Feb
24
2017
Il disegno di D'Alema? Far perdere Renzi e trattare il rientro
Intervista pubblicata su "Il Dubbio"

 

 

 

La scissione è una sfida per far perdere il Pd e ha un nome e un cognome, quello di Massimo D'Alema». Giorgio Tonini, senato­re del Pd e presidente della com­missione Bilancio, analizza le scel­te degli scissionisti, «che mettono in crisi anche il governo che dice­vano di voler portare a fine legisla­tura».

 

Partiamo dalle ragioni di questa scissione, ormai nei fatti e a breve anche in Parlamento. Lei le ha ca­pite?

Prima delle ragioni io credo venga il leader di questa operazione poli­tica, che si chiama Massimo D'Ale­ma. Gli altri, compreso Pierluigi Bersani, seguono questa imposta­zione. D'Alema è un politico che può essere criticato, ma certamente ha una visione alta della politica e pone grandi questioni: ecco, in questo caso la sua grande questio­ne è la concezione del partito.

 

Proviamo a spiegarla?

Secondo la visione di D'Alema, il Pd avrebbe dovuto avere una go­vernance interna simile a quella di un aereo: una fusoliera centrale, un'ala destra e una sinistra. Era il cosiddetto centralismo democrati­co, lo schema sul quale si è sempre retto il Pei, un gruppo dirigente ad­densato al centro e posizioni tolle­rabilmente eterodosse verso destra e verso sinistra che vengono sinte­tizzate dal gruppo dirigente centra­le. Questa sua idea è stata contesta­ta dal punto di vista teorico da Vel­troni, che ha posto le premesse di un altro tipo di partito. Solo con Renzi entra in crisi, perché il segretario non viene scelto con una me­diazione al centro ma con una pro­cedura apertamente competitiva. Proprio questo, nel 2013, ha finito per collocare D'Alema non più nel­la fusoliera - magari accanto al pi­lota ma comunque come colui che dava la rotta - ma su un'ala.

 

C'è chi, forse più banalmente, par­la di vendetta nei confronti di Ren­zi...

Io penso che sbagli chi chi pensa che D'Alema voglia vendicarsi di Renzi perché non è diventato com­missario europeo. Questa è una vi­sione meschina. D'Alema vuole vendicarsi di Renzi e cacearlo dal partito perché ha messo in atto un'impostazione che non contem­pla più il modello di partito cui D'Alema è affezionato. E allora ec­co cosa è questa scissione: D'Ale­ma incarna una posizione perdente che non gli consente di ottenere una rivincita sul campo dell'avver­sario, e allora scommette su un al­tro scenario.

 

Ma se l'obiettivo è stare nella fuso­liera centrale dell'aereo, come può tornarvi?

Il disegno è chiaro: far perdere il Pd, così sarà costretto a liberarsi di Renzi e poi trattare il rientro. Del resto, questo D'Alema lo ha detto esplicitamente: ha tanti difetti ma non quello di non essere chiaro.

 

Eppure si è anche detto che la dia­spora silenziosa della sinistra del Pd sia iniziata già da tempo e che questa sia la rottura definitiva. Co­sì il Pd rimane un partito di sini­stra?

Messa così rischia di diventare una disputa teologica. Il Pd è un partito di sinistra riformista, ovvero che si cimenta con la sfida del governo. Esiste anche la sinistra, che una volta si chiamava massimalista, che preferisce la testimonianza alla sfida del governo. Il Pd è un modo di essere sinistra e non a caso fa parte del Partito Socialista Euro­peo. Su che cosa debba essere la si­nistra oggi in Italia il dibattito rima­ne aperto, ma tutte le idee sono compatibili dentro un partito e in­fatti, messa in questo modo, la scis­sione non si spiega.

 

In che senso?

Mi chiedo: si rafforza la sinistra uscendo dal Pd e formando un gruppettino di una trentina di par­lamentari? Non mi sembra che così le ragioni della sinistra si rafforzi­no. No, si esce perchè si prova a far fallire l'esperimento del Pd e il suo essere in discontinuità rispetto ad una tradizione di sinistra italiana comunista. Oggi siamo in un mon­do diverso e anche il partito è di­verso, per questo l'idea di D'Alema guarda indietro anziché avanti.

 

Non rimprovera nulla a Renzi? La minoranza ha lamentato, da ulti­mo, la mancata autocritica.

Renzi ha pregi e difetti. Il pregio maggiore è il coraggio, che rasenta anche la temerarietà. Ha difetti, uno dei quali è un eccesso di prota­gonismo individuale e una difficol­tà a fare lavoro di squadra vero. Ma se vogliamo mettere sulla bilancia il carattere di Renzi e quello di D'Alema non so quanta strada fac­ciamo. Io non ho mai pensato di uscire dai Ds perchè non mi piace­va il carattere di D'Alema, così tro­vo avvilente che qualcuno possa motivare la sua uscita da un partito così.

 

Eppure, anche dal punto di vista politico, non tutto è stato un suc­cesso.

Renzi ha fatto errori ma li ha am­messi, si è dimesso da Presidente del consiglio e anche da segretario, quindi è chiaro che non è andato tutto bene. Renzi ha portato il Pd alla più grande vittoria alle euro­pee, con un consenso mai raggiun­to se non dalla De 50 anni fa, e alla più pesante sconfitta strategica de­gli ultimi anni, con il referendum.

 

 Parliamo di date. Il congresso quando si farà?

La scadenza delle amministrative è già prevista e non si può fare il con­gresso mentre gli altri fanno la campagna elettorale. Io penso che, in un partito strutturato come il Pd, ogni candidato sappia su chi può fare affidamento sul territorio. C'è tutto lo spazio per un confronto se­rio, nei tempi previsti dallo statuto.

 

La legislatura, invece, arriverà al 2018?

A questo proposito, io credo che la scissione renda molto problemati­co il durare della legislatura.

 

Perché?

Io immagino che, in autunno, quel­li che usciranno dai gruppi alla Ca­mera e al Senato - che lo vogliano o no - saranno costretti dai fatti a fare campagna elettorale attraverso la guerriglia parlamentare, perché tra pochi giorni di loro non si parlerà più e, se voteranno sempre come il Pd, qualcuno si chiederà perché sono usciti. La scissione, fatta nel nome della durata della legislatura, rischia di mettere in moto un pro­cesso di conclusione anticipata.

 

 

Lei ha scritto, dopo le convulse vi­cende dei giorni scorsi, che "la po­litica è una scienza esatta". Che cosa intendeva?

La mia è stata una provocazione, ma la politica ha le sue leggi: se tu metti in atto certi comportamenti, alla fine questi avranno degli effetti in modo difficilmente reversibile. Se si comincia a rendere abituale il differenziarsi nel voto in Parlamen­to - e noi siamo arrivati ad alcuni che non hanno votato nemmeno qualche fiducia al governo - questo innesca una dissoluzione interna difficilmente controllabile, perché il pluralismo di un partito è coes­senziale alla disciplina nelle sedi istituzionali. Tanto più un partito è plurale al suo interno, tanto più poi deve essere chiaro che nel momen­to del voto si è tutti uniti. Se invece si diffonde il comportamento dif­forme, questo retroagisce negativa­mente sul pluralismo.

 

Con quali conseguenze?

La maggioranza, allora, sarà tentata di dire che la prossima volta questi parlamentari non torneranno in Parlamento, perché è impossibile governare con un pezzo che vota contro. Io tante volte ho detto ai miei colleghi che votavano in ma­niera difforme: "guardate che que­sta è una strada senza ritorno. Nes­suno vi caccia via, ma a un certo punto vi trovate fuori sa soli". E purtroppo non c'è eccezione a questa regola. Che cosa successe con l'Unione di Prodi? Le componenti minoritarie minorita­rie   mettevano in discussione tutti i giorni il governo e il Pd, nel 2008, andò da solo alle urne, non per cattiveria ma non si può credibilmente ripresentarsi agli elettori con questa contraddizione interna.

 

E quindi gli scissionisti sono quelli che ragionevolmente non sarebbe­ro stati ricandidati?

Si è iniziata a diffondere la sensa­zione che qualcuno, nella prossima tornata elettorale, sarebbe rimasto a casa, e quelli che pensavano di es­sere tra questi hanno cominciano a guardarsi intorno e, se la strada dentro il partito è preclusa, ne cer­cano un'altra fuori dal partito. Poi, naturalmente, questo sistema elet­torale rende meno disincentivante l'uscita, perché si può provare ad andare in Parlamento anche col 3% dei voti, almeno alla Camera.

 

Ma il Pd come si presenterà alle prossime elezioni?

Gli elettori, quando sarà il momen­to, vorranno capire da noi se c'è una proposta di governo che sap­pia farsi carico dei grandi problemi del Paese. Aspettano un messaggio di umiltà, ma anche risposte non miracolistiche. Ecco, dal Pd ci si aspetta questo e non che parliamo di noi stessi.

 

Al netto della scissione?

La scissione è una sfida, un atto per far perdere il Pd. In questo modo però vincerà qualcun altro: in que­sto senso la scissione è un atto che resta folle e irresponsabile nei con­fronti del Paese.

 

 

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