1. Hanno ragione i nostri amici della minoranza del Pd: c'è una continuità di fondo che lega tra loro gli ultimi tre governi che hanno retto il paese: il governo Monti, il governo Letta e il governo Renzi. Naturalmente il loro giudizio di valore su questa sostanziale continuità è opposto al nostro, ma la continuità c'è ed è profonda. Intendiamoci: ci sono anche diversità evidenti, perfino clamorose. Un anno fa, il governo Letta, che come quello Monti godeva del sostegno di tutto il Pdl e quindi dello stesso Berlusconi, era alle prese con il tentativo disperato di ridurre l'Imu sulla prima casa anche ai ceti più abbienti. Il governo Renzi è invece alle prese con la più spettacolare riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sull'impresa della storia d'Italia. Una differenza, verrebbe da dire un salto di qualità, non da poco. Del resto, un anno fa, il viceministro dell'economia si chiamava Stefano Fassina. Oggi si chiama Enrico Morando. E come è noto, Morando è sempre stato molto più a sinistra di Fassina...
2. Ma al di là di questi aspetti, pur importanti, la continuità tra i tre ultimi governi c'è ed è assai significativa. Potrebbe essere riassunta in due nomi propri, che nell'Italia di questi primi difficili decenni del secolo sono diventati sinonimi: Giorgio Napolitano ed Europa. Come i suoi predecessori, corrispondendo all'alto magistero civile del presidente della Repubblica, Renzi sta facendo il possibile e l'impossibile per salvare il più grande sogno collettivo che il Novecento ha lasciato in eredità al secolo presente: l'Europa unita. Un sogno che deve guardarsi dal preoccupante riemergere, dagli anfratti più bui e maleodoranti della storia, della peste nazionalista: un morbo devastante, che cento anni fa (1914) portò l'Europa stessa e il mondo alla tragedia di tre guerre mondiali.
3. L'ipotesi su cui si regge il tentativo di Renzi (e sulla quale si è fondato il semestre di presidenza italiana dell'Unione, segnato dalla elezione del nuovo Parlamento europeo e dal negoziato sui nuovi assetti delle istituzioni) è quella di un nuovo compromesso, dopo la crisi più grave dalla fine della guerra, tra Paesi mediterranei e Paesi nordici, tra cicale e formiche, secondo il cliché dei populisti del Nord, o tra lupi e agnelli, stando a quello del Sud: in definitiva tra Italia e Germania. Sulla base di questo nuovo compromesso, noi italiani garantiamo il più rigoroso rispetto degli impegni finanziari assunti sottoscrivendo il trattato di Maastricht o il Fiscal Compact e realizzando le riforme strutturali. Allo stesso tempo, i tedeschi consentono la messa in atto di politiche espansive federali europee, sia sul piano monetario, attraverso la Bce, sia su quello degli investimenti, attraverso misure come il Piano Juncker dei 300 miliardi di euro.
4. A tutt'oggi, questo nuovo compromesso, che pure si intravede alla base dell'accordo tra popolari e socialisti che ha portato al voto di fiducia alla nuova Commissione, stenta a prendere forma in modo compiuto. Con l'ovvia conseguenza che i risultati, in termini di misure anticicliche per la crescita e il lavoro, appaiono ancora parziali e in definitiva deludenti, come emerge anche dalle ripetute manifestazioni di impazienza, sia da parte del Quirinale, che di Palazzo Chigi. Il margine di flessibilità conquistato è minimo e tuttora sub iudice, così come insufficiente appare lo sforzo della Commissione sugli investimenti,
5. Questa situazione sta rendendo molto arduo il compito del governo Renzi, costretto a fare riforme, in sé sacrosante e anzi attese da anni (penso al Jobs Act oggi, figlio delle proposte a lungo ignorate di Pietro Ichino, o alla riforma previdenziale Fornero ieri, che ha un solo difetto, purtroppo non emendabile né in Parlamento né per via referendaria: essere arrivata molto più tardi di quanto sarebbe stato giusto e opportuno...), in un contesto di gravi difficoltà sul versante della finanza pubblica e di ancor più dura recessione su quello dell'economia reale. Con tutto ciò che questo significa in termini di conflitto sociale e politico.
6. E tuttavia, il rinnovamento del patto europeo resta l'unica via percorribile per riaprire all'Italia una prospettiva di crescita, di buona occupazione e di qualità sociale, in Europa e con l'Europa. Altrimenti c'è l'altra via, quella di abbandonare la nave europea, con tutte le sue indubbie, presenti difficoltà a tenere il mare, ma per gettarsi da soli, al buio, tra le onde. A favore di questa seconda via si stanno aggregando e schierando le molte opposizioni, politiche e sociali, al governo Renzi: al momento disarticolate e tuttavia attivamente impegnate a dar vita ad un fronte antiriformista e antieuropeista. Il si della Cgil al referendum della Lega sulla legge Fornero è emblematico di questa tendenza. Del resto, la flessione in atto nel consenso al Pd e al governo Renzi non sembra premiare la sinistra di Sel e neppure più il Movimento 5 stelle, ma proprio la Lega di Salvini, che ha sostituito il mito della Padania indipendente con il nazionalismo antieuropeo del Fronte nazionale della signore Le Pen. La sorda resistenza, tutta politica, al progetto del Pd di dar vita alla Casa comune dei riformisti, in nome del mito dell'unità delle sinistre, mito costitutivo della Cgil e speculare nella prima repubblica a quello dell'unità politica dei cattolici (miti crollati entrambi venticinque anni fa, insieme al muro di Berlino), sta così dando luogo ad delle più clamorose eterogenesi dei fini della storia della sinistra italiana. Sarebbe bene tornare a riflettere su questo nodo irrisolto: lo iato tra l'evoluzione del centrosinistra politico, grazie alla nascita dell'Ulivo prima e del Pd poi; e la sopravvivenza invece, nel movimento sindacale, dell'anacronistica frattura del 1947, quando la guerra fredda irruppe nella politica italiana, portando alla fine simultanea della collaborazione antifascista al governo e dell'unità sindacale.
7. Il contesto nel quale ci muoviamo è così difficile e i passaggi che abbiamo davanti a noi così delicati, che non possiamo permetterci di sbagliare e dobbiamo aiutare Matteo Renzi a non sbagliare. Dobbiamo riuscire a tenere insieme europeismo e riformismo, con un solido radicamento popolare, in nome di una prospettiva di cambiamento sociale. È stata la speranza che questa sintesi possa rivelarsi possibile, attorno alla leadership di Renzi, che ci ha consentito il gigantesco balzo nei consensi al Pd registrato alle elezioni europee. È singolare che ci sia chi arriccia il naso dinanzi a questo primo successo della vocazione maggioritaria del Pd, quasi esso potesse tradursi in un annacquamento della nostra identità, del nostro profilo di partito della sinistra europea. E non, come in effetti è, nel suo contrario, nella riconquistata capacità di rappresentare quel mondo del lavoro che si era allontanato dal centrosinistra, ai suoi occhi sempre più identificato con il partito della spesa pubblica e di chi ne trae in modo più diretto e immediato i maggiori benefici. Non a caso, eravamo nel 2013 solo il terzo partito tra gli operai, mentre è stato nel 2014 che siamo diventati il primo partito, tra gli operai come tra gli altri produttori. Questo significa essere Partito del Paese, una grande forza popolare e nazionale, democratica e riformista, alla quale gli italiani hanno affidato il compito di guidare il radicale cambiamento necessario ad uscire dalla crisi e ad allontanare lo spettro del declino. Abbiamo una grande responsabilità, non possiamo permetterci di fallire.