Jun
08
2016
Una sberla al Pd?
La mia intervista a Pierluigi Mele (confini.blog.rainews.it)

Senatore Tonini, ieri il premier Matteo Renzi si è detto “non soddisfatto” dell’esito del primo turno elettorale amministrativo, ma continua a non riconoscere una rilevanza nazionale alla competizione. Mi scusi la provocazione, non è presuntuosa come posizione? Tutti hanno capito che il voto è stata una sberla per il PD e per Renzi. Per Lei?

 

Due anni fa, il 25 maggio del 2014, alle elezioni europee, il Pd guidato da Matteo Renzi conquistava il 40,8 per cento dei voti e 31 seggi al parlamento di Strasburgo, affermandosi come il primo partito d’Europa. Lo stesso giorno, il Pd perdeva comuni importanti, da decenni amministrati da sindaci di sinistra, come Livorno, Perugia, Potenza. Quel giorno dunque, migliaia di cittadini si sono recati ai seggi elettorali, hanno preso due schede, sono entrati nella cabina e in una scheda, quella per il parlamento europeo, hanno messo una bella croce sul simbolo tricolore del Pd, mentre l’altra, quella per le comunali, l’hanno usata per mandare a casa un sindaco del Pd. Non c’è nulla di provocatorio o di presuntuoso nel ricordare a tutti noi che una parte significativa e crescente degli elettori non vota più sulla base di un sentimento di appartenenza a questa o quella comunità politica, ma effettua le sue scelte sulla base di un giudizio politico circostanziato: che riguarda il governo nazionale, alle elezioni politiche generali, e invece il sindaco quando si deve eleggere il primo cittadino del proprio comune. Questa capacità di distinguere sì è vista in modo clamorosamente evidente quel 25 maggio di due anni fa. Ma si è vista anche domenica scorsa, con la vistosa multiformità del voto alle amministrative, nel quale ognuna delle grandi città che andavano al voto ha fatto storia a sé. Basti pensare a Napoli e Salerno: il peggiore e il migliore risultato per il Pd si sono realizzati a pochi chilometri di distanza. A Napoli siamo fuori dal ballottaggio, a Salerno vinciamo al primo turno col 70 per cento. Ho l’impressione che il governo c’entri poco sia col primo che col secondo risultato. Il Pd indubbiamente ha preso qualche sberla, peraltro annunciata, ma ha anche messo a segno qualche buon risultato. Tutte le forze politiche maggiori possono dire di aver vinto da qualche parte, ma nessuna può dire di aver vinto queste elezioni come tali. Tra le forze maggiori, il Pd è il partito che esce con più risultati utili da questa tornata elettorale: più eletti al primo turno, più candidati piazzati al ballottaggio.

 

Vediamo al dato politico: sul ballottaggio oltre a Roma e Milano anche Torino è a rischio, se dovesse esserci la confluenza del voto leghista sul candidato 5 stelle. Insomma a parte Roma, dove le cause del risultato del PD sappiamo quali sono, come mai invece a Milano e Torino, dove il centrosinistra ha governato bene, il PD rischia così tanto?

Sia a Milano che a Torino il candidato sindaco del Pd è al ballottaggio con più del 40 per cento dei voti. Ma non è affatto scontato l’esito finale di entrambi i confronti. A Torino, come per altri versi a Bologna, il centrosinistra governa da sempre e deve quindi fare i conti con la fisiologica voglia di cambiamento, tanto più forte in un contesto di disagio sociale, come ha giustamente ricordato Fassino. Non basta avere governato bene, bisogna anche riuscire ad essere e apparire “alternativi a se stessi”, come raccomandava Moro alla Dc. A Milano, la candidatura di Sala, che poteva dilagare in un centrodestra ridotto ad un disordinato campo di forze, ha invece provocato una riorganizzazione di quello schieramento, riproponendo un confronto bipolare classico centrodestra contro centrosinistra. Uno scenario virtuoso, che rende i milanesi giustamente orgogliosi. Grazie a Pisapia, grazie a Sala e grazie anche alla intelligente risposta del centrodestra. La differenza rispetto al passato è che stavolta è il centrodestra a inseguire. Ma il confronto è apertissimo.

 

Milano è strategica per il PD, Sala che carta può giocare per riuscire a vincere il “derby” con Parisi?

La candidatura di Parisi è espressione di un centrodestra che si è ricompattato sotto la guida di Berlusconi e su una linea di governo. Tanto di cappello, ma si tratta di un accordo tattico, dietro il quale permangono radicali divergenze strategiche, tra il lepenismo di Salvini e i moderati di Lupi e Albertini. Parisi, qualora diventasse sindaco, potrebbe trovarsi dinanzi a contraddizioni insanabili. Dietro Sala c’è invece uno schieramento molto più coeso e armonico, sotto il profilo politico e programmatico.

 

L’astensione ha pesato tanto per il PD, molti elettori di sinistra non sono andati a votare (sinistra italiana è stata una delusione). Insomma qualcosa dovra’ pur cambiare nel pd e nel governo per riconquistare quell’elettorato: è ora di ripensare il doppio incarico di Renzi?

Dalle prime analisi sui flussi emerge una perdita, da parte del Pd, di elettori tradizionalmente di sinistra, solo parzialmente compensata (e non dappertutto) dall’arrivo di elettori moderati. In parte questo è il prezzo inevitabile di politiche innovative, sia nazionali che locali, che non si possono fare a costo zero in termini di consenso, almeno nell’immediato. Il fatto peraltro che questi elettori non premino le piccole formazioni di sinistra a sinistra del Pd, ma si dirigano o verso il non-voto o verso il M5s, ci dice che il rimedio a questo problema non sta nel ritorno al passato, ma in un di più di innovazione, sia sul piano dei contenuti programmatici, sia su quello delle forme della politica. Una innovazione, beninteso, che non può vivere solo nei laboratori di ricerca, ma deve vivere nel rapporto quotidiano con il popolo. Non servirebbe a nulla quindi né tornare ai vecchi linguaggi della sinistra né farsi prendere dalla nostalgia per un vecchio modello di partito da lunga pezza superato dai fatti. È fuor di dubbio che serva un salto di qualità nel governo del partito, ma sarebbe una pia illusione cercarlo nella riproposizione di un vecchio dualismo “democristiano” tra segretario e premier: un dualismo che già nel 1970 un allora giovane Leopoldo Elia giudicava incompatibile con una politica riformista.

 

Il Boom dei 5 Stelle è stato sorprendente (roma e torino), anche se non tutti i candidati sono andati bene. Cosa ha reso competitivo questo movimento rispetto al PD? Non sarebbe ora di prenderli sul serio?

Ciò che rende competitivo il M5s è la sua natura esasperatamente post-ideologica, che gli consente di sommare elettori delusi sia dal centrosinistra sia dal centrodestra. Demonizzare non serve a niente. Semmai si tratta di sfidarli a maturare politicamente. In questi giorni, i leader del movimento stanno dicendo all’unisono che la “favoletta” che sarebbe un sentimento di mera protesta a gonfiare le loro vele, non regge più. È vero, ma solo fino ad un certo punto. Spetta a loro dimostrare di essere capaci di proposta e non solo di gridare un “vaffa” alla classe politica. Un banco di prova è proprio la riforma costituzionale ed elettorale.

 

Il Referendum è l’armageddon di Renzi. Non trova che è stato un CLAMOROSO errore politico far partire subito la campagna per il SI. O comunque non vede rischi, dopo questi risultati, per un esito positivo del Referendum?

I risultati delle amministrative, se letti con attenzione, dovrebbero rappresentare un potente incentivo a sostenere la riforma con un bel SÌ, forte e chiaro, al referendum. Dico questo per due ragioni. La prima è di sistema. In un contesto politico multipolare ad elevata frammentazione, che ne sarebbe dei comuni se non potessero avvalersi dei benefici della elezione diretta del sindaco col doppio turno? Immaginatevi cosa succederebbe a Roma se il sindaco dovesse eleggerlo un consiglio comunale espresso in modo proporzionale dal voto di domenica scorsa. Sarebbe, semplicemente, il caos. E invece, tra due settimane, i romani decideranno col loro voto se il sindaco sarà la Raggi o sarà Giachetti. E così in tutte le altre città. La riforma Boschi e l’Italicum, con i dovuti adattamenti, applicano al governo nazionale lo stesso schema: alla fine c’è uno che vince e governa per cinque anni, grazie ad una maggioranza certa, nell’unica Camera titolare del potere di fiducia. Senza minimamente intaccare il sistema di garanzie e contrappesi. Sento dire, anche nel mio partito, che bisognerebbe rivedere l’Italicum perché non siamo più in un contesto di bipolarismo politico, ma almeno di tripolarismo o forse di multipolarismo. E che il sistema previsto dalla riforma rischia di far vincere il M5s. A me queste sembrano due osservazioni che rafforzano le ragioni del SÌ alla riforma. Proprio perché siamo in un contesto multipolare c’è bisogno di un sistema che alla fine produca un vincitore, se non vogliamo condannare il paese all’ingovernabilità, che è anche, non dimentichiamolo, il vero pericolo per la democrazia. Il fatto poi che con la riforma tutti possano vincere, a cominciare proprio dall’ultimo arrivato, il M5s, è il più potente argomento contro la teoria di un Renzi uomo solo al comando che si disegna un abito costituzionale e una legge elettorale su misura.

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