Oct
13
2010
Il mio intervento in aula nel dibattito a seguito della informativa del Ministro della Difesa sui pił recenti sviluppi della situazione in Afghanistan
 

Signor Presidente, signor Ministro il gruppo del Partito Democratico si unisce al dolore ed alla gratitudine del Parlamento e del popolo italiano nei confronti dei quattro nostri giovani concittadini: Gianmarco Manca, Marco Pedone, Sebastiano Ville, Francesco Vannozzi che hanno fatto il loro dovere fino in fondo, fino a rimetterci la vita, a lasciare le loro famiglie nel pianto di un dolore disperato.

Loro hanno fatto il loro dovere, ora noi dobbiamo fare il nostro. Quegli uomini era li, infatti, su mandato del Parlamento italiano, un mandato impartito, come lei Ministro ha detto giustamente, nel pieno rispetto dell'articolo 11 della Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;» - sottolineo non c'è nemmeno il punto o un comma 2, ma solo un punto e virgola - «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo»."

I nostri soldati, la nostra bandiera non sono in Afghanistan per fare la guerra, cioè per offendere la libertà di altri popoli o anche solo per risolvere con le armi una controversia internazionale. La Costituzione ce lo vieterebbe e il Presidente della Repubblica, che della Costituzione è rigoroso garante, ce lo impedirebbe.

I nostri soldati, la nostra bandiera, sono in Afghanistan per promuovere, se ne saremo capaci, attraverso un misurato e proporzionato uso della forza armata, un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. Gli uomini e le donne in divisa che in Afghanistan fanno ogni giorno il loro dovere, rischiando la vita, hanno il diritto di nutrire la certezza di essere lì per questo, per promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni e noi abbiamo il dovere di dimostrare che è così, che loro sono lì per questo e che esiste la ragionevole speranza che questa intenzione possa tradursi in realtà.

Altrimenti, dovremmo con onestà riconoscerci tutti nello sfogo del caporalmaggiore Luca Cornacchia, il commilitone più fortunato, che è stato solo ferito e al quale mandiamo gli auguri più cordiali per la sua salute. «Mi sono rotto dell'Afghanistan» - ha scritto su Facebook - «non ci capisco niente». Capirci qualcosa è indispensabile per restare lì, sotto il fuoco della guerriglia - lei ha raccontato con particolari, e le siamo grati per questo, di una vera e propria battaglia, non di un attentato ma di una battaglia - e con la sabbia che ti entra dappertutto. Ma capirci qualcosa non può, non deve significare abbandonare il complesso e faticoso equilibrio di valori e principi ai quali la Costituzione ci richiama; in altre parole non può significare mollare i freni della ragione e della coscienza, del diritto e della politica e abbattere il senso del limite che impedisce al misurato uso della forza di diventare violenza, quasi non ci fosse tra la pace e la guerra quell'ambigua, difficile e pure preziosa terra di mezzo che è appunto l'uso della forza per promuovere e per conquistare la pace.

Negli Stati Uniti, come in Italia, il presidente Obama è fatto oggetto di dure critiche, di attacchi polemici per il suo fermo proposito di muoversi lungo questa terra di mezzo. Lo attaccano i pacifisti, che dicono che è come Bush, lo attaccano i guerrafondai, che lo accusano di essere un soldato riluttante.

Noi, signor Presidente, signor Ministro, stiamo con il presidente Obama perché stiamo con la nostra Costituzione, che del resto è anche un po' figlia di quella americana.

 E uno dei padri costituenti americani, Alexander Hamilton, negli articoli che vanno sotto il nome di Federalist Papers, scriveva più di due secoli fa che le Forze armate ed il ricorso ad esse vanno guardate dal popolo in un Paese democratico con "guardinga condiscendenza" verso un male inevitabile.

Sarà per questo che noi italiani, forse noi europei, sentiamo il presidente Obama così vicino. Lei ha detto giustamente e correttamente che c'è stata una svolta nella conduzione della missione in Afghanistan proprio perché è un soldato riluttante, come quel nostro generale della Folgore che nella sua camionetta, fuori da Camp Mittica a Nasiriya in Iraq, qualche anno fa con l'elmetto, il giubbotto antiproiettile ed il mitra in mano mi diceva che avrebbe considerato una sconfitta personale essere costretto a sparare anche un solo colpo. Questo ci rende diversi dagli americani, aggiunse, ma è l'unica strada possibile per conquistare le menti e i cuori degli iracheni. Lei c'ha detto oggi che gli americani sono diventati un po' più italiani da questo punto di vista, forse commetterebbe il generale della Folgore.

Gli americani chiamano il metodo di quel generale della Folgore "soft power". Obama ha rimesso al centro della strategia politica americana il "soft power", anche perché il suo predecessore Bush ha involontariamente dimostrato che l'"hard power", cioè la potenza dura delle armi, da sola non può tutto e che neanche la superpotenza è onnipotente; anzi l'illusione dell'onnipotenza della superpotenza ci ha consegnato un'America più debole ed un mondo più multipolare nel quale nessuno, neanche gli Stati Uniti d'America e neanche l'Occidente tutto insieme, può più imporre agli altri la propria volontà. Neppure la lotta al terrorismo di Al Qaeda e al fondamentalismo islamico può essere coronata da successo se non diventa un obiettivo di tutta la comunità internazionale e del mondo arabo islamico in primo luogo, come fu all'inizio in Afghanistan dopo l'11 settembre e come non è stato invece dopo l'Iraq.

Noi vogliamo che l'Italia cammini lungo questa stretta terra di mezzo a fianco dei nostri alleati, del presidente Obama e degli altri europei.

La scorsa del settimanale la ministro della difesa del Governo Zapatero Carme Chacòn, in una lunga intervista a «El Paìs», ha affermato che in Afghanistan il «nostro impegno è raggiungere gli obiettivi che l'arrivo di Obama ha permesso di plasmare in una nuova strategia che la Spagna chiedeva da tempo. Una tappa fondamentale» - diceva la Ministro - «sarà il vertice NATO, che si terrà a novembre a Lisbona, che segnerà l'inizio della fine per la missione in Afghanistan».

Ripeto che sarà «l'inizio della fine», cioè - come abbiamo sentito anche dalle sue parole, signor Ministro - un lento e graduale disimpegno che procederà insieme al graduale trasferimento alle Forze armate e alla Polizia afghana del controllo del territorio. La Chapòn ritiene che entro il 2011 si possano trasferire alle autorità afgane l'aeroporto di Kabul, territori al Nord e al Centro del Paese e - come ci ha riferito anche lei, signor Ministro - una parte significativa della provincia di Herat.

Il disimpegno e il trasferimento agli afgani presuppongono il successo di tre azioni parallele: sul piano militare, la difesa e la conquista, non di tutto il territorio afgano (al riguardo poco fa la presidente Bonino ha pronunciato parole di assoluto buonsenso perché neanche i sovietici riuscirono a controllare tutto il territorio afgano con molti più soldati e, peraltro, si calcola che ci vorrebbe almeno mezzo milione di uomini per controllare davvero tutto il territorio afghano e forse anche in quel caso vi sarebbero dubbi), ma di aree strategiche, cioè dei centri urbani e delle poche strade che li collegano; sul piano dell'addestramento delle forze irachene, il potenziamento degli istruttori NATO per accelerare il percorso; sul piano politico, il successo del negoziato con quelli che in modo semplicistico chiamiamo i talebani moderati, che sono in effetti i pashtun afghani e pakistani, e - come aveva chiesto l'allora ministro degli esteri britannico David Miliband - con il coinvolgimento delle potenze asiatiche, a cominciare dal Pakistan, ma senza dimenticare l'India, la Russia, la Cina, la Turchia e lo stesso Iran.

È una strategia complessa, ma chiara, nella quale l'Italia deve fare la sua parte, non aumentando le bombe, signor Ministro, che rischiano di moltiplicare le vittime civili senza conquistare il controllo del territorio. Del resto, non a caso Obama ha drasticamente ridotto il ricorso all'arma aerea e ha potenziato le truppe di terra; non a caso l'Amministrazione americana e gli alleati ci chiedono, non bombardieri, ma istruttori, in particolare dell'Arma dei carabinieri.

Noi chiediamo al Governo di muoversi in tale direzione, certi che questa sia la strada giusta, l'unica per la quale abbia un senso ricorrere alla grande professionalità, all'umanità, al coraggio e al senso del dovere di cui i nostri soldati in Afghanistan, come nelle altre missioni all'estero, danno prova ogni giorno.

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