Apr
26
2016
La corruzione si batte con le riforme
Il mio articolo pubblicato su "L'Adige"

Di tutto ha bisogno l'Italia, tranne che di una nuova stagione di conflitto tra politica e magistratura. Troppi danni ha fatto al paese la stagione berlusconiana, con il parlamento, i partiti e i media impegnati a discutere solo dei processi del Cavaliere e delle leggi con le quali cercava di fermarli, perché si possa anche solo rischiare di tornare dove eravamo. Politica e magistratura devono collaborare, anche in modo dialettico, per dare all'Italia un servizio giustizia degno di un grande paese europeo: indagini efficaci, processi rapidi, carceri dignitose, il tutto nel pieno rispetto dei diritti inviolabili delle persone, in ambito penale; certezza e rapidità delle cause in ambito civile, se vogliamo attirare nel nostro paese quegli investitori che oggi evitano l'Italia anche e soprattutto a causa della lentezza e farraginosità del suo sistema giudiziario. Riformare la giustizia con questi obiettivi è anche la strada maestra per contrastare la corruzione, che oggi si annida proprio nelle pieghe di un ordinamento giuridico ipertrofico (troppe leggi, spesso di incerta interpretazione, e troppi livelli istituzionali) e di un sistema giudiziario troppo lento, che troppo spesso arriva a prescrizione prima che a sentenza. Di riforme c'è dunque bisogno e non di nuovi rimpalli di responsabilità, corredati di gratuiti giudizi morali e di inaccettabili generalizzazioni, dei magistrati nei riguardi dei politici, o viceversa. Fu una riforma, incredibilmente dimenticata, a farci uscire da Tangentopoli, più di vent'anni fa. Una riforma della Costituzione, fortemente voluta dagli allora presidenti delle Camere, Spadolini e Napolitano, che ridimensionava in modo drastico l'istituto dell'immunità parlamentare, che fino ad allora aveva garantito l'impunità alla classe politica. Basti confrontare le due versioni dell'articolo 68: la versione originale, voluta dai padri costituenti, e quella riformata nel 1993. La prima versione stabiliva che «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale... Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile». Grazie a questi due bastioni, inespugnabili per qualunque procura e tribunale, la politica aveva gradualmente fatto della corruzione una fonte ordinaria del suo funzionamento. Tangentopoli non fu infatti un'inchiesta contro episodi, per quanto gravi e numerosi, di corruzione. Fu lo scoperchiamento (anche nella nostra Regione) di un sistema di finanziamento ordinario dei partiti e delle loro correnti, attraverso la spartizione dei proventi dalle tangenti imposte su qualunque appalto pubblico. Quel «sistema» oggi non c'è più. È stato cancellato dalla collaborazione tra magistratura e politica, che portò a quella importante riforma costituzionale. Il nuovo articolo 68 ha cancellato l'autorizzazione a procedere: salvo che per le opinioni e i voti espressi in Parlamento, deputati e senatori possono essere indagati dalle procure e processati dai tribunali come tutti i cittadini; non possono essere arrestati, perquisiti e intercettati senza autorizzazione della Camera di appartenenza, ma anche per loro si aprono le porte del carcere in caso di condanna definitiva. L'immunità è rimasta nella nostra Costituzione, come in tutte le costituzioni democratiche. Ma non è più impunità: a conferma del principio che anche la Costituzione più bella del mondo è passibile di miglioramenti, che non sono tradimenti, ma possono e devono essere perfezionamenti suggeriti dall'esperienza. Il fatto che non ci sia più il «sistema» Tangentopoli non significa, ovviamente, che sia scomparsa la corruzione, che è anzi fenomeno vasto e diffuso, aggravato in Italia dalla presenza di forti organizzazioni criminali di stampo mafioso, dunque capaci di controllo del territorio e naturalmente protesi a cercare complicità politiche. Così come è vero che troppo pochi sono i «colletti bianchi», politici e non, condannati e puniti per aver voluto trarre profitti illeciti dalle loro funzioni istituzionali. Ma il successo di quella ormai lontana stagione, che andrebbe rivendicato e non rimosso, sia dalla politica che dalla magistratura, ci indica un metodo, valido anche oggi, il metodo delle riforme. Che devono essere ambizione e coraggiose, come quella voluta da Spadolini e Napolitano. Il governo Renzi ha fatto e sta facendo molto per dare al paese un sistema giudiziario di livello europeo e per contrastare per questa via la corruzione: è stato reintrodotto il reato di falso in bilancio, previsto quello di auto riciclaggio e disciplinati i reati ambientali, mentre è stata rafforzata la prevenzione con la costituzione dell'autorità presieduta da Cantone e stanno aumentando in modo significativo i proventi della lotta all'evasione fiscale. Si può sempre fare di più e meglio. Con il metodo del dialogo e della collaborazione, ferma restando la reciproca autonomia e la piena separazione dei poteri, tra politica e magistratura.

0 commenti all'articolo - torna indietro

(verrà moderato):

:

:

inizio pagina