Le molte anticipazioni del libro-manifesto di Matteo Renzi hanno avuto il merito di riportare i contenuti programmatici al centro del dibattito politico. Le ho apprezzate e condivise tutte, tranne una: quella che chiede di superare il Fiscal Compact, col suo «obiettivo di medio termine», individuato nel pareggio strutturale del bilancio, e di «tornare a Maastricht» e alla sua soglia massima del 3 per cento nel rapporto deficit-pil. Renzi propone in sostanza un nuovo patto con l’Europa, che consenta all’Italia di tenere, per almeno cinque anni, al 2,9 per cento il rapporto deficit-pil e di utilizzare questi quasi 50 miliardi l'anno per finanziare un robusto programma di sgravi fiscali, a favore delle famiglie e delle imprese, come leva per accelerare la ripresa della crescita e dell'occupazione. Sembra invece ignorare l'altro vincolo di Maastricht: l'obbligo di tenere (o ricondurre in tempi certi) il debito entro il 60 per cento del prodotto.
Questa anticipazione, al contrario delle altre, mi ha lasciato perplesso, per tre ragioni.
La prima: questa nuova strategia di fatto supera, se non sconfessa, la linea fin qui tenuta, non solo dal ministro Padoan, ma dai due governi dei quali egli ha fatto parte: il governo Gentiloni oggi e quello Renzi ieri. Una linea che lo stesso ministro Padoan ha definito un «sentiero stretto» tra le due opposte esigenze di tenere alto l’avanzo primario, per stabilizzare e poi ridurre il debito, e di conferire alla politica economica italiana un’intonazione il più possibile espansiva, in modo da sostenere e consolidare la ripresa della crescita e dell’occupazione. Questa linea è stata resa possibile da una revisione, se non della lettera del Fiscal Compact, certo della sua concreta applicazione, che l’Italia, grazie alla forza del Pd guidato da Renzi, è riuscita ad imporre in sede europea: una revisione che ha almeno parzialmente incorporato nel «Fiscal» gli obiettivi del «Growth Compact», auspicato nelle conclusioni del Consiglio europeo del giugno 2012, ma poi rimasto nel grande archivio delle buone intenzioni. Nulla impedirebbe ora all’Italia di chiedere ai partner europei il passo successivo: utilizziamo la clausola di «valutazione dell'esperienza maturata in sede di attuazione», prevista dall’articolo 16 del trattato fiscale, per condizionare ad una revisione, ragionevole e motivata, del testo, l'assenso dell’Italia alla sua incorporazione nei Trattati europei. Cambiare strategia significa invece oggi considerare se non fallimentare, certamente insufficiente quella sostenuta fin qui. Un bel vantaggio competitivo per i tanti e inconcludenti oppositori dei governi guidati dal Pd in questa legislatura. Per di più un vantaggio immotivato, posto che la strategia Padoan ha prodotto e sta producendo risultati positivi per il paese, in termini di maggiore crescita e occupazione, riduzione del deficit e stabilizzazione del debito. Abbandonare questa strategia paziente e tenace, per vagheggiarne una che appare improvvisata e incerta, ricorda maledettamente il Libro X dell’Odissea, quando Ulisse e i suoi compagni, giunti in vista di Itaca grazie all’otre nel quale Eolo aveva rinchiuso tutti i venti, tranne «un opportuno Zefiro», furono rigettati in alto e tempestoso mare dall’impazienza e dalla malizia che aveva portato l'equipaggio ad aprire l’otre e a scatenare la furia degli elementi.
Seconda ragione di perplessità: la svolta di Renzi appare un cedimento culturale del riformismo alle parole d'ordine del populismo, di destra e di sinistra. Un cedimento particolarmente vistoso nelle parole pronunciate dal ministro Delrio nell’intervista alla «Stampa» di entusiastica adesione alla proposta Renzi: «È venuto il momento di dirlo — e infatti il ministro lo dice — firmare il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione è stato un grave errore». Delrio ha il merito di ricordare che il principio del pareggio (o meglio dell'equilibrio strutturale) del bilancio non è affermato solo dal Fiscal Compact, ma anche dall’articolo 81 della nostra Costituzione. Un articolo che, nella sua prima versione, fu voluto da padri costituenti della statura di Einaudi e Vanoni, proprio per impedire deficit e debito eccessivi. Un articolo che fu sistematicamente aggirato a partire dagli anni Settanta, con il finanziamento in deficit dell'esplosione della spesa pubblica, in particolare previdenziale, attraverso l'espansione monetaria imposta dal Tesoro alla Banca d’Italia, con il conseguente impennarsi, prima dell’inflazione e poi, quando quell’imposizione fu rimossa da Andreatta e Ciampi, del debito pubblico, che nell’arco del decennio degli anni Ottanta passò dal 50 al 100 per cento del pil. Un articolo che invano Andreatta cercò di riformare, per renderlo più stringente e meno aggirabile, con la proposta che presentò alla Commissione Bozzi e che naufragò insieme alla commissione. Un articolo che abbiamo riformato noi, nella passata legislatura, su positivo impulso del governo Monti, rendendolo più efficace proprio in quanto più flessibile. L’attuale versione dell’articolo 81 infatti prescrive «l'equilibrio tra le entrate e le spese» del bilancio dello Stato, «tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». Quindi, nelle fasi espansive, il bilancio pubblico deve accumulare avanzo, da utilizzare in chiave anticiclica nelle fasi di rallentamento o addirittura di recessione, nelle quali la spesa in deficit è prevista e approvata, purché autorizzata dal Parlamento a maggioranza assoluta. Vale la pena ricordare, ancora una volta, che questa flessibilità non era prevista nel testo precedente, quello in vigore dal 1948, che forse anche per la sua rigidità è stato l'articolo più clamorosamente violato della Costituzione italiana. Aggirato come una minacciosa, ma impotente Linea Maginot. Al contrario, il nuovo articolo 81 è stato pienamente applicato in questi anni e si potrebbe perfino sostenere che esso abbia ispirato e condizionato la stessa applicazione del Fiscal Compact, che il governo Renzi ha imposto in Europa. Il «contrordine» di Renzi e Delrio su Fiscal Compact e nuovo articolo 81 è dunque un incomprensibile errore di posizionamento politico-culturale, come lo è rimpiangere norme rigide e «stupid», preferendole alle nuove norme, europee e italiane, certamente assai più flessibili e «smart».
Terza ragione di perplessità: la proposta di Renzi rischia di compromettere la partecipazione dell’Italia, in posizione paritaria, al gruppo di testa per la riforma dell’Eurozona, che si va creando attorno all’asse franco-tedesco dopo la strepitosa vittoria di Macron. Contrariamente a quanto affermano i tanti detrattori del governo Renzi, il ruolo dell’Italia a fianco della Germania di Frau Merkel è stato decisivo nel biennio 2014-2016, ovvero nel periodo che va dalle elezioni europee al referendum sulla riforma costituzionale. In quel biennio, segnato anche da un vistoso appannamento del ruolo della Francia, a causa della debolezza del presidente Hollande e della forza del rischio Le Pen, l'asse decisivo nel governo dell’Europa è stato quello Berlino-Roma. La storica affermazione del Pd renziano alle elezioni europee ha fatto del principale partito italiano il capofila dello schieramento socialdemocratico europeo, uscito sconfitto dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, ma comunque indispensabile ai popolari guidati dalla Cdu per dare a Jean-Claude Juncker, loro candidato alla presidenza della Commissione, i voti necessari ad avere la fiducia del Parlamento europeo. Perfino la Bce di Mario Draghi non avrebbe potuto varare il suo programma di Quantitative Easing, senza il compromesso tra Renzi, impegnato nelle sue riforme «spettacolari» (Merkel), a cominciare dal Jobs Act, che stavano restituendo credibilità all’Italia, e la cancelliera tedesca, impegnata a rendere digeribile, ai falchi di Berlino e di Francoforte, una linea di flessibilità, sia nella politica di bilancio che in quella monetaria. Né va dimenticato il forte sostegno, tenacemente ricercato e ottenuto da Renzi, dell’amministrazione Obama al governo del giovane premier italiano. Tutto questo enorme lavoro è stato in gran parte compromesso dall’esito del referendum costituzionale, che ha riportato politicamente l’Italia in seconda fila, proprio mentre con la vittoria di Macron la Francia tornava a prendersi il posto di partner privilegiato della Germania. Macron ha tuttavia bisogno dell’Italia per condurre a termine il suo ambizioso rilancio del progetto europeo, basato su un’idea nata ai tempi del governo Monti: quella della capacità di bilancio (Fiscal Capacity) dell’Eurozona: compensare l'effetto recessivo delle politiche di consolidamento fiscale imposte dal Fiscal Compact, con l'allestimento di un motore espansivo a livello federale, finalizzato a rilanciare la strategia di investimenti prevista dal programma di Lisbona, alla quale Renzi pure si richiama postitivamente nel suo libro-manifesto. Questo compromesso tra nordici e mediterranei è certamente preferibile ad una battaglia per superare il Fiscal Compact, tornando indietro, anziché andando avanti. È preferibile sul piano europeo, perché la capacità di bilancio dell’Eurozona fa avanzare quello che lo stesso Renzi richiama come il sogno di Ventotene, ovvero il sogno di un’Europa effettivamente federale. Ma anche su quello italiano, perché soddisfa l’esigenza vitale per il nostro paese di una ripresa della crescita, della produttività totale e di buona e piena occupazione, in particolare dei giovani, non attraverso nuovo deficit e dunque nuovo debito, che anzi potranno essere ricondotti su un più rapido programma di riduzione, ma grazie alla spinta di un potente motore federale europeo.
Può darsi che queste perplessità siano infondate e che abbia ragione Renzi. Me lo auguro con tutto il cuore, per il bene dell’Italia e del Pd. Ma temo che non sia così. E credo che sia utile discuterne.