La crisi del berlusconismo, accelerata dalla clamorosa rottura con Fini, propone al Partito democratico una riflessione sul suo recente passato e una domanda sul suo prossimo futuro. La riflessione sul passato ha a che fare con una delle doti fondamentali del riformismo: la pazienza. Il riformismo è paziente, sa che nulla, mai, cambia di colpo. Che esistono dei passaggi che, come ci ha insegnato Aldo Moro, non possono essere saltati, ma vanno attraversati come delle prove, dalle quali, se si ha carattere, si può uscire rafforzati, temprati, maturati.
Il Pd è nato in ritardo: dopo, anziché prima delle elezioni del 2006. Anche allora perché c'erano dei passaggi che, forse, non si potevano saltare. Ed è nato sulla spinta di un'emergenza: bisognava salvare il nostro unico progetto politico, il progetto di trasformare l'Ulivo nel Partito democratico, "la casa comune dei riformisti" secondo la definizione di Romano Prodi, dalla incombente crisi del governo di centrosinistra, causata dall'evidente fallimento politico dell'Unione. Il Pd è nato dunque, per così dire, all'insegna del motto "prima vivere, poi vincere". Perché vincere non si poteva, dopo il fallimento della legislatura. Ma si doveva almeno uscire vivi, con i piedi all'asciutto, sulla tolda solida di un partito grande: una nave capace di tenere il mare, anche quello grosso, e organizzare la riscossa. Da questo punto di vista, dal punto di vista delle nostre aspettative razionali, anche se non di quelle emotive che il carisma di Walter Veltroni aveva saputo suscitare, la sconfitta del 2008 è stato un successo. Il Pd è uscito vivo, grande e forte: quasi il 34 per cento dei voti, una percentuale che solo la Dc e il Pci di Enrico Berlinguer avevano saputo raggiungere. Nel secolo scorso.
Ora ci aspettava (e ancora ci aspetta) la seconda parte del lavoro: la costruzione dell'alternativa di governo. Un lavoro che richiede pazienza, costanza e tenacia: doti di cui abbiamo difettato in questi due anni. Abbiamo liquidato una leadership come quella di Veltroni, anche perché abbiamo subito, quando non cavalcato, l'aggressione delle ali più impazienti dello schieramento politico e ancor più dell'opinione pubblica del centrosinistra. Come se si potesse "buttar giù" Berlusconi in un amen e che se non ci si riusciva era perché non si era abbastanza nettamente, duramente e rumorosamente "contro". La verità è che nessuna opposizione può saltare la fase della luna di miele della nuova maggioranza di governo con il Paese. E che nessuna opposizione può rovesciare un governo, senza che la maggioranza ci metta del suo: dimostrandosi non all'altezza dei problemi del Paese e, su questo, dividendosi al suo interno, alla ricerca di cause e colpe.
Questo è precisamente quel che ora sta accadendo nel Pdl. Il governo è in affanno: utilizzando L'Aquila come una metafora, potremmo dire che ha saputo gestire l'emergenza, ma dinanzi alla sfida della ricostruzione, ha mostrato gravi e forse insuperabili limiti di carattere politico e morale, che ne hanno minato la credibilità agli occhi del Paese e la stessa coesione interna.
La domanda che ora sta davanti al Pd, la domanda sul futuro, è strettamente connessa con la riflessione sul passato: sapremo mostrare ora la pazienza, la tenacia, la costanza di cui non abbiamo saputo dar grande prova in questi due anni di opposizione? Dalla risposta a questa domanda dipende la portata della nostra ambizione. Perché nel nuovo scenario che la crisi del berlusconismo sta aprendo, il Pd può muovere in due modi molto diversi tra loro: può vivere questo passaggio nella ricerca impaziente, quasi nevrotica, di una scorciatoia qualunque, magari scomodando la Resistenza e la Liberazione, fino a riproporre frontismi che si sono sempre dimostrati forieri di improbabili vittorie elettorali e di sicuri fallimenti nella prova di governo. Oppure, può disporsi a cogliere questo passaggio come l'occasione per allargare la sua base elettorale, il suo insediamento profondo nella società italiana, proponendosi di conquistare almeno una parte dei consensi che stanno abbandonando il Pdl. Questa seconda è la vocazione, verrebbe da dire l'ambizione maggioritaria. Un'ambizione che è in effetti un atto di umiltà dinanzi al Paese: un mettersi in ascolto, in ricerca, in discussione. Che non esclude affatto alleanze elettorali e politiche, ma punta a costruirle a partire da un progetto per il Paese, fondato sul coraggio dell'innovazione e del superamento di tutti i conservatorismi, anche quelli di sinistra, come disse Veltroni al Lingotto: non perché troppo aggrappati ai nostri valori e ai nostri principi, ma per il motivo esattamente opposto, perché pur presentandosi come la loro affermazione retorica, ne sono in realtà la negazione pratica.
Questi sono, a mio modo di vedere, i termini della scelta che abbiamo davanti. Non c'entrano nulla gli antagonismi tra leader: del resto, se domattina Veltroni e D'Alema decidessero di darsi al cinema o alla vela, non per questo i dilemmi che sono dinanzi al Pd cesserebbero di essere tali. Compresi quelli che riguardano la legge elettorale: che non sono dilemmi di tipo tecnico, ma politico. Per lasciarci alle spalle il berlusconismo, non dobbiamo buttar via anche il bipolarismo, e con esso il potere dei cittadini di decidere chi li deve governare: al contrario, dobbiamo invece liberare il bipolarismo dall'ipoteca del populismo berlusconiano, restituendo ai cittadini, con il collegio uninominale, il potere di scegliere il loro deputato e col maggioritario la proposta di governo che ritengono migliore. Come avviene in tutte le democrazie del mondo.
per il PD, se il problema come tu sostieni è quello di "allargare la base elettorale e l'insediamento profondo nella società italiana, proponendosi di conquistare almeno una parte dei consensi che stanno abbandonando il Pdl", non ci sono alternative: mancando il tempo per una nuova legge elettorale, si deve puntare giocoforza sulle primarie promosse dal PD per la scelta delle candidature alla Camera, circoscrizione per circoscrizione. Per il Senato in Regione siamo più fortunati, la strada per le primarie è meno in salita. Sulla realizzazione dei punti programmatici, elaborati ormai fin nei minimi dettagli in questi anni,dobbiamo chiedere ai cittadini di indicare, per usare le tue parole, le persone che al di là dell'affermazione retorica ne garantiscono meglio l'applicazione pratica. Se poi UDC,IDV,API,SEL,decidono di andare per conto proprio davanti al giudizio degli elettori lo facciano; non siamo ancora nella terza republica alla francese con semipresidenzialismo e maggioritario a doppio turno, come piacerebbe a Fini, scenario entro il quale i centristi potrebbero giocarsi la partita. " à la guerre comme à la guerre" direbbero i nostri cugini d'oltralpe; con la coppia B&B non è il caso di perdersi in amene disquisizioni sul modello elettorale a noi più confacente,anche per evitare di essere etichettati per l'ennesima volta in sede europea come quelli del "Franza o Spagna pur che se magna" (dove oggi, per Spagna, come allora, si deve intendere anche il modello Merkel che piace a Dalema)