al "Sole 24 ore" del 5 dicembre scorso: "La fiducia - ha detto il ministro del lavoro - anche se risicata, rappresenterà lo scalino sul quale costruire l'evoluzione del berlusconismo con un progetto che può anche allargare la maggioranza in vista del voto alla scadenza naturale della legislatura". Non si tratta, banalmente, dell'ingresso dell'Udc nel governo, ma di "una prospettiva politica più profonda, fondata sulla costruzione dell'unica sezione italiana del Partito popolare europeo".
Dunque, il centrodestra sembra voler affidare il suo futuro non più al carisma solitario di un leader, ma a un grande soggetto collettivo, radicato nella storia italiana e dal forte riferimento europeo. E ad un programma, o forse sarebbe meglio dire ad un progetto politico, che non è facile liquidare come populista, perché parla di "rafforzamento costituzionale dell'esecutivo, sia con maggiori poteri per il premier sia con la sfiducia costruttiva", di "allargamento dell'atlantismo verso Est e verso Sud, ove le economie emergenti offrono opportunità all'Italia", di "fuoriuscita dal tempo del debito pubblico, attraverso la disciplina di bilancio e la riforma fiscale", di "nuove relazioni industriali in favore del sindacato riformista", di "valori storici e tradizionali dell'Italia, che possono dare la forza per una nuova frontiera".
Non credo serva dilungarsi sul carattere strategico di un'operazione come questa: l'uscita morbida dal berlusconismo, la sua evoluzione verso una versione italiana del moderatismo europeo, sa di poter incontrare il favore, o quanto meno l'interesse, di un vasto schieramento sociale, potenzialmente capace di abbracciare i ceti produttivi come il sociale organizzato, i gangli dello Stato come il mondo cattolico ufficiale. Una operazione che può dare respiro e prospettiva alla stessa rinegoziazione degli assetti e dei rapporti di forza in seno al centrodestra, che paiono essere il principale orizzonte della relazione dialettica che si va stabilendo tra la maggioranza di governo e il neonato terzo polo.
Dinanzi ad un'operazione di questa portata e ambizione, è evidente la necessità e l'urgenza di un salto di qualità della nostra proposta al paese. Rinchiuderci nei confini dell'unità della sinistra, come al netto del grande fascino della sua affabulazione ci chiede Nichi Vendola, sarebbe come decidere di collaborare attivamente al successo dei nostri avversari. E d'altra parte, l'inseguimento del terzo polo, in nome dell'emergenza democratica, rischia di ridurci a strumento negoziale di una delle parti contraenti del nuovo centrodestra post-berlusconiano.
Il compito che ci attende mi sembra sia un altro: quello di riprendere e rilanciare il progetto politico in nome del quale, tre anni fa, decidemmo di dar vita al Partito democratico. Un progetto fondato sull'ipotesi che l'incontro tra le culture politiche che avevano dato vita alla Repubblica potesse generare un pensiero nuovo, che intendesse la connotazione democratica come un'identità più forte, perché più avanzata, di quelle novecentesche. Un pensiero capace di parlare all'Italia profonda, popolare, laboriosa e quindi di alimentare e sostenere un programma di governo all'insegna del cambiamento dell'Italia in Europa e dell'Europa attraverso l'Italia. Un pensiero incarnato in un partito grande e aperto, plurale perché tollerante e curioso, forte e unito perché leggero.
Insomma un partito capace di contendere al nuovo partito di centrodestra, il ruolo di "partito del Paese", come avrebbe detto Nino Andreatta: perché dinanzi al binomio governabilità-moderazione sul quale sembra potersi addensare il nuovo centrodestra, potrà proporsi il nostro binomio, il binomio governo-riforme, l'unico che può aggredire i nodi strutturali della crisi italiana, mettendo a valore le grandi energie e risorse delle quali l'Italia dispone. E anche l'unico che può aggregare un nuovo campo di forze, attorno ad una comune vocazione maggioritaria.