Jul
08
2010
La Chiesa italiana e le prospettive del Paese
Il mio intervento durante gli incontri con il gruppo Landino a Camaldoli dal 2 al 4 luglio
  1. TRENT'ANNI DOPO

A quasi trent'anni dal documento del Consiglio Permanente della Cei, "La Chiesa italiana e le prospettive del Paese" (1981), è necessario e urgente tornare ad interrogarsi su quel rapporto. Quel documento fu in un certo senso il canto del cigno della stagione "montiniana" post-conciliare, prima della svolta di Loreto (1985). Anche nella Chiesa, come nel mondo, si affermava - certo in modo specialissimo - l'egemonia del pensiero "neo-conservatore". Nessuna meraviglia e nessuno scandalo: la Chiesa vive nel mondo e impregna di sé il mondo, ma assorbe anche il mondo dentro di sé. La stagione del Concilio aveva coinciso con la lunga stagione  segnata dalla egemonia riformista, progressista, democratica, entrata in crisi negli anni Settanta. Oggi stiamo vivendo un nuovo passaggio di fase: lo vive il mondo e in esso anche la Chiesa. Lo vive il nostro Paese, l'Italia, e in esso la Chiesa italiana.


2. NAPOLITANO DOCET

Le prospettive del Paese, come nel 1981, appaiono problematiche. Ma, contrariamente a quanto si sente ripetere quotidianamente dalle parti del centrosinistra (inteso come schieramento politico, ma ancora di più come settore dell'opinione pubblica), non sono in pericolo la democrazia e la libertà. Anche se non c'è dubbio che la nostra resti una "democrazia difficile", ieri handicappata dalla strutturale mancanza di alternanza al governo, oggi logorata dalle pulsioni populiste e illiberali. Ma quel che pare più a rischio, come non si stanca di ripetere il Presidente della Repubblica, più che la democrazia, è l'unità del Paese, a causa dell'incapacità del Governo nazionale (quasi a prescindere dal coloro politico di chi lo guida) a mobilitare il Paese attorno ad una risposta adeguata ad un contesto internazionale che sta rendendo insostenibili gli storici squilibri interni italiani. A cominciare da quello territoriale (Nord-Sud), che si intreccia a sua volta con quello sociale-fiscale (spesa pubblica vs. settore produttivo, in particolare quello esposto alla concorrenza internazionale).


3. DAI "NEO-CON" A OBAMA

Il contesto internazionale è segnato dalla crisi finanziaria del 2008, che sembra aver decretato la fine dell'egemonia del modello "neo-conservatore", fondato sul paradigma della "disuguaglianza dinamica": un paradigma che noi non possiamo condividere, ma che non possiamo ignorare abbia prodotto risultati storici di enorme rilievo per l'umanità: a cominciare dalla vittoria sul comunismo sovietico, fino alla globalizzazione che, pur tra mille contraddizioni, ha portato a quello che è stato definito "the rise of the rest" (Zakaria), l'uscita dalla miseria e l'ingresso nel circuito dello sviluppo di miliardi di persone: in Asia, America Latina, perfino in Africa. La crisi del paradigma "neo-con" ha fatto emergere la leadership di Barack Obama, fondata sulla promessa e la ricerca di un nuovo paradigma, fondato sul principio della "uguaglianza dinamica" (multilateralismo, green economy, nuovo welfare). Dopo la crisi economica del 2008, che ha evidenziato l'insostenibilità del modello di crescita mondiale trainato dall'indebitamento Usa (finanziato dal gigantesco, speculare surplus delle economie asiatiche), insieme al modello di relazioni internazionali dominato dall'unilateralismo americano.


4. FORMICHE E CICALE

L'Europa è entrata nella crisi del 2008 proprio mentre prendeva avvio il dopo Lisbona, ossia proprio mentre entrava definitivamente in crisi il modello comunitario e si affermava quello intergovernativo. Il combinato disposto di questi due fatti ha riacceso i timori di un passaggio dallo schema auspicato della "europeizzazione della Germania", a quello temuto della "germanizzazione dell'Europa". I parametri standard per le economie europee non sono più definiti in primo luogo dalla Commissione, ma sempre più dal Consiglio, dominato dalla Germania, il Paese economicamente più forte e segnato da una svolta neo- nazionalista. Non siamo nel 1929, quando la risposta americana alla crisi fu il New Deal di Roosevelt e quella europea il nazionalsocialismo di Hitler, ma la divaricazione strategica tra le due sponde dell'Atlantico è impressionante. Gli Stati Uniti di Obama seguono una dottrina "neo-keynesiana": puntano innanzi tutto sulla crescita, anche attraverso massicci investimenti pubblici, nelle infrastrutture e nella ristrutturazione dell'apparato produttivo, per così dire spostando l'indebitamento dalle famiglie al bilancio federale. La Germania punta invece ad un modello di rigore finanziario e di alta produttività, finalizzato alla competitività sui mercati internazionali, sia finanziari che di interscambio commerciale, e considera la crescita come un effetto indiretto e non un obiettivo da perseguire in quanto tale. Corollario di questa impostazione è il pugno di ferro con i paesi Piigs (i paesi dell'Europa mediterranea, più l'Irlanda), le cosiddette "cicale", che peraltro in questi anni hanno sostenuto, indebitandosi, le produzioni delle "formiche", non molto diversamente da quanto la crescita drogata americana ha trainato la crescita asiatica. Resta il fatto che, sul piano dei rapporti di forza, la linea tedesca risulta vincente in un'Europa con la moneta unica, ma senza Governo federale.


5. SE ANGELA SPIAZZA SILVIO

Lo strappo tedesco ha messo in crisi il minimalismo berlusconian-tremontiano (In Italia la crisi è meno grave, nella crisi non si fanno riforme, aspettiamo la ripresa tedesca...) e ha messo bruscamente l'Italia dinanzi alle sue responsabilità, imponendole una manovra aggiuntiva di tipo restrittivo, attraverso il "Commissario" Tremonti. Dopo quindici anni dalla mitica corsa all'Euro, l'Italia è tornata al debito al 120%, mentre la competitività del Paese continua a calare. Questi due gravi sintomi segnano, agli occhi degli italiani, il fallimento politico della cd Seconda Repubblica e dei due poli sui quali si è strutturata: come dimostra la spettacolare caduta della partecipazione al voto. Non a caso tornano ad affacciarsi ipotesi di governi tecnici, o di salute pubblica, che vadano oltre l'attuale bipolarismo politico che, pur avendo garantito l'alternanza (anzi, l'alternanza c'è stata tutte e cinque le volte che si è votato dal 1994 ad oggi), non è riuscito finora a garantire al Paese un governo in grado di affrontare i nodi strutturali del debito e della competitività.


6. L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL BERLUSCONISMO

L'Italia comincia a capire di essere nei guai. Lentamente. Forse troppo. I due macrosquilibri sono ormai insostenibili: lo Stato pesa troppo sui ceti produttivi, le regioni del Sud pesano troppo su quelle del Nord. Berlusconi non ce la fa, perché (come tutti i populisti) è un grande combattente, ma un pessimo governante. Ma dopo Berlusconi, che aveva fondato un partito (prima Forza Italia, poi il Popolo della libertà) capace di farsi votare dalla maggioranza dei lombardi e dei siciliani, chi terrà insieme l'Italia? Avrebbe dovuto farlo il PD, ma non c'è quasi più. Sul piano della cultura politica, prima ancora delle singole scelte politiche e programmatiche. Il PD appare sempre più prigioniero della sua costituency minoritaria, concentrata nelle regioni del Centro Italia e nei cosiddetti ceti medi intellettuali urbani, sempre più lontani dai ceti produttivi. E dunque consegnato ad un ruolo più di protesta che di proposta, più di opposizione che di alternativa di governo.


7. UNA CHIESA DA CAMERA?

Dopo il '43 e (cinquant'anni dopo) nel '93, la Chiesa è stata punto di riferimento unitario per il Paese. Oggi possiamo sperare che il miracolo si ripeta? C'è da dubitarne. Sociologicamente, la Chiesa in Italia appare in ritirata (meno fedeli, meno preti). Moralmente, appare come piegata sotto i colpi del dilagare dello scandalo pedofilia e, in Italia, anche di quelli di corruzione. Politicamente e culturalmente, appare spiazzata per aver a lungo e fortemente assorbito (anche a causa dell'asimmetria del magistero post-conciliare) il paradigma "neo-con" del primato delle questioni bioetiche, fino a farne il cuore dell'identità cristiana nel mondo contemporaneo. Paradossalmente, la Chiesa sembra aver reagito alla secolarizzazione, che vuole la religione rinchiusa nel privato, ponendo al centro del dibattito pubblico i temi che riguardano la camera da letto, o quanto meno la sfera domestica: vita e morte, sessualità, procreazione, famiglia. E relegando sullo sfondo la dottrina sociale. In Italia in modo particolare questa deriva si è accompagnata, nella lunga stagione segnata dal commissariamento della Cei da parte di papa Wojtyla, attraverso il cardinale Ruini, ad una politicizzazione della gerarchia e ad una speculare mortificazione del ruolo dei laici.


8. UNA NUOVA SCELTA RELIGIOSA

L'avvento di papa Ratzinger, non a caso frutto dell'incontro in Conclave con Martini, può rappresentare (e di fatto in larga misura sta rappresentando) una nuova svolta nel senso di una rinnovata "scelta religiosa": primato dell'essenziale, il Vangelo, l'evangelizzazione, il Logos, la Speranza, l'Amore, la Verità, fino alla "purificazione" della Chiesa dalle sue "sporcizie" e dalle stesse tentazioni di successo mondano, comprese quelle rappresentate dalle grandi manifestazioni di massa. La prima domanda sulla fede cristiana non è sulla sua utilità, ma sulla sua verità. La sua fecondità (storica) dipende dalla sua verità. Dalla sua capacità di aprire la razionalità umana alla dimensione dell'ulteriorità. No alla riduzione della dimensione religiosa alla sfera privata, cioè irrazionale. La religione occupa legittimamente uno spazio pubblico, quello della discussione razionale. Questa scelta può avere un effetto antiautoritario e in definitiva di valorizzazione del laicato. Non definire un modello, ma accompagnare la libertà umana. La stessa "asimmetria" del magistero può essere utilmente usata in questa direzione, come dimostra l'ottimo documento preparatorio delle Settimane sociali, a sua volta segno positivo del nuovo corso intrapreso dalla Cei.


9. RIANNODARE IL FILO SPEZZATO

Resta il fatto che la Chiesa dovrà ancora a lungo occuparsi più di se stessa e del suo ruolo nel mondo, piuttosto che proporsi come riserva morale (e istituzionale) pronta per una società italiana in cerca di punti di riferimento. Solo la politica può costruire le risposte che dalla politica stessa la società si aspetta. Molto dipende ancora dal PD, dalla sua volontà di essere ciò per il quale è stato creato: la casa comune dei riformisti, il soggetto promotore di quella riforma civile, prima ancora che istituzionale, economica e sociale, della quale il Paese ha inderogabile necessità: almeno se vuole restare una nazione. Ma il PD potrà svolgere questo fondamentale ruolo dinamico e propositivo, potrà porsi come il soggetto di una nuova alleanza riformatrice, tra ceti medi intellettuali e categorie della produzione, tra cultura e lavoro, per la modernizzazione della spesa pubblica, il rientro dal debito, il rilancio della competitività e degli investimenti sul capitale umano, solo se si deciderà a riannodare il filo spezzato della innovazione della cultura politica del centrosinistra, avviato da Veltroni e poi bruscamente interrotto.

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