Signor Presidente, meno di due mesi fa, lo scorso 1° settembre, sulle colonne de «Il Sole 24 Ore» e del «Washington Post» Charles Kupchan, definito dal presidente Napolitano un valoroso osservatore americano non ostile all'Europa, scriveva che l'Unione europea sta morendo.
«Il declino dell'Europa» - scriveva Kupchan - «in parte è economico. La crisi finanziaria ha colpito duramente molti Stati membri e i livelli del debito pubblico e la salute incerta delle banche del continente potrebbero essere presagio di altri problemi in futuro. Ma sono malanni di poco conto in confronto ad una malattia più seria: da Londra a Berlino a Varsavia, l'Europa sta assistendo ad una rinazionalizzazione della vita politica, con gli Stati che fanno di tutto per riprendersi quella sovranità che un tempo erano disposti a sacrificare per l'obiettivo di un ideale collettivo».
Le parole di Kupchan sono quelle di un innamorato deluso. Solo pochi anni fa, l'ex consigliere di Clinton aveva scritto un libro per sostenere la tesi che se il XX era stato il secolo americano, il XXI sarebbe stato il secolo europeo. E invece, dinanzi alla prova dura della crisi economica, l'Europa ha vacillato e in particolare la crisi greca ha gettato scompiglio nelle barocche regole dell'Unione, con gli Stati membri che sono parsi, a tratti, reagire come un formicaio impazzito tra "si salvi chi può" e "tutti contro tutti".
A Kupchan ha risposto pochi giorni dopo, in un intervento teletrasmesso a Cernobbio, il presidente della Repubblica Napolitano: «Continuo ad essere razionalmente un credente nell'Europa». Il presidente Napolitano sapeva che due giorni dopo, il 6 e il 7 settembre, i Ministri finanziari dell'Unione si sarebbero riuniti a Bruxelles in un vertice straordinario per riscrivere, nell'ambito della task force guidata dal presidente Van Rompuy, il Patto di stabilità e crescita, cioè la costituzione finanziaria ed economica dell'Unione. Proprio stamani il Consiglio europeo sta decidendo sulle proposte della task force, che in gran parte la Commissione ha già tradotto in proposte di legislazione secondaria. Sapremo nelle prossime ore se quella di oggi sarà una giornata storica per l'Europa. Quel che è certo è che con il pacchetto elaborato dalla task force l'Europa, data per morta, non solo tenta di rialzarsi ma prova a fare un salto di qualità nel processo d'integrazione.
Come osservava il 5 settembre scorso Giuliano Amato, anche lui rispondendo a Kupchan, (riassumo la sostanza del suo ragionamento), dal Trattato di Maastricht fino ad oggi, da quando cioè decidemmo che le politiche economiche e finanziarie rivestivano un interesse comune, ci siamo dati regole che rendessero le politiche nazionali compatibili con alcuni standard comuni. La crisi ci ha imposto e ci sta imponendo un salto di qualità. È diventato improvvisamente ineludibile produrre ciò che mai era stato chiesto ai leader dei Paesi europei di produrre: non più solo il coordinamento europeo di politiche nazionali, ma politiche economiche sia sul versante della finanza pubblica sia su quello macroeconomico dell'economia reale, politiche davvero europee.
La proposta di semestre europeo contenuta nel pacchetto della task force è da questo punto di vista clamorosa: dal 2011 non solo la manovra di bilancio ma le stesse riforme economiche e sociali non saranno più strumenti nazionali da fare rientrare entro parametri comuni, ma la traduzione nazionale, rigorosamente controllata e verificata, di decisioni europee. Insomma, sta succedendo, potrebbe succedere, l'esatto contrario di quel che teme Kupchan. Pure in un contesto di evidente rinascita dei nazionalismi, non solo gli Stati non si riprendono la loro sovranità - magari vorrebbero farlo ma non ci riescono -, ma ne cedono all'Unione un'altra quota e una quota assai significativa.
Come sempre accade per l'Europa, ogni progresso apre nuovi problemi e pone nuove sfide. La prima sfida sarà nello stesso nuovo Patto di stabilità e di crescita. Qualunque sia il livello di durezza delle sanzioni, difficilmente avrà successo la politica europea di stabilità senza contemporaneamente una politica europea di sviluppo. Il rilancio della proposta Delors, contenuta nel Libro bianco del 1992, di istituire un fondo europeo per grandi investimenti, finanziato attraverso eurobond, dal nostro punto di vista - che sappiamo essere largamente condiviso nel nostro Paese a cominciare dal ministro Tremonti - è uno strumento di vitale importanza.
Poi c'è il tema dell'architettura istituzionale. Non a caso, polemiche quotidiane a parte, Angela Merkel e Nicholas Sarkozy hanno cominciato parlare di revisione dei Trattati. La verità è che il Trattato di Lisbona, che pure ci è costato sudore e brividi, più di una salita di sesto grado, è già superato dalla storia che è andata più avanti.
Se la sovranità della politica economica si sposta dagli Stati membri all'Unione, dobbiamo decidere chi la esercita. Se la costituzione formale dell'Europa resta quella attuale, la sovranità sarà esercitata da un concerto di Stati diretto dallo Stato più forte, che oggi è la Germania: ci piaccia o no, la capitale d'Europa sarà, anzi, per molti versi già lo è, Berlino. Se vogliamo che resti a Bruxelles, dobbiamo dare all'Europa non uno Stato - l'Europa è costitutivamente poliarchica - ma un Governo e un Presidente eletti dai popoli e bilanciati dagli Stati e dal Parlamento. Questa è la nuova sfida che l'Europa ha davanti a sé, che noi europei abbiamo davanti a noi.
La seconda sfida, signor Presidente, riguarda noi italiani; purtroppo è una sfida, diciamo così, meno aulica. Fino a quando il Governo europeo sarà la riunione dei Governi, l'unica legittimazione democratica delle decisioni europee resta per ora quella dei Governi nazionali. Questo dato di fatto rende incompatibile con la democrazia una gestione opaca del circuito tra proposte nazionali e decisioni europee, come quello che si è registrato in modo clamoroso e scandaloso in questo passaggio storico. Complice un'opinione pubblica che il sistema dei media sta affogando nella stupidità, nel populismo di destra e di sinistra, facendo largo e abile uso delle armi di distrazione di massa - basta sfogliare i giornali di oggi - il Parlamento e le forze politiche sembrano non essersi quasi accorti del passaggio epocale che stiamo vivendo. Ma il Governo, sia quello politico, benché di fatto in crisi da mesi, sia quello tecnico (di cui parlava ieri il collega Morando), il Governo monocratico del Ministro dell'economia, che da mesi agisce e decide in solitudine, non può pensare di avere in un passaggio come questo una delega in bianco che lo esenti perfino dal rispondere al Parlamento delle proposte avanzate e delle linee di condotta tenute in sede europea.
Ieri sera abbiamo visto il ministro Tremonti cenare al ristorante del Senato; avremmo preferito vederlo in Aula, magari insieme al Presidente del Consiglio che formalmente ci dicono sia ancora in carica. Sarebbe stato interessante e forse utile al Paese, certamente rispettoso della forma e della sostanza della democrazia, che avessero riferito al Parlamento, il primo, del lavoro fatto in seno alla task force - abbiamo dovuto apprendere in questi giorni dai bollettini europei di un contributo scritto dall'Italia alla task force e depositato nel mese di luglio, del quale il Parlamento non ha mai saputo nulla - e il secondo, il Presidente del Consiglio, degli orientamenti che avrebbe sostenuto oggi, che sosterrà oggi. Cosa pensa il Presidente del Consiglio della riforma dei Trattati di cui stanno discutendo il Cancelliere tedesco e il Presidente francese in seno al Consiglio europeo?
Il Partito Democratico ha chiesto e ottenuto questo passaggio parlamentare ma il Governo, ancora una volta, ha scelto di sottrarsi al confronto: basta guardare la desolazione di quei banchi. Lo rileviamo con rammarico e preoccupazione. Noi lavoreremo per costringerlo a cambiare linea di condotta: ne va della democrazia nel nostro Paese, del ruolo del Parlamento e della capacità del popolo italiano di essere rappresentato adeguatamente in Europa.