Tonini, qualche osservatore ha invocato per la riforma del lavoro a Renzi il coraggio di fare una “Badgodesber”, ovvero di rompere il tabù dell’articolo 18. La rottura nel PD ,avvenuta nella tarda serata di lunedì, durante la direzione può essere considerata una piccola Badgodesberg per il PD ?
In un certo senso si. Renzi ha proposto alla direzione del Pd un cambiamento profondo di cultura politica sulla questione delicata e decisiva delle tutele del lavoro; e la direzione ha risposto con un si largamente maggioritario. Un partito riformista di centrosinistra, qual è il Pd, non sarebbe tale se non si battesse per i diritti dei lavoratori: il diritto al lavoro, innanzi tutto; e poi il diritto nel lavoro. Il problema è che le forme concrete che questi diritti universali devono assumere non possono essere oggi le stesse di quasi mezzo secolo fa. Allora, negli anni sessanta, in un contesto di crescita economica impetuosa e di quasi piena occupazione, il modello produttivo che appariva vincente era la grande fabbrica fordista, nella quale si entrava da ragazzi e si usciva da pensionati. In quel contesto, i diritti dei lavoratori si identificavano con la loro tutela sul posto di lavoro. Oggi quel mondo non esiste quasi più e comunque non è il mondo del futuro, quello nel quale abiteranno i giovani, i nostri figli. Il loro mondo è caratterizzato da una lunga durata della vita lavorativa e da un inevitabile alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di ricerca o comunque di cambiamento di lavoro. Dunque, alla centralità della tutela sul posto di lavoro deve sostituirsi quella della tutela nel mercato del lavoro: offrendo più opportunità di essere assunti e in maniera stabile, un sostegno al reddito nei periodi di perdita del lavoro, strumenti di accompagnamento e ricollocazione in un nuovo lavoro, e in tutte queste fasi formazione, formazione, formazione. Il Jobs Act Renzi-Poletti si muove decisamente in questa direzione, la direzione di un nuovo patto virtuoso tra impresa e lavoro.
Veniamo al famoso editoriale del Corriere della Sera, firmato dal Direttore De Bortoli, in cui si criticava Renzi per la sua inconcludenza. Ma c’è un passaggio ,in quel pezzo, che ha colpito l’opinione pubblica: ovvero che il patto del nazareno ‘odora di massoneria “. Cos’è una battuta o vede altri scenari?
Mi ha molto colpito quel passaggio. Renzi ha risposto al direttore del Corriere, protestando di essere un boy scout e non un massone. Questo è quello che vedono e sanno tutti gli italiani. Se De Bortoli sa qualcosa di diverso, lo dica: è il suo dovere di giornalista. In nessun paese anglosassone sarebbe tollerabile che il direttore di un grande giornale facesse intendere ai suoi lettori di sapere qualcosa di compromettente a riguardo del capo del governo e di non volerlo dire loro con chiarezza e trasparenza.
La scorsa settimana Renzi non ha fatto altro che prendersela con i “poteri forti “. Francamente la cosa è ridicola, visto le frequentazioni renziane (marchionne e Altri). Che idea si è fatto di questo scontro?
Credo che si tratti in gran parte di un dibattito mediatico, con pochi riscontri nella realtà. Del resto, lo stesso Renzi ci ha riso su, dicendo che in Italia più che poteri forti ci sono pensieri deboli. Nei giorni scorsi, alcuni imprenditori, come Della Valle, hanno aspramente criticato Renzi. Altri, come Marchionne, lo hanno coperto di elogi. Per fortuna siamo un paese libero e nei paesi liberi le cose vanno così: il governo, qualunque governo, ha una parte del paese che lo sostiene e una che lo avversa. Al momento, il gradimento del premier, del suo governo e del suo partito sono molto alti. Vuol dire che sono molto alte le aspettative del paese su questa in gran parte nuova classe dirigente. Renzi sa molto bene e lo ripete continuamente che ha sulle spalle la responsabilità di non mandare deluse tutte queste aspettative.
Renzi ha aperto, su alcuni temi, al Sindacato. Resta però il un fastidio del Premier verso il Movimento sindacale. Insomma, francamente, non trova semplicistico (per non dire altro) tutto questo?
Anche in questo Renzi è un uomo della sua generazione, nata quando il sindacato aveva da tempo oltrepassato lo zenit del suo consenso e della sua influenza nel paese. La verità è che in questi anni il sindacato non ha saputo rinnovarsi, se non molto, troppo lentamente e parzialmente, e chi non si rinnova declina. Basti pensare a quelle tre sigle: Cgil, Cisl e Uil, sigle gloriose, ma figlie delle divisioni della guerra fredda, cioè di un mondo che semplicemente non esiste più. Perché debbano esserci ancora oggi tre grandi centrali confederali e non una sola, grande organizzazione, unitaria, autonoma e riformista, come ad esempio il Dgb tedesco, è una domanda alla quale è impossibile dare una risposta. Negli anni settanta il sindacato guidava il cambiamento, anche col suo percorso unitario, mentre oggi fatica a inseguirlo. Al punto che la politica è più avanti: con il Pd si è realizzata l’unità politica dei riformisti, sognata per decenni, mentre dell’unità sindacale si sono perse le tracce.
C’è un altro punto che colpisce: ovvero una certa inclinazione di Renzi verso la cultura imprenditoriale più che al primato del lavoratori. E’ così?
No, non è così. Renzi ha denunciato, in modo anche aspro e urticante, la crisi di rappresentatività e dunque di legittimazione, prima dei partiti politici e poi anche delle organizzazioni sociali ed economiche, dei sindacati come delle organizzazioni imprenditoriali. Poi, certamente, Renzi non crede alla cultura del conflitto di classe, tradizionalmente egemone nella cultura marxista in generale e comunista in particolare, ma si riconosce piuttosto in una versione moderna di quel filone cristiano-sociale, ma anche liberal-socialista, che valorizza un approccio cooperativo e partecipativo delle relazioni industriali: un filone per il quale l’imprenditore non è il nemico di classe, ma una risorsa imprescindibile per la crescita e lo sviluppo. Nel corso della direzione di lunedì scorso, Renato Soru ha tenuto un appassionato e assai applaudito intervento in questo senso, ricordando il discorso di Veltroni al Lingotto, che aveva aperto una fase nuova su questo punto decisivo. Queste nuove relazioni sindacali hanno bisogno di regole nuove della rappresentanza e della contrattazione, compresa una norma di legge sul salario minimo. Su questo, lunedì in direzione Renzi ha detto cose nuove e assi interessanti, quando ha annunciato che riaprirà la sala verde di Palazzo Chigi, ma non per riprendere lo stanco rituale della vecchia concertazione, bensì per concordare nuove regole che consentano di spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, l’unico nel quale si può apprezzare, incentivare e distribuire la produttività. Anche per questa via si rilanciano la crescita e l’occupazione.
Come sarà, secondo lei, il cammino del Job act?
Tutto è difficile e faticoso, in questo parlamento, segnato dal vizio d’origine della mancanza, almeno al Senato, di una chiara maggioranza uscita dalle urne. Ma entro l’anno il Jobs Act sarà legge. E ci saranno, nella legge di stabilità, risorse aggiuntive per i nuovi ammortizzatori sociali.
Cosa succederà alla minoranza del PD ?
Non credo si possa parlare di minoranza al singolare. C’è piuttosto un arcipelago di minoranze, alcune delle quali assai vicine alla linea politica del segretario, altre più inclini alla nostalgia per la vecchia “ditta rossa”, altre ancora molto affini, per contenuti e linguaggi, al piccolo mondo della sinistra critica. Tutte queste componenti devono avere ed hanno piena cittadinanza in un grande partito democratico a vocazione maggioritaria. Alla sola condizione che il pluralismo interno al partito sappia poi trasformarsi in unità nel voto in parlamento. Fu l’incapacità o l’impossibilità di fare questo passaggio che impedì, prima all’Ulivo e poi all’Unione, di dar vita a governi stabili e credibili. Ma chi fece cadere i governi Prodi, sia a sinistra che al centro, non è stato premiato dagli elettori.
Dopo questi mesi di governo, come definirebbe il “renzismo”?
Lo definirei come la consapevolezza della necessità ineludibile, per l’Italia e per l’Europa, di riforme profonde e coraggiose. A cominciare dal cambiamento radicale della politica: delle istituzioni, dei partiti e dei loro gruppi dirigenti, e soprattutto della cultura politica. E come il tentativo di fare le riforme con il popolo e non senza o magari contro il popolo.