Diciamo innanzi tutto che la disciplina delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura non sta né al primo, né al secondo e forse nemmeno al decimo posto nella classifica delle questioni più urgenti per gli italiani. Al primo posto nella testa di tutti noi sono le questioni economiche e sociali, la grave crisi che ha colpito l'euro, fino al punto da mettere in dubbio il futuro della moneta unica europea, e le conseguenze che questa crisi avrà sui redditi delle famiglie. Da come sapremo affrontare questo passaggio così difficile, dipenderà il futuro del paese e la stessa credibilità delle forze politiche, sia di governo che di opposizione.
E tuttavia, per ostinato volere della maggioranza di centrodestra, lunedì prossimo il Senato tornerà ad occuparsi di intercettazioni: a nulla è servita infatti la battaglia che il Partito democratico, insieme all'Italia dei valori e all'Udc, ha condotto mercoledì scorso in aula per convincere la maggioranza ad occuparsi di cose più importanti e più urgenti. Per novanta volte - tanti sono stati i voti da noi chiesti sul calendario dei lavori del Senato - ci hanno risposto che sì, la prima cosa di cui l'Aula di Palazzo Madama si deve occupare è proprio quella delle intercettazioni. E che deve occuparsene non ricercando una soluzione equilibrata e convergente, tra maggioranza e opposizione, tra magistratura e avvocatura, tra libertà di stampa e tutela della privacy, ma spaccando il paese e l'opinione pubblica: una scelta irresponsabile, in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo.
Sul merito della questione intercettazioni, il Partito democratico ha sempre avuto un approccio aperto e costruttivo. Nel programma col quale ci siamo presentati alle elezioni politiche del 2008, veniva illustrata una posizione semplice e chiara: 1. Lo strumento delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche è essenziale per combattere la criminalità e va quindi assicurata alla magistratura la possibilità di ricorrervi in piena autonomia e responsabilità. 2. Deve essere vietata la pubblicazione delle intercettazioni fino a quando, nel processo, non diventano atti pubblici, per tutelare sia i diritti fondamentali dei cittadini, anche indagati, sia le stesse indagini. 3. La responsabilità della riservatezza non può tuttavia essere messa in capo ai giornalisti, che hanno la funzione opposta, quella di informare, ma ad un magistrato garante della custodia degli atti, che deve risponderne in sede sia penale che disciplinare.
La maggioranza di centrodestra ha voluto seguire una strada diversa, assai meno lineare, con gravi rischi sia di costituzionalità che di efficacia della norma. Innanzi tutto si è infilata nel ginepraio della distinzione delle fattispecie di reato per le quali è ammesso o invece non ammesso il ricorso alle intercettazioni, producendo norme sbagliate in via di principio e soprattutto inapplicabili sul piano pratico, se non al prezzo di mettere a rischio la lotta alla criminalità, mafie comprese: è riuscita così ad attirarsi le preoccupate dichiarazioni perfino del viceministro Usa della giustizia. Poi si è baldanzosamente immersa nelle sabbie mobili della limitazione della libertà di stampa, riuscendo nel miracolo di saldare in un fronte unico contro la legge tutti i direttori di quotidiani, da Padellaro fino a Belpietro, passando per Ezio Mauro e Vittorio Feltri, giustamente tutti preoccupati per questo inaudito attacco ad uno dei capisaldi della democrazia occidentale.. Infine, hanno annegato in una indistinta responsabilità generale il ruolo preciso e definito del magistrato garante della riservatezza delle intercettazioni, indebolendo così l'unica norma che avrebbe potuto effettivamente ridurre la pubblicazione illegale di atti riservati.
Insomma, se verrà approvato così, il testo della maggioranza risulterà intimidatorio sia per i magistrati che per i giornalisti e al tempo stesso inefficace, quasi una grida manzoniana, quanto a individuazione delle responsabilità della riservatezza degli atti istruttori. Davvero un capolavoro, contro il quale sentiamo il dovere di opporci con serena fermezza, cercando fino all'ultimo di modificarlo e di migliorarlo.