Mar
26
2017
Andreatta, un ricordo del suo impegno contro il debito pubblico italiano
Articolo pubblicato su "Il Foglio"

 

A distanza di dieci anni dalla sua morte, sopraggiunta il 26 marzo 2017, più di sette anni dopo il malore improvviso che, in piena sessione di bilancio alla Camera, lo aveva bruscamente messo a tacere, Beniamino Andreatta continua ad essere punto di riferimento imprescindibile per chiunque si ponga l’obiettivo di fare dell’Italia un paese moderno.

Trent’anni fa, il 5 agosto 1987, Andreatta veniva eletto presidente della commissione bilancio del Senato, carica che mantenne fino al termine della decima legislatura, nella primavera del 1992. Da quella postazione, per cinque lunghi e drammatici anni, lo statista trentino si è battuto come un leone, quasi sempre in solitudine, contro il drago del debito pubblico, che nel corso degli anni ottanta era cresciuto in modo impressionante: 95 miliardi di euro, meno del 60 per cento del pil, nel 1979; 850 miliardi, pari al 105 per cento del pil, nel 1992.

«Il nostro debito — disse Andreatta intervenendo in Senato nel giugno del 1990, con parole di sorprendente freschezza — costituisce, per le sue dimensioni, un problema per il funzionamento dei mercati finanziari europei… Per l’Italia questo problema si trasformerà in un costo ed in qualche difficoltà di collocamento, se verrà realizzata l’unione economica e monetaria. Se invece non verrà realizzata, questo debito costituirà un problema molto serio per la bilancia dei pagamenti (sarà necessario tenere la struttura italiana dei tassi fortemente differenziata da quella degli altri paesi) e per la credibilità delle autorità monetarie italiane».

Non può essere dunque, diremmo oggi, l’uscita dall’euro, la formula magica per liberarci del debito. Perché formule magiche per sgravarci di quel peso non esistono. Non sono praticabili, spiegava Andreatta ai senatori un anno prima, «operazioni di finanza straordinaria con imposte patrimoniali», né «forme di conversione forzosa o di rigetto del debito». Quanto all’inflazione, se moderata può aiutare, ma certo non si può nutrire nessuna nostalgia per quella a due cifre. La via per uscire dal debito eccessivo è dunque una sola: «un’azione attenta di contenimento della spesa e di allargamento delle entrate, per ottenere un surplus di parte corrente al netto degli interessi e per far partecipare il sistema tributario al finanziamento degli interessi». Insomma, «un’azione di lunga lena di correzione della spesa e di efficienza del sistema tributario italiano». Non sfugge ad Andreatta il prezzo sociale e politico di un simile impegno: «l’operazione di risanamento finanziario comporterà, per un certo numero di anni, che in quasi tutti i settori l’intervento della finanza pubblica dovrà porsi in proporzioni, rispetto al prodotto interno italiano, inferiori a quelle di paesi che hanno scelto in passato una linea più attenta di commisurazione tra risorse disponibili e decisioni di spesa». Ma a certe condizioni, il pareggio primario prima e l’avanzo primario poi, possono non tradursi in recessione: «Credo che la crescita possa essere spinta con politiche dell’offerta, attraverso più cogenti regole di concorrenza ed attraverso l’eliminazione degli interventi pubblici disfunzionali». Insomma, la riduzione del deficit è sostenibile, in termini di crescita e di occupazione, se accompagnata da riforme dello Stato e dei mercati. Oggi, dopo anni di avanzo primario record in Europa, che non è bastato a ridurre il debito a causa della recessione, aggiungeremmo alle riforme, che sono e restano indispensabili, anche un indirizzo di politica economica europea di segno più marcatamente espansivo.

Le politiche di risanamento finanziario hanno innnanzi tutto bisogno, secondo Andreatta, di «nuove regole del gioco». Durante la nona legislatura, (1983-87), lo statista trentino prende parte alla commissione Bozzi per le riforme istituzionali. In quella sede, Andreatta aveva presentato ed era riuscito a far approvare una radicale revisione dell’articolo 81 della Costituzione, dinanzi alla quale quella che siamo riusciti ad ottenere noi nella scorsa legislatura, grazie alla spinta europea e al governo Monti, appare assai più moderata e prudente. L’articolo 81, fortemente voluto alla Costituente da due giganti della statura di Einaudi e Vanoni, afferma che: «con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese», ma si deve, per così dire, fotografare lo stato della finanza pubblica; e che «ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». In altre parole, ogni aumento di una voce di spesa deve essere «coperto» da una corrispondente riduzione di un’altra voce di spesa o dall’aumento di un'entrata.

L’obiettivo di Einaudi e Vanoni, spiega Andreatta, era il pareggio del bilancio. «Ma questo non è stato. — si legge nel suo intervento alla bicamerale Bozzi nel 1984 — Si è considerato che il ricorso al finanziamento, anche al finanziamento di tesoreria, fosse sufficiente come mezzo di copertura». È per questa via, attraverso il sistematico e progressivo aggiramento della «linea Maginot» dell’articolo 81, che è esplosa la spesa e si è formato il gigantesco debito pubblico italiano. Andreatta presenta quindi un nuovo testo, che si propone esplicitamente di «sbarrare tutte le strade alla legislazione di spesa priva di copertura». Un testo molto lungo, che «non è certamente elegante — ammette Andreatta — ma non è neppure elegante la condizione della finanza pubblica nel nostro paese».

Tra le varie barriere contro la spesa facile, c’è innanzi tutto l’importazione nel nostro ordinamento dell’istituto americano della «first resolution», ossia la votazione preliminare da parte delle Camere sul «limite massimo dell’autorizzazione a contrarre prestiti sotto qualunque forma per i cinque anni successivi», in modo che le manovre di bilancio debbano poi mantenersi all’interno di quei limiti prefissati. La seconda barriera, mutuata dall’articolo 155 della Legge fondamentale tedesca, prevede l’obbligo del pareggio del bilancio corrente, riservando alla sola spesa per investimenti la possibilità di essere coperta attraverso il ricorso al mercato, ossia facendo debito. Terza barriera, l’obbligo di corredare ogni disegno di legge e ogni emendamento, sia governativo che parlamentare, che comporti spesa, con una relazione tecnica «bollinata» dal Ragioniere generale dello Stato. Quarta barriera: «Nei sei mesi precedenti lo scioglimento delle Camere, non possono essere presentati provvedimenti legislativi che aumentino le spese o riducano le entrate». Infine, quinta barriera, la Corte dei conti: alla quale Andreatta propone di assegnare poteri di controllo assai più penetranti, come la valutazione, in sede di rendiconto, del costo effettivo delle leggi approvate negli esercizi precedenti, nonché la facoltà di «investire la Corte costituzionale dei giudizi nei confronti delle leggi non conformi alle norme» contenute nel nuovo articolo 81.

L’emendamento Andreatta viene accolto nel testo finale proposto alla commissione, ma lì si ferma, insieme alla bicamerale Bozzi, che inaugura la lunga serie di tentativi falliti di riforma della Costituzione. Si ferma la riforma dell’articolo 81, ma non l’azione riformista di Andreatta, che usa la sua nuova posizione di presidente della commissione bilancio del Senato per riproporre, almeno parzialmente, le barriere contro il «deficit spending», attraverso una riforma della legge di contabilità e una revisione del regolamento del Senato. Si deve alla riforma della legge di contabilità voluta da Andreatta, ad esempio, l’istituzione del Documento di programmazione economica e finanziaria. Mentre ancora oggi risente degli interventi di modifica voluti dallo statista trentino, il regolamento del Senato, assai più severo di quello della Camera: per esempio nel richiedere relazioni tecniche bollinate dal Ragioniere generale dello Stato su tutti i disegni di legge e gli emendamenti che comportano spesa, pena il parere contrario della commissione bilancio («per assenza di relazione tecnica»), che comporta l’improcedibilità da parte dell’assemblea.

Andreatta riesce a realizzare queste riforme nel primo anno di legislatura, tra il 1987 e il 1988, durante l’ultimo tratto di strada della lunga segreteria Dc di Ciriaco De Mita, che nel 1988 diventa anche presidente del Consiglio. Il drago del debito viene ferito e rallenta per un attimo la sua corsa, ma è ancora vivo e tutt’altro che vinto. Arrivano i governi Andreotti VI e VII e la legislatura si conclude tra nubi che annunciano la tempesta, che costringerà il governo Amato alla grande svalutazione della lira e alla manovra record da 100 mila miliardi.

Intervenendo nel dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, il 7 novembre 1991, Andreatta torna a chiedere una riforma dell’articolo 81, «perché abbiamo la necessità di adeguare ai meccanismi della Germania federale o della Francia il nostro sistema di bilancio; abbiamo bisogno di stabilire chi è responsabile di che cosa», superando la «cogestione» tra governo e parlamento, nella quale prospera l’irresponsabilità.

«Ma è certo — osserva Andreatta — che il problema fondamentale rimane quello del sistema politico». Dopo la fase virtuosa, quella del centrismo degasperiano e poi del centro-sinistra di Moro e Nenni, «dal 1972 ad oggi possiamo dire che c’è stata un’era della ingovernabilità, perché non c’è stata intesa, non c’è stata più coalizione». E allora, conclude, «delle due l’una: o si riesce a ricostruire questo spirito di coalizione o si creano strumenti (come la legge elettorale maggioritaria, ndr) perché si possa operare il divorzio tra le forze politiche e ci siano forze in grado di governare con maggioranze più ristrette. È un classico ormai: in tutte le analisi quantitative sul perché la spesa pubblica in certi periodi e in certi paesi ha presentato larghi deficit, una variabile importante è la larghezza delle coalizioni, la scarsa durata dei governi, la mancanza di spirito di coalizione. Ecco perché, come è ovvio, i problemi della finanza pubblica sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti».

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