Jan
15
2015
Il mio intervento a conclusione del dibattito in Aula sulla riforma della legge elettorale

Signora Presidente, signora Ministro, colleghi senatori, credo sia giusto ricordare in quest'Aula del Senato della Repubblica, alla fine di questo ampio dibattito sulla riforma elettorale, che un mese fa, il 17 dicembre 2014, alla veneranda età di 97 anni, ci ha lasciato Maurice Duverger, forse il più grande giurista e politologo francese del Novecento, certamente Oltralpe uno dei migliori conoscitori ed estimatori del nostro Paese, al punto da accettare, tra il 1989 e il 1994, la proposta dell'allora Partito Comunista Italiano, che stava diventando Partito Democratico della Sinistra, di rappresentare l'Italia al Parlamento europeo.

Nel 1988, Duverger aveva pubblicato un volumetto dal titolo provocatorio, «La nostalgie de l'impuissance», nel quale constatava preoccupato come l'Italia, dagli anni Cinquanta in poi, avesse rimpiazzato la Francia, nel frattempo approdata alla Quinta Repubblica, come capofila dell'Europa dell'impotenza politica - scriveva Duverger - definita dall'incapacità di decidere da parte dello Stato. L'instabilità vi contribuisce perché i Governi non dispongono del tempo necessario per portare a termine i loro progetti che i loro successori si affaticano a modificare senza potere condurli in porto neanche loro.

È passato più di un quarto di secolo da quando Duverger pubblicò quel libro e ancora oggi l'Italia appare in bilico fra l'Europa dell'impotenza, che fatichiamo tanto a lasciare, e quella della decisione, della quale vorremmo tanto, ma altrettanto esitiamo, entrare a far parte.

Hanno ragione quanti, anche nella interessantissima discussione che abbiamo tenuto in quest'Aula, ricordano le molte riforme elettorali e istituzionali approvate in questi anni, che hanno prodotto per lo più risultati modesti, talvolta deludenti. Tuttavia, questi colleghi - almeno questo è il mio modo di vedere - dimenticano quanto faticosa e contraddittoria sia stata la lunga storia dei tentativi di riforma del nostro sistema democratico, la maggiore parte dei quali, al contrario di quanto si è voluto sostenere da molte parti in quest'Aula, ha visto protagonisti i Governi, con le loro maggioranze parlamentari, certo, come è obbligatorio in un sistema parlamentare basato sul circuito fiduciario tra le Camere e il Governo, e in spirito di apertura e dialogo con le opposizioni, certo, tanto più necessario quando si tratta di porre mano a modifiche delle regole del gioco; ma, proprio per questo, con la necessaria, indispensabile regia politica dei Governi.

Il primo a tentare la via della riforma elettorale fu, nella I legislatura repubblicana, com'è noto, Alcide De Gasperi: è stato ricordato, perfino con qualche inedito rimpianto da parte di alcuni colleghi. Alla fine della I legislatura De Gasperi vide lucidamente la deriva verso la democrazia dell'impotenza lungo la quale la democrazia italiana stava muovendo e propose di introdurre nella legge elettorale proporzionale un premio di maggioranza per la coalizione che avesse raggiunto e superato il 50 per cento dei voti.

È stata ricordata quella vicenda della legge Scelba, ribattezzata polemicamente dalle opposizioni di allora "legge truffa", ma è stata ricordata solo in parte in questa nostra discussione, con un uso, per così dire, selettivo della memoria. Non si è, infatti, ricordato che quella proposta, che poi diventò legge, fu avanzata al Parlamento da un Governo, il Governo De Gasperi, che arrivò ad un punto al quale sarebbe per noi oggi impensabile e comunque escluso da tutti arrivare: De Gasperi pose sulla sua proposta di riforma elettorale la questione di fiducia. Come si fa a dire, signora Presidente, colleghi senatori, che nella storia della Repubblica, fino all'arrivo del Governo Renzi, la materia della riforma elettorale è stata sempre di esclusiva competenza parlamentare nella neutralità del Governo?

 

De Gasperi e la legge Scelba non fanno forse parte della storia della Repubblica? Si dirà che un'eccezione conferma la regola. No, signori: questa è la regola, non l'eccezione; è la regola in un sistema democratico che non voglia confondere il valore della centralità del Parlamento con il pericolo mortale dell'assemblearismo.

Com'è noto, nel 1953 De Gasperi vinse in Parlamento ma poi perse nel Paese. Il premio di maggioranza non scattò perché, per un pugno di voti, la coalizione attorno alla Democrazia Cristiana non raggiunse la maggioranza assoluta. Qualche anno dopo, nel 1970, nella voce «Forme di governo» dell'Enciclopedia del diritto, uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani, che è stato anche un nostro stimato collega, Leopoldo Elia, sosteneva che nella storia politica dell'Italia del Dopoguerra si deve distinguere quanto segue: «Tra un periodo 1948-1953 (o di parlamentarismo all'inglese) nel quale la leadership degasperiana risultava assai simile a quella accettata nel sistema britannico; e un periodo successivo nel quale il funzionamento delle istituzioni politiche si sarebbe avvicinato sempre di più ai moduli della Quarta Repubblica francese. Ma è chiaro che rispetto al periodo 1948-1953 quello successivo assai più lungo fa figura di regola in confronto all'eccezione e, soprattutto, riesce impossibile limitare l'instabilità governativa a fasi transitorie».

Insomma, dopo il fallimento del tentativo degasperiano di imprimere una peraltro contenuta torsione maggioritaria al nostro sistema parlamentare, l'Italia entra a pieno in quella che Duverger chiamava "l'Europa dell'impotenza" e, anzi, ne diviene capofila. Sarà solo dopo la rottura del 1989, con la caduta del Muro di Berlino e la definitiva soluzione della questione comunista, che risulterà possibile ritentare in modo credibile la via della riforma del sistema politico, a cominciare dalla legge elettorale. E di nuovo sarà un Governo, il Governo Ciampi, a svolgere un ruolo da protagonista. È il 6 maggio del 1993, quarant'anni dopo il tentativo di De Gasperi, quando Carlo Azeglio Ciampi presenta in Parlamento le sue dichiarazioni programmatiche.

«Il Governo» diceva il presidente Ciampi «si accinge a dare esecuzione agli indirizzi che sono stati espressi con i referendum popolari del 18 aprile. È questo il suo primo compito. L'indicazione referendaria inequivocabilmente chiara, la consapevolezza del danno per ogni aspetto della vita del Paese che deriverebbe dal non provvedere, consentono, impongono al Governo di uscire da quella che in altre stagioni politiche era intesa come una neutralità dovuta sulle questioni elettorali. Il Governo intende porsi, quindi, come parte attiva dell'attuazione della volontà popolare espressa il 18 aprile, conformemente all'alto indirizzo di politica costituzionale già espresso su questo punto dal Capo dello Stato. Il Governo si dichiara altresì disposto a formulare una proposta di modificazione delle leggi elettorali di Camera e Senato e si dichiara pronto a presentarla in tempi brevi, che concorderò con i Presidenti delle due Camere, in relazione allo stato dei lavori parlamentari».

Non credo servano ulteriori elementi per argomentare, non solo la legittimità del Governo a svolgere il suo naturale ruolo di indirizzo politico, anche nella materia elettorale, ma la natura di costante storica che questo principio riveste, se solo si considerano i passaggi salienti della nostra vicenda repubblicana. Piuttosto, quello che maggiormente impressiona è la sconcertante attualità delle parole del Presidente Ciampi, rilette alla luce delle sfide dinanzi alle quali si trovano oggi il Parlamento e il Paese.

Anche noi ci troviamo oggi, come 22 anni fa, dinanzi all'urgenza di intervenire sulla legge elettorale, anche se stavolta a seguito non di una pronuncia popolare, ma di una sentenza della Corte costituzionale. Dobbiamo intervenire tenendo ferme entrambe quelle fonti: l'indirizzo in senso maggioritario impresso dal referendum del 1993 e la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, senza dimenticare, per usare ancora le parole di Ciampi «l'alto indirizzo di politica istituzionale espresso dal Capo dello Stato», nel nostro caso Giorgio Napolitano, che anch'io voglio qui ringraziare e salutare come nuovo senatore di diritto e a vita. (Applausi dal Gruppo PD). È proprio quell'alto indirizzo alla base degli equilibri politici e di Governo sui quali, dopo il risultato elettorale del 2013, ha potuto prendere le mosse e cominciare ad operare questa legislatura.

L'accostamento tra la nostra attuale condizione politica e quella del 1993 rende inevitabile un interrogativo, più volte echeggiato in quest'Aula nel corso del dibattito. Se a 22 anni dal referendum e dalla riforma elettorale del 1993 l'Italia è ancora in bilico tra l'Europa dell'impotenza e quella della decisione, non sarà il caso di cambiare strada, anziché continuare a percorrere quella vecchia?

La nostra risposta è che non dobbiamo cambiare strada, ma certamente dobbiamo cambiare passo. Dopo due decenni di riforme parziali, nella continua tensione tra spinte contraddittorie che hanno perlopiù prodotto mediocri compromessi e nel dominio incontrastato della cattiva propaganda sulla buona politica, è venuto il tempo del completamento della transizione, attraverso un disegno organico di riforma democratica che abbracci la legge elettorale, insieme alla Parte II della Costituzione, senza trascurare il nodo decisivo della riforma dei partiti.

Questo è il disegno, questo è l'impegno che dà senso alla presente legislatura, che oggi si trova anche dinanzi alla sfida di individuare un successore degno dell'alta eredità lasciata da Napolitano.

Il disegno di una riforma complessiva delle regole fondamentali della nostra vita democratica potrà completarsi con successo, solo se vedrà l'impegno fattivo, imprescindibile del Governo, insieme ad uno spirito di apertura, innanzitutto da parte del Governo stesso, davvero a tutto campo, senza escludere nessun apporto in Parlamento. D'altra parte, questo spirito di apertura può concretizzarsi se tutti accettiamo la regola che, dopo la discussione e il confronto, deve arrivare il momento della decisione, che di norma non può essere unanime e non può che vedere il formarsi di maggioranze e minoranze.

La democrazia è autodisciplina, diceva De Gasperi; autodisciplina - banalizzo io - è anche capacità di autocontenere le forme di lotta parlamentare, evitando l'ostruzionismo estremo e ripetuto che finisce per uccidere il confronto, costringendo a misure regolamentari di drastica semplificazione della complessità, ed è anche autocontrollo sui toni che vengono utilizzati, evitando il ricorso facile alle accuse più estreme, sia sul terreno della dignità personale e politica sia su quello dell'affidabilità democratica.

Facendo tesoro del lavoro precedente, il Governo Renzi ha promosso un confronto parlamentare largo attorno ad una proposta organica di riforma della nostra democrazia parlamentare, volta a favorire il compimento della transizione del nostro sistema verso la democrazia decidente, verso l'Europa della decisione. Rispetto al disegno originario, il lavoro parlamentare sta mutando in profondità i contenuti delle riforme. È stato ed è così per la riforma costituzionale del bicameralismo e del Titolo V ed è così anche per la riforma elettorale. Gli emendamenti elaborati dalla presidente Finocchiaro e proposti dai Capigruppo di maggioranza e, almeno per un parte di essi, da Forza Italia rappresentano, a detta della stragrande maggioranza degli intervenuti in questo ampio dibattito, un significativo miglioramento del testo varato dalla Camera, sulla base anche di una più meditata considerazione della sentenza della Corte costituzionale, senza peraltro mettere in discussione il cuore della riforma elettorale che vogliamo: la garanzia, attraverso il doppio turno combinato con il superamento sul piano costituzionale del bicameralismo, della investitura diretta del Governo da parte degli elettori. Questo è il potere più importante; per dirla con uno studioso che è stato anche lui un nostro prestigioso collega, Gianfranco Pasquino: lo scettro regale della decisione del Governo viene restituito all'unico vero principe democratico che è il popolo sovrano.

In questo quadro, l'innalzamento al 40 per cento della soglia di accesso al premio al primo turno insieme alla riduzione al 3 per cento di quella di accesso alla rappresentanza parlamentare rappresentano cambiamenti di assoluta ragionevolezza che rendono il testo più maturo e più europeo.

La decisione di spostare il premio di maggioranza sulla lista e non più sulla coalizione mira a favorire il formarsi di eventuali coalizioni dopo il voto sulla base di vere convergenze politico-programmatiche attorno al partito vincitore, mentre la costituzione di listoni strumentali alla conquista del premio potrà e dovrà essere scoraggiata agendo sui Regolamenti parlamentari, attraverso norme di disincentivo alla frammentazione dei Gruppi.

Resta il nodo, con il quale concludo, della selezione dei deputati. Su questo punto il Partito Democratico ha maturato da tempo una posizione unitaria largamente condivisa (da tempo vuol dire molti anni): la netta preferibilità del collegio uninominale maggioritario, meglio se a doppio turno. Il Partito Democratico è unito su questo punto, ma è anche solo: lo si è visto alla Camera e lo si è rivisto al Senato; dunque è stato necessario cercare una soluzione diversa nell'ambito delle varie opzioni consentite dalla sentenza della Corte. Il testo della Camera aveva scelto la lista bloccata corta, legittimata dalla sentenza in quanto comunque in grado di garantire la conoscibilità dell'eletto da parte dell'elettore. L'emendamento dei Capigruppo propone invece la soluzione mista, pure esplicitamente prevista dalla sentenza della Corte: una parte di eletti con le preferenze e una parte col metodo della lista bloccata. Si tratta, come è evidente, di una soluzione di compromesso, peraltro risultata come tale largamente preferita dalla stragrande maggioranza degli intervenuti nel dibattito. Solo una piccola minoranza di interventi - mi pare - ha chiesto che tutti i deputati siano eletti con le preferenze; la maggior parte ha sostenuto la preferibilità del sistema misto.

Naturalmente, il sistema misto può essere organizzato in molti modi, che possono essere anche molto diversi tra loro, ma sempre accomunati da una caratteristica, quella di essere un compromesso tra diverse esigenze. E l'ultima cosa che ha senso fare in politica è porre in un compromesso questioni di principio insuperabili, come ho sentito fare da alcuni colleghi.

La soluzione proposta dall'emendamento presenta luci e ombre, come ogni proposta di compromesso. La luce principale è la riconoscibilità di chi viene eletto: limitando al solo capolista l'indicazione stampata sulla scheda, è evidente che ogni cittadino sa alla perfezione chi sta votando, quando vota per quel partito. La principale ombra, agli occhi di alcuni colleghi, è la mobilità del rapporto tra eletti con le preferenze e capilista, ma si tratta di una mobilità che riguarda peraltro solo le forze di minoranza, posto che il partito che vincerà le elezioni - e dunque si aggiudicherà il premio di maggioranza ed esprimerà il Governo ed il Presidente del Consiglio - eleggerà certamente più dei due terzi dei suoi deputati con le preferenze. Quanto alle forze di minoranza, non è possibile prevedere con certezza questa relazione, che sarà comunque inversamente proporzionale alla frammentazione dell'opposizione stessa. Con una o due grandi forze di opposizione, com'è auspicabile che sia, anche nel campo della minoranza una quota significativa di eletti sarebbe scelta con le preferenze. D'altra parte, anche le proposte alternative a quella dell'emendamento presentano inconvenienti non di poco conto, il principale dei quali è la rivincita della lista bloccata che, per quanto corta, è certamente assai meno trasparente per il cittadino elettore del meccanismo uninominale del capolista.

Su questi aspetti, la discussione non può non essere aperta e sarebbe incomprensibile qualunque chiusura aprioristica. Qualunque scelta si deciderà di fare, sarà comunque opinabile, da vivere in modo laico e non ideologico. Quel che conta è scegliere insieme, avendo presente la gerarchia dei valori in campo: da una parte, la necessità e l'urgenza di una riforma che dia risposta alla sentenza della Corte ed alle aspettative dei cittadini; dall'altra, l'innamoramento per questo o quel dettaglio. Molti colleghi hanno ricordato in modo giustamente allarmato i segnali gravi di disaffezione alla politica ed alle stesse elezioni che giungono da strati larghi e crescenti della società italiana. La risposta a questo grave malessere non può essere l'ennesimo rinvio e l'ennesima occasione mancata, che avrebbero il solo effetto di aggravare la sfiducia nella politica e di allargare la distanza tra i cittadini e le istituzioni. La risposta può essere solo nel compimento, adesso e ora, delle riforme

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