Sono stato tra i più convinti, per non dire entusiasti, sostenitori, in Senato e nel Paese, dell'agenda Monti.
E sono tra i pochi non pentiti di aver votato la legge Fornero e il Fiscal compact, la riforma dell'articolo 81 della Costituzione e la legge Severino. Questo non significa che non ci sia nulla da rivedere e da correggere, delle leggi approvate in quella drammatica e feconda stagione, che considero il prologo del governo Renzi: del resto il riformismo procede per progressive approssimazioni e correggendo i suoi errori. Ma l'ispirazione di fondo era ed è ancora, a mio modo di vedere, quella giusta.
Proprio per questo ho considerato particolarmente offensiva l'accusa che Massimo Giannini ha rivolto su Repubblica a noi 19 senatori del Pd che abbiamo «salvato» il collega Minzolini dalla decadenza: l'accusa di aver affossato la legge che si propone di sbarrare le porte del Parlamento a corrotti e delinquenti. È vero il contrario: noi senatori del Pd (tutti, comunque abbiamo votato) siamo stati forse gli unici ad applicarla in modo corretto.
All'articolo 1 della Severino infatti, si afferma in modo solenne che «non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore» (tra gli altri) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
L'articolo 3 aggiunge che «qualora una causa di incandidabilità di cui all'articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo (come nel caso di Minzolini), la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione». E cosa dice questo articolo della famosa Carta «più bella del mondo»? Che «ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». Capito? Ciascuna Camera «giudica»: non «prende atto», come vorrebbe Giannini, ma giudica. Dunque entra nel merito, pondera i valori in gioco e apprezza le circostanze. A garanzia dell'esercizio del mandato democratico, che può essere revocato in caso di accertata indegnità, ma non nel caso di un uso politico della giustizia. Valutazione sempre difficile e delicata. Che deve poi tradursi in una decisione, nell'unico modo nel quale può decidere una Camera, cioè votando. E poi contando: i favorevoli, i contrari, gli astenuti.
Il problema è che non si può giudicare "per partito preso", ma solo sulla base del libero convincimento personale. Per questo il gruppo del Pd si è dato la regola di votare ciascuno secondo coscienza. E per questo mi sento di dire che solo (ò quasi) il gruppo del Pd ha preso sul serio, rispettato e applicato la legge Severino e l'articolo 66 della Costituzione, al quale essa rinvia.
Leggendo le carte e ascoltando il dibattito, come altri colleghi, mi sono formato il convincimento che il percorso giudiziario che ha portato alla condanna di Minzolini non sia scevro da dubbi circa un uso politico della giustizia. E mi sono comportato di conseguenza. «In dubio pro reo», dicevano gli antichi. A maggior ragione, aggiungo, se il «reo» è un avversario politico.