Sono giorni di forte tensione all’interno del PD. La minoranza è sempre più critica nei confronti del segretario-premier Matteo Renzi. Come si svilupperà il conflitto nel Pd? Ne parliamo con Giorgio Tonini, Vice Presidente del gruppo PD al Senato e membro della Segreteria Nazionale.
Senatore Tonini, lunedì scorso la direzione ha ratificato, con un voto “bulgaro” (o “nordcoreano”, veda Lei..), la linea del Premier Renzi sulla legge elettorale. Il prezzo però è pesante, il partito si è ancora una volta spaccato. Insomma dopo l’elezione di Mattarella è stato un crescendo di divisioni…Avanti di questo passo la scissione è dietro l’angolo. Non le sembra così?
La Bulgaria è da tempo un paese democratico, membro a pieno titolo dell’Unione europea. Quanto al paragone con la Corea del Nord, bisogna decidersi: o si dice che il Pd è un monolite, nel quale il dissenso è vietato, come a Pyongyang, o si dice che è un partito in preda alle divisioni interne. A me pare che non sia vera né l’una né l’altra caricatura. Il Pd è uno dei pochi, forse l’unico partito che possa definirsi democratico. Certo non possono definirsi democratici né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle. E neppure la Lega: ha visto come è stato licenziato Tosi? Il Pd invece, come avviene in ogni corpo democratico, ha una maggioranza che governa il partito e una minoranza, nella quale sono presenti diverse sfumature critiche. Tra maggioranza e minoranza, si dialoga e si polemizza, ci si confronta e ci si scontra. Poi, ad un certo punto, si vota. Così è avvenuto sulla riforma elettorale. Un primo testo, approvato alla Camera un anno fa, è stato oggetto di molte critiche da parte delle opposizioni in Parlamento e della minoranza del Pd. Sulla base di quelle critiche, il testo è stato profondamente rivisto al Senato. La minoranza del Pd propone ora nuove modifiche, peraltro non tutte ben identificate. Lunedì in direzione la maggioranza del partito ha invece condiviso l’opinione del segretario Renzi che il tempo della discussione è finito ed è arrivato il momento della decisione. Si può non essere d’accordo, ovviamente, ma dove starebbe la ferita alla democrazia? Sono due anni che il Parlamento si sta occupando di riforma elettorale. Nel 1993, per approvare la legge Mattarella, bastarono quattro mesi. Quanto alla scissione, non mi pare proprio che sia dietro l’angolo. Si può uscire da un partito, perché si verifica un dissenso su questioni di fondo. Onestamente non mi pare che si possa rompere il Pd sulla questione se sia preferibile eleggere la quota bloccata di deputati con l’uninominale di collegio, come dice la maggioranza, o col listino regionale, come propone la minoranza…
Civati parla di elettori in fuga, certo è che, per alcuni, il PD sta diventando stretto. La “ditta” che fine ha fatto? Non vede il rischio alle prossime regionali che si ripetano, in altre realtà, fenomeni come quello dell’ Emilia Romagna, ovvero di una astensione dal voto di molti elettori del PD?
Gli elettori vanno riconquistati ogni volta e dunque stiamo alla larga da ogni trionfalismo. Però, che si possa dire che sarebbe in atto una fuga di elettori dal Pd mi pare grottesco. Renzi ha ripreso, rilanciato e in gran parte attuato l’intuizione originaria di Veltroni, del Pd come partito “a vocazione maggioritaria”, ossia capace di rappresentare ampi strati della società italiana, ben al di là dei confini tradizionali della sinistra, che peraltro, di recente, ai tempi della “ditta”, si erano molto ristretti. Il risultato della svolta renziana è stato lo storico 41 per cento che ha proiettato il Pd alla posizione di partito più votato d’Europa. Alle ultime elezioni regionali si è verificato un calo della partecipazione al voto che ha assunto le dimensioni di un crollo. Il rischio che questa tendenza all’astensione si confermi alle prossime elezioni è molto alto e deve interrogare anche il Pd. Ma non è solo un problema del Pd, anzi è un problema che tocca il Pd un po’ meno degli altri, se è vero che il Pd le recenti regionali le ha vinte. Speriamo che alle prossime elezioni regionali si confermi lo stesso risultato, magari con una partecipazione al voto più larga. Perché questo succeda, penso che il Pd debba dare agli elettori il chiaro messaggio che si sta battendo con tutte le sue forze per le cambiamento del paese, sul piano della qualità della democrazia, su quello dell’efficienza economica e su quello della giustizia sociale.
Parliamo sempre di elezioni regionali. E’ una partita importante per il suo partito. Vi sono situazioni imbarazzanti, definiamole così, vedi la Liguria e la Campania. In Liguria c’è un vero e proprio disastro politico del PD: una “renziana”, supposta tale, Paita simbolo della vecchia “nomenklatura”, che si è imposta nelle primarie con l’aiuto di personaggi discussi del centrodestra, e in Campania avete un altro candidato molto controverso: De Luca. In Liguria il disastro è compiuto, infatti correrà anche un candidato “civatiano”. Come pensate di risolvere il “caso” DE Luca?
Io non penso affatto che le primarie in Liguria siano state un disastro politico. Sono state un confronto democratico vero, molto partecipato, che ha visto confrontarsi tra loro, in modo anche aspro, due personalità che certamente incarnano due linee politiche divergenti e modi diversi di pensare il Pd e la sinistra. Alcuni episodi controversi non hanno inficiato né l’esito né la qualità del voto. Ora la candidata, del Pd e dei suoi alleati, alla presidenza della Regione è Raffaella Paita, che non è affatto il simbolo della vecchia nomenclatura, è una donna giovane, un assessore uscente, con una buona esperienza amministrativa e una linea politica in sintonia con la “vocazione maggioritaria” di Renzi. Ho partecipato un mese fa ad una sorta di “Leopolda genovese” a sostegno della Paita e ho visto una grande e bella assemblea di popolo, alla quale hanno attivamente preso parte, come è giusto è bello che sia, anche molti che alle primarie avevano sostenuto Cofferati. Più complessa la situazione in Campania, dove le primarie hanno visto il confronto tra due esponenti storici come De Luca e Cozzolino. Non è una notizia, ma certamente un problema aperto, che nel Mezzogiorno la rivoluzione renziana stenta a farsi largo nei territori, più ancora che nel Centro-Nord.
Ogni giorno è un “rosario” di scandali di corruzione. Un buco nero insopportabile. E il PD è investito in pieno dalla questione morale. L’ultimo caso del Sindaco di Ischia è l’ennesima conferma di questo. E l’elenco è lungo. Non sarebbe il caso che Renzi, invece che martellare chi dissente da lui, cominciasse a prendere decisioni radicali? Insomma vi rendete conto, voi della segreteria, che c’è del marcio al vostro interno? Avete la percezione di quello che avviene alla “periferia dell’impero”?
La lotta alla corruzione è uno degli assi fondamentali dell’azione del governo Renzi e del nostro lavoro parlamentare. Ne sono prova l’attivismo del giudice Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione nominato dal governo Renzi, o la severità, per non dire la durezza, delle norme anticorruzione che sta introducendo il Parlamento con il ddl che proprio in questi giorni è all’esame del Senato: una vera e propria legislazione di emergenza, paragonabile a quella introdotta nel passato contro il terrorismo o la mafia. E se si vanno moltiplicando le inchieste contro piccoli e grandi corrotti e corruttori in giro per l’Italia, è anche perché la magistratura sa che dal Pd non solo non verrà opposto alcun ostacolo alla sua azione inquirente, ma le sarà offerta piena solidarietà e collaborazione. Poi c’è il tema, tutto politico, del rinnovamento del Pd sul territorio. Da molte parti la rivoluzione renziana non è mai arrivata, se non in forme gattopardesche. Ma non si può paventare l’uomo solo al comando e poi rimproverare a Renzi di non avere doti taumaturgiche…
Parliamo di Landini. Renzi lo ha definito un “soprammobile” da talk show. Uno scambio di “cortesie”… Certo è che Landini è un leader, sia pure con dei limiti. Eppure si fa portavoce di bisogni e delle aspettative che non dovrebbero essere estranei ai “democrat”… non trova eccessivo snobbare quel mondo?
Se per “quel mondo” si intende il mondo operaio, il Pd di Renzi alle europee si è affermato come il primo partito tra le tute blu: era solo il terzo un anno prima, ai tempi di Bersani, terzo dopo Grillo e Berlusconi. Del resto, il governo Renzi sta dispiegando una politica economica e sociale che ha posto al centro la crescita e il lavoro, come non aveva fatto nessun governo da decenni a questa parte. Se invece per quel mondo si intende la sinistra radicale, sindacale o politica, in tutto l’Occidente ha rapporti dialettici con la sinistra riformista. Il Pd è in Europa il primo partito del Pse ed ha stretto un rapporto profondo coi democratici americani. La sinistra antagonista è contro l’euro, considera Draghi un nemico del popolo e identifica i diritti dei lavoratori con le forme storiche concrete che essi hanno assunto nel secolo scorso. Mentre invece l’unico modo per dare futuro ai diritti è rinnovare profondamente gli istituti posti a loro presidio, a cominciare dallo Statuto dei lavoratori. Il voto operaio a favore del Pd, come le sconfitte della Fiom, in particolare ad opera della Fim-Cisl, in molte recenti vicende sindacali, sono la prova che il mondo del lavoro sta in larga maggioranza dalla parte dei riformisti e non da quella dell’antagonismo sociale o politico.
Veniamo al premier Renzi. L’ottimismo della volontà è sempre una cosa positiva, perché stimola ad operare. Ma c’è anche da fare i conti con una realtà dura. Gli ultimi dati Istat sono un richiamo. Infatti , la disoccupazione torna a salire (12,7%). A febbraio diminuisce il numero di occupati di 44 mila unità rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione è al 55,7%, in calo di 0,1 punti sul mese e in crescita di 0,2 punti sull’anno. Insomma troppo ottimismo?
Il governo e il Pd hanno sempre espresso grande fiducia sulle possibilità dell’Italia di uscire dalla crisi. Ma anche la consapevolezza che ciò sarà possibile solo se l’Italia riuscirà ad imprimere una significativa correzione di rotta alla linea di politica economica dell’Unione europea e se saprà mettere in campo le riforme necessarie a rendere il nostro paese più competitivo sui mercati internazionali, più attrattivo per gli investimenti, più giusto sul piano sociale. Su entrambi questi fronti, governo, maggioranza, Pd, stanno lavorando intensamente e si cominciano a vedere i primi frutti. In particolare i dati su crescita ed occupazione sono ancora ambigui: ci dicono che la fase dura della crisi è alle nostre spalle, ma anche che è ancora presto per dire che siamo in ripresa e, soprattutto, che hanno ricominciato a crescere i posti di lavoro. In un contesto come questo, la cosa più giusta da fare è continuare a battersi per il cambiamento e per un cambiamento che prenda forza subito, ora, adesso, senza perdere altro tempo, senza riportare il paese nella palude.
Ultima domanda: Lei, per compiti istituzionali, si occupa di politica estera. Qual è la percezione in Europa del PD?
Il Pd, il suo leader e il suo governo sono guardati come un elemento di speranza nel cambiamento: in Italia e in Europa. Tutti quelli che hanno a cuore la costruzione europea fanno il tifo perché Renzi ce la faccia. L’alternativa è avvitarsi in uno scenario da incubo, che potrebbe riportarci agli anni più bui del Novecento