Oct
18
2017
Senza il Pd avremmo avuto un'Italia da incubo
Intervista di Pierluigi Mele pubblicata su http://confini.blog.rainews.it/

Ieri, al teatro Eliseo a Roma, il Partito Democratico ha festeggiato il suo decimo anniversario. Un anniversario accompagnato da polemiche. Facciamo, nei limiti di una intervista, un bilancio di questa storia decennale. Una storia di passione riformista. Con alti e bassi. Lo facciamo con Giorgio Tonini, Senatore PD e Presidente della Commissione Bilancio del Senato.

 Senatore Tonini, siamo nel decennale del PD, che doveva essere una importante tappa, nell’ambito della  storia dei partiti politici italiani, ovvero la nascita di un grande partito riformista, capace di contenere in una sintesi alta le migliori culture  politiche progressiste italiane, si è rivelata un “sogno” incompiuto. La storia di questi dieci anni ne è, secondo alcuni, la riprova. Temo che abbia ragione Massimo Cacciari sull’impossibilità dell’amalgama tra gruppi dirigenti e quindi tra culture politiche. Con Renzi poi le cose si sono aggravate, tanto da portare alla  scissione.  Insomma non è un bel compleanno per il PD. Lei, invece,  pare  più ottimista sul destino del Pd. Per quali ragioni?

È vero, il decennale del Pd è stato l’occasione di un impressionante moltiplicarsi di annunci di sventura circa il destino di quello che al momento è comunque il primo partito italiano. Da destra a sinistra, passando per i grillini, sembra che si voglia una cosa sola: non solo la sconfitta, ma il fallimento del Pd. Che questo sia l’obiettivo, il sogno dei nostri avversari, è comprensibile. Anche se a me piacerebbe vivere in un paese nel quale la competizione politica, che è il sale della democrazia, fosse capace di non sconfinare nel desiderio insano di distruggere l’avversario. Meno comprensibile è che questa sia diventata la ragione di vita anche di una parte della sinistra italiana, a cominciare da quella che fino a pochi mesi fa era stata una componente importante dello stesso Pd. C’è nella sinistra, e nella sinistra italiana in particolare, una vena nichilista che ciclicamente riemerge e troppo spesso le fa preferire la distruzione alla costruzione. Questo sacro furore contro il Pd è del tutto fuori misura, fuori scala, rispetto anche ai limiti che la costruzione di quello che volevamo fosse non solo un nuovo partito, ma un partito nuovo, ha evidenziato e tuttora denuncia. Ne parleremo, in questa nostra chiacchierata. Ma intanto mi faccia dire che non so che fine avrebbe fatto l’Italia in questi anni se non avesse potuto contare sul Pd. Il Pd non doveva o non poteva nascere, secondo alcuni profeti di sventura. E invece è nato. Ha passato i suoi guai di gioventù, ma è cresciuto, ha raccolto dodici milioni di voti con Veltroni, sconfitto da Berlusconi, e undici con Renzi vincitore alle europee e sconfitto al referendum. Nel frattempo ha dato al Paese due presidenti della Repubblica della statura di Napolitano e Mattarella. E un governo, nel pieno della più difficile crisi economica dalla seconda guerra mondiale, che ha avviato un grande lavoro riformatore, che ha aggredito molti dei nodi strutturali irrisolti del Paese, guadagnandosi apprezzamento e considerazione in Europa e nel mondo. Si può dissentire e criticare, ma si deve almeno avere l’onestà intellettuale di rispettare una forza politica così. Forse il sogno originario del Pd non si è compiutamente realizzato. Ma senza il Pd avremmo avuto un’Italia da incubo.

 

Continuamo il nostro ragionamento, come direbbe De Mita, sul  partito. Con Veltroni, al di là delle qualità umane, e per alcuni versi, anche con Bersani, vi era la sensazione di un partito caldo. Un partito, mi passi la metafora evangelica, che si fa prossimo alla gente. Oggi il partito è tutto “piegato”, come ha scritto Bettini, sul “riformismo dall’alto”. Avrà fatto cose buone, ma il partito è apparso lontano dalla fatica quotidiana della gente. Un’altra scommessa persa?

Né Veltroni, né Bersani hanno guidato il Pd al governo. Il paragone con la stagione di Renzi è dunque improprio. Ma anche la categoria del “riformismo dall’alto” non mi pare la più appropriata per descrivere il rapporto tra il Pd è la società italiana in questi anni. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi quasi trascinato da un’onda di popolarità che appariva incontrastabile. Un’onda poi certificata dal clamoroso 40 per cento di voti alle europee: primo partito d’Europa, perfino più della Cdu-Csu tedesca. Renzi ha governato per quasi tre anni con la preoccupazione, quasi l’ossessione della comunicazione col Paese. Eppure ad un certo punto l’incantesimo si è rotto. Forse le aspettative erano schizzate troppo in alto e di lì non potevano che cadere. Forse è stato decisivo il saldarsi delle opposizioni nel referendum costituzionale. Forse è stata sottovalutata l’esigenza di stabilire solidi legami con i corpi intermedi della società civile. Forse, e senza forse, il partito si è rivelato troppo fragile nel supportare l’azione di governo, anche perché era stato troppo a lungo trascurato. Si tratta di questioni non banali, da non trascurare, ma neppure da drammatizzare. Il Pd ha in se stesso tutte le risorse per tornare a stabilire un rapporto positivo con il Paese.

 

E sempre, per “finire” il “ragionamento”, sul partito: è indubbio che Veltroni aveva capacità di  ascolto anche ai mondi nuovi della cultura, dell’intelligenza, ecc., in Renzi il partito è vissuto strumentalmente come “mezzo”. Pochissime volte si è sentito il “noi”. Il risultato è un partito personalizzato. Adesso Renzi ha recuperato il noi ma la sensazione è che sia tardi. E senza il “noi”, la comunità, non si fa argine al populismo. E’ così Senatore?

Mah, l’idea di partito-comunità non mi ha mai persuaso completamente. I partiti sono anche comunità di persone che condividono valori, principi, obiettivi. Esattamente come sono luoghi di competizione per il potere, dunque di divisione, di conflitto, di lotta. L’importante è che ci sia un equilibrio tra queste due dimensioni. Per me i partiti sono innanzitutto istituzioni della società civile, indispensabili al funzionamento della democrazia, in particolare della democrazia parlamentare. Per questo devono essere pochi e grandi. O perlomeno ci devono essere, in un sistema democratico sano, due  grandi partiti in grado di farsi carico, in competizione e collaborazione tra loro, del governo del Paese. Anche svolgendo quella funzione vitale che è la selezione della classe dirigente e, in definitiva, della leadership. Da questo punto di vista quella del Pd è stata un’esperienza di successo, per quanto indebolita da una scissione che ha ignorato il valore della decisione costituente del partito: la scelta di dotarsi tutti insieme di un partito grande e plurale, nel quale linea politica e leadership sono decisi in modo aperto e democratico, per cui tutti possono vincere e tutti possono perdere, nella competizione per cariche e ruoli sempre contendibili. Non aver accettato di rinunciare ad un’impossibile golden share, da parte degli scissionisti, li ha portati ad uscire dal partito. Poi Renzi avrà i suoi limiti e avrà fatto i suoi errori. Ma non si abbandona un partito perché il leader pro tempore non ti piace. Lo si fa perché non si accetta la costituzione formale e materiale sulla quale esso si fonda. E questo è quel che è successo con una parte della componente ex-pci, quella dalemiana. Che aveva accettato il modello competitivo previsto dallo statuto formale del Pd, voluto da Veltroni, purché la costituzione materiale restasse fondata sul centralismo democratico di antica radice togliattiana. Quando Renzi ha fatto saltare questa “condizione”, che in effetti poteva giustificarsi solo in una fase fondativa, il compromesso è saltato e si è arrivati alla scissione. Che costerà molto al Pd, ma non al punto da far fallire un progetto che resta indispensabile all’Italia.

 

Gli “scissionisti” si stanno avvitando in un percorso massimalista. Dettato dal rancore. Però su un punto hanno ragione da vendere: quando chiedono al PD di essere più di sinistra. Indubbiamente il PD ha portato innovazione nella cultura politica italiana. E questo è stato un bene per la cultura di sinistra. Però spesso è apparso come un partito che ha sbiadito la sua radice. Insomma la tanto declamata “terza via” altro non era che una “prima via” (il mercato) un pochino più umana. Il bilancio è magro, Senatore Tonini…

La sinistra, diceva Norberto Bobbio, è lotta per l’uguaglianza. Lo è stata ieri, deve esserlo oggi e dovrà esserlo domani e sempre. Il problema è che il mondo cambia e con esso cambiano i termini di quella lotta. Dunque essere più di sinistra, come dice lei, non può significare essere più nostalgici di un mondo che non c’è più, perché è proprio chi pensa e “sente” così, che finisce, di fatto, per consegnare la sinistra alla storia, se non direttamente all’archeologia. Per me è più di sinistra chi si sforza di “capire il nuovo”, come ci ha insegnato Pierre Carniti, perché quella è la premessa indispensabile per “guidare il cambiamento” e non limitarsi a subirlo. Facciamo un esempio: qualcuno pensa che essere più di sinistra significhi opporsi alla globalizzazione e perfino all’Unione europea. Ma la globalizzazione, che certo ha contribuito a mettere in discussione conquiste sociali importanti nei paesi sviluppati, ha realizzato la più grande inclusione nello sviluppo della storia umana: una inclusione che ha interessato miliardi di persone. Dunque il problema, per chi intende lottare per l’uguaglianza, non può essere quello di opporsi alla globalizzazione, ma piuttosto quello di governarne gli effetti sulle nostre società. Proprio per questo sinistra ed europeismo sono oggi sinonimi. Naturalmente, non qualsiasi europeismo. Da questo punto di vista, il governo Renzi, lungi dallo sbiadire la sua radice di sinistra, è stato protagonista di una vera e propria svolta nella politica economica europea, imponendo una interpretazione dei trattati, a cominciare dal Fiscal Compact, che ponessero al centro  la crescita e l’occupazione.

 

Lei, che è di cultura degasperiana e morotea, glielo ha spiegato al suo segretario che la centralità del PD non esclude il farsi carico delle ragioni  dell’altro? Solo così si può costruire una coalizione. Ci riuscirà Renzi? E  questo cambio sarà necessario anche alla luce della nuova legge elettorale…

Un mio grande “predecessore” (intendo dire, come presidente della Commissione Bilancio del Senato…), Beniamino Andreatta, intervenendo nel dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, in pieno disfacimento della prima Repubblica, osservava che «i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti». E aggiungeva che dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che c’è stata un’era della ingovernabilità, perché non c’è stata intesa, non c’è stata più coalizione». E allora, concludeva, «delle due l’una: o si riesce a ricostruire questo spirito di coalizione, o si creano strumenti (come la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con maggioranze più ristrette». Renzi è un leader che si è formato nello schema della democrazia competitiva, quello che si era affermato nel paese all’inizio degli anni Novanta, soprattutto grazie alla spinta dei referendum Segni. Il paradosso è che oggi Renzi si trova a dover gestire gli effetti di un nuovo pronunciamento popolare, quello del referendum del 4 dicembre scorso, che ha ribaltato la situazione, di fatto chiudendo la stagione del maggioritario e rimettendo le forze politiche dinanzi alla necessità di riscoprire lo spirito di coalizione, la capacità di collaborare in parlamento tra forze anche molto diverse tra loro. Vedremo se sarà possibile, nella prossima legislatura. O se non dovremo riprendere la marcia verso un sistema politico di impianto maggioritario. Stavolta per la via del semipresidenzialismo alla francese. L’unico in Europa che consente, per dirla con Andreatta, «di governare con maggioranze più ristrette», cioè senza le larghe intese…

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