Con altrettanta franchezza (e "senza malanimo", per riprendere una espressione ampiamente utilizzata nell'ultima assemblea nazionale del Pd) è necessario dire, dal mio punto di vista, che molte delle opportunità che questa occasione ci propone verrebbero compromesse, se la piattaforma della presidenza D'Alema alla Fesp dovesse essere quella autorevolmente proposta su queste colonne da Andrea Peruzy. Dico "autorevolmente" perché, in questa circostanza, Peruzy non è un osservatore o un'opinionista tra i tanti possibili. Peruzy è il segretario generale della Fondazione "Italianieuropei", presieduta da D'Alema, che a sua volta (la Fondazione) è il socio italiano della Fesp. Dunque, il testo di Peruzy pubblicato sul "Foglio" del 24 giugno scorso non è un commento esterno, per quanto interessante, ma ha tutti i caratteri di una piattaforma politica e programmatica, a sostegno della candidatura di D'Alema.
Il problema è che la piattaforma Peruzy è allo stesso tempo, a mio modo di vedere, contraddittoria con l'ipotesi culturale che ha dato vita al Pd; e (quel che più conta) inadeguata rispetto alle sfide che i progressisti europei hanno dinanzi a sé.
E' contraddittoria con l'ipotesi Pd, come ha rilevato su questo giornale il principale autore, insieme ad Alfredo Reichlin, del Manifesto dei valori del partito, Mauro Ceruti. Non a caso, del resto, nel lungo articolo del segretario generale di "Italianieuropei" il partito nuovo dei riformisti italiani non è mai neppure citato, mentre si preferisce parlare di "sinistra italiana" e "sinistra europea", che "oggi hanno la grande occasione di riscrivere insieme l'agenda e il profilo di una nuova socialdemocrazia". Non è un problema di galateo e neppure solo di linguaggio: anche se sembra esserci, per così dire, un "eccesso di zelo" nel rinchiudere entro i confini della socialdemocrazia un'impresa culturale come quella della Fesp, che di per sé avrebbe deciso di definirsi "progressista". E' un problema di sostanza politica, che mette in gioco - è vero, implicitamente, ma non per questo meno radicalmente - la natura stessa del Pd. Da ipotesi politico-culturale, fondata sull'incontro e il reciproco superamento delle diverse tradizioni riformiste italiane, in una sintesi nuova (un "pensiero nuovo" si era detto e scritto), capace di misurarsi con le sfide, per molti versi inedite, del Ventunesimo secolo, il Pd viene indirettamente ridimensionato, nella migliore delle ipotesi, a luogo di coabitazione, diciamo pure di dialogo e di confronto, tra identità politico-culturali che si vuole restino ben distinte, ancorché non più separate. E quindi, ciascuna con le sue proprie relazioni europee e internazionali.
In questo contesto, l'identità socialdemocratica, in modo dal mio punto di vista storicamente abusivo, viene identificata tout-court con l'europeismo, l'economia sociale di mercato e perfino con i "principi di solidarietà, uguaglianza e democrazia" che, scrive Peruzy, "rappresentano le radici culturali della socialdemocrazia europea". Come ha già avuto modo di ricordare in questo dibattito Sergio Soave, la storia del Novecento è assai più complessa e controversa. Sul piano dei principi, innanzi tutto. Se l'uguaglianza è certamente principio tipicamente (anche se non esclusivamente) socialista, il valore universale della democrazia è stato appreso dai socialisti, come per altri versi dai cattolici, grazie alla contaminazione con il pensiero liberale. E quanto alla solidarietà, solo il confronto con l'ispirazione cristiana ha permesso al socialismo di reinterpretarla in chiave modernamente interclassista. Nasce proprio da questo confronto l'idea e la pratica della Soziale Marktwirtschaft, l'economia sociale di mercato, espressione tipicamente democristiana (e della Dc tedesca in particolare): una delle variazioni sul tema del compromesso tra capitalismo e democrazia, attraverso lo Stato sociale e l'economia mista, che hanno caratterizzato la risposta europea alla sfida del comunismo sovietico. Una risposta che ha visto la convergenza e la reciproca contaminazione tra socialdemocratici, democristiani e liberaldemocratici. Una contaminazione, si badi bene, che ha caratterizzato la stessa evoluzione dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei, che hanno plasmato la loro identità (e realizzato la loro "vocazione maggioritaria") attraverso la fusione di apporti diversi, ormai non più scindibili: al punto che la socialdemocrazia europea è oggi nei fatti introvabile se non contaminata da sostanziosi apporti liberali, cristiani e, da ultimo, ambientalisti.
Nell'arco di quasi vent'anni, dopo la fine del Pci e del Psi, i Democratici di sinistra hanno cercato la via per riprodurre in Italia un esperimento che nel resto d'Europa aveva avuto un grande successo. Ma hanno dovuto concludere che la strada da intraprendere in Italia, per dar vita all'equivalente funzionale dei partiti socialisti europei, ovvero un partito a vocazione maggioritaria, casa comune dei riformisti, doveva essere diversa: non l'apertura della socialdemocrazia a nuovi apporti, strada preclusa proprio dalla storica mancanza di un partito socialista italiano delle dimensioni e della funzione nazionale dei grandi partiti socialisti europei, ma la costruzione di un grande partito riformista, a partire dall'incontro tra forze, oltre che culture, diverse. Una Epinay italiana, che non poteva tuttavia dar vita, doppiato il capo del Duemila, ad un partito "socialista", ma ad un partito "democratico", facendo dell'aggettivo che connotava i sostantivi del Novecento (socialismo, liberalismo, cristianesimo), la base solida sulla quale costruire una identità e una proposta per il nuovo secolo.
Quel che più conta, a questo punto, è osservare come non assumere e valorizzare la spinta innovatrice che ha portato i riformisti italiani a dar vita al Pd rischi di spingere la riflessione verso schemi che a me paiono del tutto inadeguati a comprendere, prima ancora che ad affrontare, le sfide del nostro tempo.
Peruzy propone di porre al centro della elaborazione della Fesp il "paradosso" per cui "l'indebolimento delle forze socialdemocratiche si è manifestato proprio nel momento in cui la crisi economica, politica e sociale ha sancito il fallimento del liberismo sfrenato e, attraverso l'invocazione di un maggiore intervento dello Stato nell'economia, sono tornate al centro del dibattito pubblico le idee fondamentali della tradizione socialista".
L'argomento richiederebbe ben altro spazio, ma a me pare evidente che, impostato così, il paradosso è destinato a rimanere tale a lungo. In primo luogo perché banalizza (e quindi sottovaluta) l'avversario. L'egemonia neo-conservatrice che si è affermata in Occidente dagli anni Ottanta del secolo scorso fino ad oggi è tutt'altro che riducibile alla frustra categoria del "liberismo sfrenato". Facendo largo uso della spesa pubblica, oltre che del libero mercato, i "neo-con" hanno prima distrutto l'impero sovietico e poi posto le condizioni per una globalizzazione che, pur tra mille squilibri, ha reso possibile la più spettacolare crescita dell'economia mondiale di tutta la storia dell'umanità e, in questo contesto, l'uscita dalla miseria di un paio di miliardi di esseri umani. Lo squilibrio principale della globalizzazione è stato determinato dalla crescita americana in larga parte finanziata dall'indebitamento con le economie asiatiche. Ma si è trattato di uno squilibrio dinamico: perché ha sostenuto la crescita impetuosa di questi anni e, per una singolare eterogenesi dei fini, ha posto le premesse di quel mondo multipolare e "post-americano", forse "post-occidentale", nel quale ci troviamo oggi.
Il meccanismo ora si è inceppato e per rimetterlo in moto serve un paradigma nuovo. Ma per l'appunto nuovo: non c'è nessuna socialdemocrazia che ritorna, tanto meno sotto forma di "un maggiore intervento dello Stato nell'economia", concetto da economie nazionali pre-globalizzazione, che oggi appare privo di significato: non fosse altro perché lo Stato con la "s" maiuscola sopravvive solo dove è pressoché inutile, almeno per il governo dei processi globali, ovvero negli staterelli europei.
Non a caso, l'unico paradigma nuovo finora comparso sulla faccia della terra è quello rappresentato, elaborato e con alterni successi sperimentato da un certo Barack Obama, clamorosamente ignorato da Peruzy. Obama non sarà l'uomo della Provvidenza, ma è l'unico che si sta cimentando in questo momento con la vera sfida che i progressisti e democratici di tutto il mondo si trovano davanti: dimostrare che un nuovo paradigma dell'uguaglianza può produrre risultati migliori di quelli prodotti negli ultimi trent'anni dal paradigma neo-conservatore della "disuguaglianza dinamica".
Sarebbe interessante, perfino affascinante, se i democratici italiani provassero, con umiltà e senza arroganza, a fare della loro anomalia in Europa, nata da un ritardo storico che oggi può trasformarsi in un'anticipazione di futuro, la leva per un vero salto di qualità dei progressisti europei: innanzi tutto (e qui Peruzy ha pienamente ragione) un salto oltre l'angustia della dimensione nazionale, una dimensione che nel mondo globalizzato è diventata invisibile ad occhio nudo, per diventare quel nuovo motore di cui ha bisogno il processo di integrazione europea, oggi di fatto bloccato. Un salto che forse diventerà meno impossibile se i progressisti europei riusciranno a guardare oltre se stessi, innanzi tutto al di là dell'Atlantico, stabilendo relazioni stabili e ravvicinate con i Democratici Usa.
Se servirà a stimolare tutto questo e non a riproporre vecchi vocabolari e vecchie grammatiche, la Fesp potrà rivelarsi uno strumento prezioso e la presidenza di D'Alema un'occasione importante per i riformisti italiani ed europei.