Forse il presidente regionale dell'Associazione nazionale magistrati se ne stupirà, ma del suo ampio intervento sull'Adige di martedì condivido l'assunto di fondo: la legalità è un valore assoluto, mentre il principio di governabilità va contemperato con quello di partecipazione.
Intendiamoci: nella nostra Costituzione, come in tutte le costituzioni democratiche, non esistono valori assoluti, ma piuttosto principi fondamentali che chiedono di essere bilanciati tra loro. A cominciare dai due principi fondamentali per eccellenza: quello di libertà e quello di uguaglianza.
Proprio nel bilanciamento, sempre imperfetto e provvisorio, tra i principi fondamentali affermati dalla Costituzione, si apre lo spazio e si esprime il ruolo della politica, della competizione e del conflitto tra proposte politiche diverse: tutte ugualmente democratiche, alla sola, ma precisa condizione di comprendersi come tali (cioè sempre imperfette e provvisorie) e dunque di riconoscere la piena legittimità delle altre proposte in campo, naturalmente tutte parimenti parziali.
Quando una o più forze politiche abbandonano questo solido terreno costituzionale, ignorando la propria parzialità e fallibilità, per proporsi come soluzione perfetta e definitiva e dunque delegittimando gli avversari, politica e democrazia entrano in tensione tra loro e l'impianto costituzionale soffre, provato dalla pericolosa febbre della faziosità. Da questo punto di vista, non è un bene che, salvo poche, lodevoli eccezioni (sul piano nazionale il Pd, su quello regionale la Svp e il Patt), quelli che la Costituzione, all'articolo 49, chiama "partiti", mettendone in evidenza, per l'appunto, il carattere di parzialità, non vogliano più definirsi tali. Al di là delle intenzioni, che possono essere le migliori, non è un segno di apertura, ma un sintomo di un possibile cedimento alla faziosità, che nasce proprio dal rifiuto di una parte di riconoscersi come tale, parte fra le parti, partito tra partiti, nessuno dei quali esente da limiti e monopolista della verità o della virtù.
È anche per questa ragione che, passando dal piano dei principi fondamentali a quello dell'ordinamento repubblicano, è giusto considerare, come fa il dott. Pasquale Profiti, la legalità come un valore assoluto, per l'appunto "ab-solutus", cioè svincolato, libero, e come tale estraneo al conflitto politico. E che la funzione di chi è posto a presidio della legalità, ossia l'ordine giudiziario, goda di completa autonomia dalla politica, rispetto alla quale non è né subordinato né sovraordinato.
Questo non significa che il valore della legalità e, di converso, la lotta alla corruzione e agli intrecci perversi tra politica e criminalità, non debbano entrare nell'agenda politica. Tutto il contrario: liberare la società dalla malapianta soffocante della corruzione è una priorità della politica. Ma la lotta alla corruzione deve essere condotta dalla politica in modo diverso e distinto da quello della magistratura, che ha il compito di reprimere i reati accertando le responsabilità individuali. La politica deve combattere la corruzione non aggredendo le persone, in particolare gli avversari politici, ma facendo buone leggi (soprattutto leggi semplici...) e cercando di fare pulizia al proprio interno, guardando ciascuno in casa propria piuttosto che in quella degli altri e battendo il mea culpa sul proprio, anziché sul petto altrui. Anche sul piano della lotta alla corruzione, non c'è niente di peggio della faziosità, del ritenere la propria parte immune dalla tentazione e le altre, solo le altre forze politiche, marce invece fino al midollo. La storia è piena di presunti "partiti degli onesti" travolti dagli scandali.
Ma il principale contributo che la politica può dare all'affermarsi del principio di legalità è a mio avviso la promozione, anche attraverso adeguate riforme istituzionali, della cultura della responsabilità. Non solo: a ben vedere, il principio di responsabilità è anche il possibile punto di sintesi, di mediazione alta, tra il valore della governabilità e quello della partecipazione.
Governabilità e partecipazione, in democrazia, sono due facce della stessa medaglia. Democrazia significa letteralmente potere del popolo. Dunque non può esserci governo democratico che non sia deciso dai cittadini. E viceversa: se i cittadini non decidono chi governa, non si capisce in cosa consista la loro partecipazione alla cosa pubblica. Certo, la partecipazione non si esaurisce nel voto, nella decisione, una volta ogni cinque anni, di chi deve governare. Partecipare significa anche controllare chi governa, attraverso il contrappeso più importante ad ogni concentrazione del potere: la formazione di una opinione pubblica attenta, informata e critica. Ma se il giorno del voto non si decide niente, la partecipazione si riduce alla condivisione dell'impotenza.
Ebbene, le riforme che il parlamento ha a lungo discusso e che si accinge ad approvare e che saranno sottoposte in autunno al vaglio del referendum popolare, hanno alla base non il valore della governabilità, ma il principio di responsabilità. Saranno gli elettori, con il loro voto, a decidere chi deve governare, più e meglio di quanto non accada adesso: perché sarà solo la Camera (e non più anche il Senato) a dare la fiducia al governo e non potrà dunque più accadere quel che è avvenuto alle ultime elezioni politiche, che ci hanno consegnato un parlamento con una maggioranza alla Camera e nessuna maggioranza al Senato, obbligando le forze politiche a larghe e innaturali coalizioni; e perché la legge elettorale consegnerà una modesta, ma netta maggioranza in seggi (340 su 630) al partito che vince le elezioni, con almeno il 40 per cento dei voti al primo turno, o il 50+1 al ballottaggio.
È il principio di responsabilità: dei cittadini-elettori, che decidono loro chi deve governare, senza delegare questo potere a opache trattative post-voto; e di chi, vincendo le elezioni, si aggiudica il diritto-dovere di governare, con la connessa responsabilità di rendere conto del suo operato, senza poter invocare alibi di sorta.