1. Premessa
Il centrosinistra italiano non ha ancora elaborato, nell'ambito della sua cultura politica, una visione matura della leadership democratica. Questa è una delle principali ragioni del suo svantaggio competitivo rispetto al centrodestra, che dal 1994 si fonda sulla leadership "monarchica" di Silvio Berlusconi. Pesa, in questo ritardo, l'eredità delle culture politiche della prima Repubblica, fortemente condizionate dal cosiddetto "complesso del tiranno". Ma pesa anche la diffidenza nei confronti del berlusconismo, che propone una visione della leadership di stampo più populista che liberale. E tuttavia, elaborare e praticare una moderna cultura della leadership democratica, che in tutte le grandi democrazie europee si fonda sull'identificazione della premiership nella persona del leader della principale forza politica del paese, è essenziale per il centrosinistra italiano, se vuole tornare a vincere e se intende dar vita non all'ennesima esperienza di governo fragile ed effimera, ma ad un duraturo ciclo riformista, quale l'Italia non ha mai conosciuto e del quale ha un antico e ormai disperato bisogno. Allo stesso modo, è essenziale per il futuro del paese l'evoluzione liberale della leadership del centrodestra, oggi non solo stressante per gli equilibri democratici, ma anche incompatibile con qualunque incisivo programma riformatore. Il successo della duplice scommessa dei due partiti "a vocazione maggioritaria", Pd e Pdl, è dunque decisivo per dare all'Italia il bipolarismo maturo che non ha mai conosciuto.
2. La Costituzione e il complesso del tiranno
La nostra Repubblica è nata in un contesto politico-culturale fortemente condizionato dal "complesso del tiranno", ovvero dal timore di una nuova dittatura, o quanto meno di una insufficiente capacità della giovane democrazia italiana di resistere a nuove spinte autoritarie. Si spiega così l'evidente dualismo, all'interno della Costituzione, tra la parte programmatica e l'architettura delle istituzioni.
Il secondo comma dell'articolo 3 assegna alla Repubblica niente di meno che il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Ma non si capisce chi possa perseguire un obiettivo così ambizioso. Certo non il governo, posto che l'ordinamento della Repubblica prevede contrappesi più pesanti del peso: il presidente del consiglio è solo un primus inter pares nell'ambito del governo e, a differenza della maggior parte dei colleghi europei, non può neppure nominare e revocare i ministri, tanto meno sciogliere le camere; il bicameralismo è perfetto e il governo non dispone in Parlamento di alcun potere formale di agenda, se non quello che gli deriva dalla decretazione d'urgenza e dalla questione di fiducia, delle quali non a caso si fa da sempre largo uso ed abuso; il presidente della Repubblica dispone di poteri di controllo sul governo più incisivi di quelli previsti negli altri sistemi parlamentari europei, così come forti sono le altre istituzioni di garanzia, a cominciare dalla corte costituzionale e dalla magistratura, autonoma dall'esecutivo anche nella funzione inquirente, per non parlare delle magistrature amministrative e contabili; è previsto il referendum abrogativo delle leggi e quello confermativo per le modifiche costituzionali approvate dalla sola maggioranza; le regioni dispongono di un'assai ampia, e recentemente ampliata, potestà legislativa.
La contraddizione tra il carattere fortemente "democratico" della prima parte e quello marcatamente "liberale" della seconda ha una radice squisitamente politica: De Gasperi e Togliatti si incontrarono su una linea ambiziosa, quanto agli obiettivi programmatici della Repubblica nata dalla comune lotta di liberazione, ma anche su una non meno forte reciproca diffidenza, che li indusse a convergere nell'impedire per via costituzionale alla futura maggioranza politica di prendere nelle sue mani troppo potere.
Uno dei più autorevoli padri costituenti, Giuseppe Dossetti, così spiegava nel 1984, in una intervista a Elia e Scoppola, il paradosso della Costituzione italiana: "La preoccupazione maggiore di De Gasperi era il fatto che il Partito comunista potesse diventare maggioranza. Il carattere eccessivamente garantista della Costituzione è nato lì". Non dissimile era peraltro l'atteggiamento di Togliatti, in particolare dopo la rottura, nel maggio 1947, del governo di unità nazionale e la messa all'opposizione del Pci, che il "Migliore" sapeva essere di lunga durata: "si cumulano i due garantismi - dice Dossetti - e producono la seconda parte della Costituzione... tutti e due per eccesso di paura dell'altro". La paura fu alla base anche della scelta del sistema proporzionale, nella versione più pura tra i grandi paesi europei.
3. L'eccezione degasperiana e la regola del governo debole
E tuttavia, le elezioni del 18 aprile 1948 produssero un chiaro e forte assetto di governo, che consentì all'Italia, uscita annientata dalla guerra, una rapida ricostruzione e pose le basi per il più grande balzo di sviluppo e di modernizzazione della sua storia. Le elezioni consacrarono la leadership di De Gasperi, che assunse nelle sue mani sia la guida del partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, sia quella del governo. Fu la prima e l'ultima volta che questa fusione delle due dimensioni della leadership si verificò in Italia: a parte brevi parentesi con Fanfani e De Mita, si dovrà aspettare, per rivederla, la vittoria di Silvio Berlusconi nel 1994.
Come scriveva nel 1970 Leopoldo Elia, nella voce "Forme di governo" dell'Enciclopedia del diritto, nella storia politica dell'Italia del dopoguerra si deve distinguere "tra un periodo 1948-1953 (o di parlamentarismo all'inglese), nel quale la leadership degasperiana risultava assai simile a quella accettata nel sistema britannico; e un periodo successivo nel quale il funzionamento delle istituzioni politiche si sarebbe avvicinato sempre più ai moduli della Quarta Repubblica francese". Con l'uscita di scena di De Gasperi, che col suo prestigio personale compensava i limiti del sistema politico-istituzionale, l'instabilità dei governi e la debolezza della leadership di governo diventano la regola della politica italiana. La stessa Dc viene consegnata ad un destino di direzione collegiale, a sua volta fattore di debolezza nel rapporto di coalizione con i partiti minori.
Un esito che l'Italia ha pagato caro. Certo, i governi deboli hanno evitato una più dura contrapposizione tra comunisti e anti-comunisti, scongiurando all'Italia uno scenario tutt'altro che improbabile di guerra civile. Ma l'altra faccia di questa medaglia è stata l'impotenza del governo. Come scrive ancora Elia, "l'incapacità della Democrazia cristiana di conferire uno status degasperiano a chi ha tentato con maggiori o minori titoli di raccoglierne la successione" ha impedito "quella accumulazione di autorità personale che è indispensabile per governare con efficacia in uno Stato contemporaneo".
L'instabilità dei governi e la debolezza della leadership sono parse sopportabili per il paese fino alla fine degli anni Sessanta, cioè fino a quando l'Italia ha potuto avvalersi di due potenti fattori di competitività: il basso costo dell'energia e il basso costo del lavoro. Facendo leva su questi due punti di forza, il nostro Paese ha potuto realizzare il suo "miracolo". Ma con gli anni Settanta, entrambi questi fattori vengono meno: tra il 1969 e il 1973, le rivendicazioni operaie portano al raddoppio del costo del lavoro e la guerra del Kippur a moltiplicare per quattro il prezzo del petrolio.
Per continuare a crescere, il paese dovrebbe far fronte a questi nuovi problemi attraverso riforme profonde. Ma la società italiana, con la politica debole che la guida, decide di non affrontarne nessuno. I costi del rinvio vengono scaricati sulla collettività, sotto forma prima di inflazione a due cifre (1973-1984), poi di abnorme crescita del debito pubblico (1984-1992).
4. La crisi del 1992 e la nuova domanda di leadership
La patologica debolezza del "potere di indirizzo" della politica italiana, viene surrogata con un'altrettanto abnorme espansione del "potere di nomina" esercitato dai partiti. E' la cosiddetta "partitocrazia": l'altra faccia del sistema politico italiano a multipartitismo estremo, la faccia "prepotente", quanto a occupazione del potere, speculare a quella "impotente", quanto a efficacia del governo. E l'occupazione parassitaria del potere produce un vero e proprio saccheggio delle risorse pubbliche, vuoi per le politiche di tipo assistenziale e clientelare, vuoi per la vasta espansione della corruzione.
All'inizio degli anni Novanta, il sistema politico italiano giunge così al punto di rottura. Con la fine della "questione comunista", sono venute meno le ragioni geopolitiche che avevano per quasi mezzo secolo reso indispensabile e insostituibile la coalizione di maggioranza attorno alla Dc. D'altro canto, quella stessa coalizione, minata nella sua credibilità dall'emergere di un diffuso e ramificato sistema di corruzione, appare strutturalmente inadeguata a far fronte alla vera e propria crisi finanziaria dello Stato italiano. Una crisi accelerata dal Trattato di Maastricht che, con i suoi rigorosi parametri per l'ingresso nell'Unione monetaria, ha privato l'Italia, in via permanente e definitiva, dei due strumenti tradizionalmente utilizzati dai governi per non affrontare con le necessarie riforme i gravi problemi di competitività dell'economia italiana: la svalutazione della moneta e il deficit di bilancio. Una crisi che rischia di portare ad una rottura della stessa unità nazionale, con le aree forti del Paese che, attraverso la Lega Nord, cominciano a parlare esplicitamente di secessione, di indipendenza della "Padania".
La crisi viene affrontata con l'espediente emergenziale dei governi "tecnici", mentre la politica, grazie alla spinta referendaria, si riorganizza su basi bipolari, sostanzialmente seguendo la linea di frattura interna alla Dc e alla vecchia coalizione di maggioranza: moderati dc e socialisti craxiani, aperti all'apporto del Msi e successivamente della Lega da una parte, sinistra democristiana, mondo laico-azionista ed ex-comunisti dall'altra. Questo ultimo schieramento appare subito vincente nei rami bassi dello Stato (comuni e province), rivitalizzati dall'elezione diretta di sindaci e presidenti. Ma non riesce ad esprimere una leadership nazionale, al contrario del primo, che trova in Berlusconi il punto di sintesi vincente: tra settori dominanti del vecchio sistema politico e spinte antipolitiche, tra pulsioni secessioniste della Lega Nord e timori del Mezzogiorno per la tenuta dell'unità del paese.
E tuttavia, il primato di Berlusconi nella competizione nazionale si fonda su una curvatura populistica, plebiscitaria, mediatica della leadership, che si rivela ripetutamente inadeguata ad affrontare, con le riforme, i problemi strutturali del paese: in continuità con la Prima Repubblica, i governi continuano ad usare la spesa pubblica (e l'evasione fiscale) come strumento di consenso, sforando sistematicamente i parametri di Maastricht ed entrando in crisi quando sono costretti a fermarsi. Dall'altra parte, il centrosinistra, incapace di darsi una leadership "degasperiana" in grado di sostenere un vero programma riformista, si coalizza attorno all'antiberlusconismo, e ad un composto instabile di cultura del rigore finanziario e conservatorismo di sinistra, che produce risanamenti provvisori della finanza pubblica, perlopiù attraverso l'aumento della pressione fiscale, e una strutturale incapacità ad allargare le basi del proprio consenso nazionale oltre le regioni tradizionalmente "rosse" ed oltre le categorie direttamente dipendenti dalla spesa pubblica: pensionati, studenti, pubblico impiego.
5. Leadership democratica e bipolarismo maturo
Il paese esprime la propria insoddisfazione e delusione per la qualità scadente del nostro bipolarismo, prima punendo per quattro volte di seguito la maggioranza uscente, ora mediante un massiccio aumento dell'astensione. E tuttavia, una rimessa in discussione del bipolarismo, oltre a non essere auspicabile, per le ragioni qui esposte, non sembra neppure prevedibile, come dimostrano gli esiti deludenti di tutte le "terze forze". La strada obbligata resta quella di una evoluzione del bipolarismo, lungo la via tracciata dal Pd delle origini e salutata allora come una svolta positiva per tutto il paese: da un lato, il completamento delle riforme costituzionali nel segno della "democrazia decidente", attraverso un'attenta ricalibratura del sistema dei pesi e contrappesi, in modo da rafforzare il peso del governo e in particolare del primo ministro, e rimodulando al contempo i contrappesi, attraverso uno statuto dell'opposizione e delle funzioni di garanzia; dall'altro, una riorganizzazione dei poli attorno a due grandi partiti "a vocazione maggioritaria", organizzati al loro interno in forma limpidamente democratica, anche attraverso l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione e una legge elettorale che ripristini il radicamento territoriale dei parlamentari.
Solo per questa via il centrosinistra potrà darsi una leadership di stampo degasperiano, ovvero al contempo di partito e di governo, come nella regola del bipolarismo europeo, e il centrodestra riuscirà a superare la torsione populista della sua leadership, in senso compiutamente liberale. Solo per questa via il paese potrà prendere parte ad una competizione tra proposte di governo in grado di affrontare i nodi di fondo che hanno fatto dell'Italia il paese d'Europa che da quasi vent'anni, in barba all'articolo 3 della Costituzione, cresce di meno, ha il più alto grado di disuguaglianza e il più basso di mobilità sociale. Se il dibattito all'interno e tra i due partiti maggiori riuscirà a svilupparsi lungo queste direttrici, i tre anni che la legislatura ha davanti potrebbero non diventare l'ennesima occasione perduta.
Nel suo bell’intervento per “Il Foglio” di qualche giorno fa, Giorgio Tonini ci fornisce una brillante e lucida ricostruzione storica dei mali politici e ‘costituzionali’ della politica italiana, indicando le direttrici di fondo su cui deve muoversi una sincera ed efficace azione riformista. Il rafforzamento personalistico del potere esecutivo, bilanciato da contrappesi istituzionali di controllo, è uno dei cardini su cui si impernia quella necessaria svolta antiparlamentaristica che potrebbe finalmente liberare la democrazia italiana dalle pastoie che l’hanno condizionata tanto nel lungo cammino della Prima quanto nel breve e accidentato percorso della Seconda Repubblica. Tale svolta, essenzialmente configurabile in termini di riforme costituzionali, non può tuttavia realizzarsi effettivamente, sottolinea Tonini, se non si traduce anche in un cambiamento profondo di cultura politica : il centrodestra deve intraprendere una maturazione “liberale” della sua leadership – finora regressivamente monarchica e populista -, mentre il centrosinistra deve una volta per tutte tagliare i ponti con le diffidenze nostalgiche e conservatrici nei confronti della “democrazia decidente”, e abbracciare senza riserve il bipolarismo come paradigma strutturale di una leadership forte che per principio e non per accidente storico raccoglie nella stessa figura la guida del partito e quella del governo.
È un peccato vedere come una così brillante e penetrante lucidità ‘storica’ sul piano dell’analisi possa essere rallentata o addirittura nettamente contrastata, nella concreta azione politica, da scelte strategiche non pienamente rispondenti alle premesse e agli obiettivi del discorso, come – a mio avviso - è avvenuto in questi giorni precisamente in relazione a una questione di leadership. Perché infatti in questo campo modernizzazione in linea con le altre democrazie occidentali ci possa essere, non basta enfatizzare tale necessità senza accettare di pagare i costi di tale processo, innanzitutto quelli di un’alternanza spietata dei leader potenziali ed effettivi in seno all’organizzazione politica stessa. Nello schema bipolare di concentrazione del potere di partito e di governo nelle mani di un figura di riferimento, infatti, chi vince prende tutto (in una certa misura), ma chi perde se ne va e non torna più – senza poter contare in una seconda volta. Esattamente il contrario di quanto avveniva nella Prima Repubblica – caratterizzata da una classe dirigente di leggendari ‘Rieccolo’ -, ma anche di quanto avviene nel centrosinistra della Seconda Repubblica, desolante incubatore dall’autoperpetuazione di un casta di evergreen della politica che come i birilli del bowling si rialzano automaticamente ogni volta che vengono abbattuti - loquaci, petulanti, perdenti, dopo ogni sconfitta, come prima e peggio di prima, come se niente fosse avvenuto. Da D’Alema a Rutelli il catalogo dei bocciati che tornano a dare lezione e chiedere ed esercitare potere dalla loro cattedra è ampio e trasversale, e nessun osservatore minimamente imparziale potrebbe negare che l’esasperazione degli elettori verso questa resilienza parassitaria dei suoi leader nei confronti della sconfitta è uno dei fattori principali della disaffezione verso il centrosinistra e il Pd in particolare (nel frattempo Rutelli ne è uscito formalmente, ma resta sempre giocatore di area), un partito che proprio per questo, a soli tre anni dalla sua fondazione, è percepito come ‘vecchio’ e bisognoso di ‘rinnovamento’ (sic!).
Se non c’è ricambio della classe dirigente (ai livelli alti come a quelli bassi e intermedi) in funzione della volontà degli elettori, se non c’è capacità del partito di rispondere con un processo interno di alternanza di persone oltre che di proposta politica alle bocciature elettorali, il partito si cristallizza agli occhi dei cittadini come quella macchina oligarchica e autoreferenziale di perpetuazione dei privilegi di una casta politica inamovibile che non merita alcuna fiducia e non riesce sicuramente a produrre quell’investimento emozionale e ideale di consenso popolare intorno a una figura di riferimento che è il nucleo imprecindibile della costruzione carismatica di una forte leadership politica.
Se questa incapacità di ricambio è una delle piaghe egiziane del Pd (e una delle ragioni principali del suo insuccesso), tanto più grave è che la lezione dell’alternanza interna all’organizzazione in funzione della dinamica elettorale imposta dal bipolarismo sembri accantonata da chi, dentro di esso, del bipolarismo si fa strenuo difensore. Come si concilia, insomma, la rivendicazione del potenziale riformista di una leadership forte con la stanca riproposizione di una figura oggettivamente usurata come Veltroni, che ha avuto in mano il partito con un consenso di popolo praticamente illimitato e in poco tempo è riuscito a dilapidare gran parte del proprio capitale politico? Veltroni ha perso, anche per l’incoerenza profonda tra quello che predicava e quello che ha fatto (evitando in particolare di operare quei tagli dolorosi ma necessari che avrebbero reso reale la discontinuità di cui si faceva portabandiera). Che senso può avere oggi, da parte sua, riproporsi per un ruolo guida che gli precludono radicalmente tanto le idee di cui si dice esponente quanto le necessità concrete del partito, innanzitutto quella di ritrovare un feeling con il proprio elettorato, che ha massicciamente disertato le urne alle Regionali? Che senso può avere seguirlo e appoggiarlo in una battaglia che a questo punto diventa precipuamente personale?
È con grande delusione che ho letto della trasformazione della Scuola di politica in Democratica, con il passaggio di consegne della presidenza operativa da Salvati (che resta ‘presidente scientifico’) a Veltroni. Nessuna delle giustificazioni di questa rifondazione della fondazione mi è apparsa in linea con gli intenti dichiarati dei suoi promotori. Non convincente è l’argomento che il prestigio personale di Veltroni servirà a trovare finanziamenti di cui la Scuola ha disperatamente bisogno per sopravvivere: se Veltroni teneva davvero alla Scuola di politica, avrebbe potuto rendersi disponibile a trovare le risorse necessarie a prescindere dalla presidenza, e comunque forme alternative di finanziamento (a cominciare da quella di un azionariato diffuso di simpatizzanti) avrebbero potuto costituire dinamiche più interessanti, più trasparenti e democraticamente più efficaci di coinvolgimento popolare.
Il problema non è quello di darsi strumenti organizzativi (che possono anche essere definiti ‘correntizi’) per combattere la propria battaglia di idee dentro il Pd. Solo nel quadro di un partito ‘personalistico’ come quello di Berlusconi (che non è capo, ma ‘padrone’ del Pdl), le correnti possono essere di per sé caratterizzate come degerazione organica, come “metastasi”. Il problema è quando questi strumenti organizzativi, invece di arricchire e rafforzare il partito (articolandone la ricchezza ideale e culturale in un pluralismo che risponde alla complessità stessa del mondo attuale), lo impoveriscono e lo indeboliscono. Non rafforza il Pd fragilizzare Area Democratica (l’area non pienamente stabilizzata di che si riconosce nella mozione congressuale di Franceschini e quindi nelle due idee basiche di difesa del bipolarismo e delle primarie) aprendo dentro di essa qualcosa che rischia di diventare una vetrina ad personam per un ex leader che ritiene di aver ancora molto da dire. Non rafforza il Pd rinunciare a un’istituzione di grandi potenzialità come la Scuola di Politica, nel suo statuto super partes di serbatoio intellettuale e formativo per tutto il Pd che andava difeso fortemente contro il miope disinteresse dei vertici del partito.
Uno dei problemi del Pd è la frammentazione della sua cultura politica: dalla riforma elettorale a quella della giustizia, su molti temi centrali non c’è una piattaforma comune su cui si riconosca tutto il partito (è di pochi giorni fa la polemica intorno alla proposta del responsabile Pd per la giustizia, Orlando, che ha spaccato clamorosamente il partito). In questo quadro di grande divisione, è evidente come sia necessario al Pd darsi uno spazio efficace di costruzione di un tessuto culturale e ideale comune: la Scuola di politica poteva costituire l’area comune di mediazione in cui mettere in cantiere discussioni sui contenuti senza immediate ricadute in termini di divisione politica. Non potrà certamente svolgere lo stesso servizio (che è efficace solo nella trasparente garanzia di essere uno spazio che appartiene a tutti) se il `padrone di casa’ è un esponente di parte, con strategie e interessi politici propri. La Scuola di politica poteva e doveva essere la ‘casa’ degli intellettuali del Pd : un pensatoio libero e aperto in cui mettere alla prova modelli e dialogare per tessere un linguaggio condiviso, fornendo concorremente percorsi formativi – strumenti essenziali per la produzione di competenze e identità politiche – alle classi dirigenti del Pd, magari costruendo con i segretari regionali una rete locale di servizi formativi per i potenziali amministratori. Quanti dei molti intellettuali che avevano dato la propria disponibilità a collaborare alla Scuola di politica si sentiranno ora vincolati a seguire Veltroni dentro Democratica ? Quanti segretari regionali riconosceranno in Democratica quell’organo di servizio del partito per la formazione delle classi dirigenti locali, che è fondamentale per avere una massa critica di amministratori legati a un progetto comune?
Ridare prevalenza alle idee (come giustamente auspicato da Michele nella sua bella riflessione) è in questo senso direttamente funzionale alla costruzione di una forte leadership personale dentro il Pd, che passa inevitabilmente attraverso il coraggio del ricambio della classe dirigente: senza alternanza interna non si diventa alternativa politica esterna al servizio del Paese.
Dopo ogni batosta elettorale il Partito Democratico si (ri)trova a (ri)meditare sul suo futuro, ad interrogarsi sulla sua identità - forma, sui temi - problemi da affrontare, sulla intellighenzia che lo guida et similia. Come se dalla sua (seppur breve) storia non riuscisse mai ad imparare nulla, come se fosse sordo ai richiami illuminanti che provengono dai militanti, dagli iscritti, da alcuni amministratori – dirigenti, dai territori e dai risultati elettorali. Ciò è mortificante e frustrante. Ciclicamente si assiste alla richiesta di uno schema di partito federal - federalista per uscire dalla crisi che ci attanaglia. La panacea dei nostri mali sembra essere una maggiore indipendenza dal livello romano…si dice. Come se Bortolussi, per quanto riguarda il Veneto, fosse stato scelto dalla classe romana…dico io. E potrei continuare con l’elenco di scelte sciagurate in salsa federalista. Ma mi fermo qui. Per aprire e chiudere la parentesi su Bortolussi sostengo che era ed è una persona capace di governare il Veneto (batte Zaia dieci a zero) ma doveva essere designato almeno uno o due anni prima (impossibile visto che il PD praticamente non esisteva) in maniera tale da creargli attorno consenso, una cornice programmatica e partitica seria, credibile ed efficace. Ad un mese e mezzo dalla elezioni, quando ahimè chiara è la sconfitta, e dopo la solita Via Crucis decisionale è “azzardato” (partiticamente parlando) candidare una persona che non è iscritta e che non ha neppure intenzione di iscriversi al PD, che lo critica (giustamente o meno), che ha delle posizioni (opinabili o meno) su Galan, Visco, scudo fiscale et similia. L’ovvia conseguenza è stata quella di innestare ulteriore spaesamento tra coloro i quali avevano intenzione di votarci e soprattutto di rendere evidente, agli occhi di quelli che non ci avrebbero votato (ma che dovremo, prima o poi, conquistare), la nostra difficoltà a comprendere il Veneto e a farci comprendere dai Veneti. Siamo vittime dell’ingenuità di pensare che i “cittadini di destra” ci votino solo perché noi candidiamo “uno di destra” perdendo così pure i voti a sinistra. Scusate la brutalità. Questo per dire della capacità federale del partito di programmare con un minimo di anticipo mosse e strategie vincenti. È doveroso sottolineare che il PD da quando è nato è in continua fase congressuale quindi sono comprensibili le difficoltà organizzativo - gestionali che lo hanno attanagliato fino ad ora. È doveroso, tristemente doveroso, ammettere che qualunque fosse stato il candidato avremmo perso, con buona pace dei sostenitori di Laura Puppato (fenomeno da valorizzare ed apprezzare internamente ma da (ri)valutare con attenzione, esternamente, alla luce del pessimo risultato del PD di Montebelluna e del PD trevigiano nel suo complesso). Le soluzioni a questo quadro fosco passano senz’altro per la Forma e Sostanza che (nell’immediato) dovremo dare al PD. Per risollevare le nostre sorti basterà un leghismo declinato nel tanto anelato “Partito Democratico del Nord”? Un progetto del Nord è davvero indispensabile o equivale ad uno scimmiottamento del fenomeno Lega Nord anzi oramai Lega Centro – Nord? E soprattutto come possiamo significare l’ideologia del radicamento territoriale? Da quanto mi risulta il Partito Democratico ha più circoli territoriali della Lega, è ampiamente presente con i gazebo nelle piazze d’Italia ed i suoi rappresentanti di circolo, almeno nel Veneto Orientale, sono per la maggior parte giovani e sganciati da precedenti esperienze politiche. Allora in cosa siamo carenti? Sicuramente non siamo appetibili perché momentaneamente manchiamo di credibilità politica e programmatica. Critichiamo l’immoralità del centro destra e poi scoppiano i casi Marrazzo, Del Bono, Loriero, Bassolino et similia. Critichiamo il dirigismo del centro destra e poi candidiamo incandidabili, in deroga ai vari statuti, statutini, regolamenti, lacci e lacciuoli giuridici, slegati dal territorio, paracadutati dall’alto, al terzo, quarto, quinto mandato, calibrandone con il bilancino l’appartenenza all’area di Bersani, Franceschini, Veltroni, Marino, Letta, Bindi, D’Alema eccetera. Sfruttiamo quel poco di spazio giornalistico che ci lascia il centro destra per risolvere le nostre beghe interne, per dare anima alle ennesime fondazioni culturali o per il solito antiberlusconismo che oramai ha stancato anche gli antiberlusconiani doc. Dulcis in fundo siamo portatori di una fantastica dote ovvero quella di premiare sempre con il posticino giusto il trombato di turno. La disgrazia è che questo elenco di disgrazie non deriva da un mio sfogo personale ma è il pensiero unico dei tanti militanti che ancora credono nel Partito Democratico stanchi dei vari personalismi – clientelismi nonché delle guerre tra apparati. I militanti che diversamente hanno perso la speranza ora votano Grillo, IDV o peggio si astengono. Trovare la giusta via in questo marasma sembra impossibile. Ma è proprio quando si tocca il fondo che ci si riesce a risollevare. Certamente il federalismo partitico è una soluzione (parziale) ai nostri problemi; esso è legittimo e necessario se vogliamo calarci su un territorio in maniera adeguata, utilizzando gli strumenti più adatti per costruire proposte inerenti alle realtà con cui ci dobbiamo confrontare. Ogni regione, provincia, comune ha le sue indubbie peculiarità. Ma non dobbiamo cadere nell’errore di limitarci ad una visione locale pensando di poter essere indipendenti dal progetto nazionale. È certo che l’inconsistenza del PD nazionale ha recato danno alla formazioni locali nelle varie tornate elettorali ma è anche vero che deve esistere una linea comune, condivisa, chiara e compartecipata che ci veda tutti compatti nel declinarla poi in maniera federale a livello dei singoli territori. Dobbiamo tornare a trattare di temi, nudi e crudi, imponendo all’attenzione pubblica la nostra agenda, le nostre priorità incalzando il governo perentoriamente. Questo è lo scopo di un partito: ascoltare e tradurre le istanze dei cittadini in proposte attuabili, impostare un disegno per il futuro anticipando l’evoluzione sociale e politica del paese. E nel farlo non dobbiamo essere timidi o complicati. Una dote della Lega è la semplicità spiccia anzi bruta. Semplicità tout court che non ci appartiene preoccupati come siamo a passare sotto le forche caudine dei mille direttivi, delle mille burocrazie ridondati ed inutili, di un perbenismo intellettualoide che ci priva di argomenti di discussione. Semplicità che deve essere presente nei nostri organismi, nel linguaggio per darci un’efficace concretezza di cui oggi bisogniamo come non mai. Semplicità non significa depotenziare e dequalificare un’idea ma renderla immediatamente comprensibile in maniera tale che tutti si riconoscano in essa. Cosa che ora non avviene. Proveniamo da una storia romano - centrica ci vorrà del tempo prima di raggiungere la meta federalista. I circoli sono una risorsa fondamentale devono essere arricchiti e valorizzati affinché il loro ruolo di referenti, traduttori, gestori territoriali non sia sminuito a semplice periferia politica ma sia assurto a punto nodale della nostra azione politica. La Lega Nord per certi aspetti mi è misteriosa. Nonostante la sua contraddittorietà evidenziata per esempio dal voto romano favorevole al nucleare e contrario in Veneto, dal federalismo decantato da anni ma mai realizzato ed anzi nei fatti cassato (abolizione ICI, contrarietà al movimento dei sindaci per il 20% dell’irpef, salvataggio di comuni meridionali inefficienti, eccetera), dall’inazione sul versante sicurezza - immigrazione a parte le mitiche ronde padane e il taglio ai finanziamenti alle forze dell’ordine, dal sedere ben incollato sulla romana poltrona nonostante il motto “Roma Ladrona”, viene premiata dai cittadini. Perché? I problemi economici e sociali attuali dovrebbero vederci paradossalmente favoriti…siamo in piena crisi economica e noi dovremmo rappresentare la classe operaia, i lavoratori…ma il voto dice che queste categorie si identificano con la Lega. L’operaio e l’imprenditore insieme nella Lega perché? L’ubiquità leghista è scientifica, occupa tutti i livelli di potere dalla pro loco locale alla banca nazionale, dall’assemblea della scuola materna al consiglio d’amministrazione di società importanti. Ha l’intelligenza di trovare candidati trasversali e poliedrici ovvero provenienti dai più svariati ambiti professionali, culturali ed economici. Ricerca persone del e per il territorio, riconosciute - riconoscibili come uomini per e del popolo. Il Partito Democratico invece stenta sempre a fare chiarezza sul metodo di scelta e sulle candidature che spesso causano scontri laceranti con conseguenze negative sull’opinione pubblica. Gli strumenti regolamentativi e le primarie sono un elemento rilevante per l’equilibrio e la democrazia di un partito ma vanno usati scientemente senza trasformarli in boomerang politici. Zaia in una settimana nomina la giunta mentre per quella di Orsoni dobbiamo aspettare le calende greche mentre le cronache negative impazzano. Capite? C’è una gestione completamente diversa degli affari interni e non solo. Loro sono il partito del fare noi quello del disfare agli occhi dei cittadini. Credo sia poi utile chiedersi con quale tipologia di elettori abbiamo a che fare. Zaia non ha presentato alcun programma di governo a parte l’ingenuo motto “prima i veneti”, ha evitato accuratamente ogni confronto con gli altri candidati, da ministro dell’agricoltura non ha fatto nulla di rilevante, ha utilizzato i soldi pubblici per la campagna elettorale ma è stato trasmesso eroicamente su ogni tv - giornale nazionale, regionale, comunale non mancando ad alcun evento pubblico. Questo è l’unico elemento che ha fatto e fa la differenza tra noi e loro? Ai cittadini basta questo? La presenza di Zaia/Cota/Gobbo alla sagra della soppressa o del bollito? Se questo fosse vero significherebbe o che la maggior parte degli elettori non riesce a discernere la capacità e i veri meriti del politico dall’apparenza mediatica oppure che Zaia e compagnia sono davvero buoni amministratori. Sinceramente credo che il potere mediatico e l’onnipresenza dei suddetti leghisti giochi un peso rilevante nel conto elettorale ma ovviamente non possiamo ridurre tutto a questo. Essi hanno un bacino di amministratori qualificati e capaci, da cui attingere al momento elettorale, in grado di leggere le esigenze del territorio e gli umori delle persone. Operazione che dobbiamo attuare anche noi prelevando dai circoli, dalle amministrazioni e dalle scuole politiche gli elementi più promettenti facendoli maturare e crescere anche affiancandoli ai politici più navigati ed esperti. Lo scontro che si è accesso riguarda differenti modelli culturali, il nostro al momento è perdente o momentaneamente inesistente. La Lega si è politicamente imborghesita ma non ha perso il suo appeal, non è più un’effervescenza partitica estemporanea ora ha influenze direttamente su Roma per non parlare delle Regioni appena conquistate, Province e Comuni in cui amministra da tempo. È riuscita a creare una comunità in cui tutti si riconoscono, a cui tutti si ricollegano e si riferiscono. Raccoglie all’interno di una comune identità militanti, dirigenti e cittadini; diversi volti della stessa società veneta dal cattolico praticante, all’ateo devoto, dall’operaio disoccupato all’imprenditore in difficoltà, dal laureato a quello con la sola licenza elementare e così via. E tutti si sentono posti sullo stesso piano come parte attiva del progetto politico. La Lega Nord riesce ad essere partito di lotta e di governo senza perdere credibilità, è in grado di delegittimare la maggioranza di centro sinistra quando (la Lega Nord) si trova all’opposizione (per esempio a Meolo l’amministrazione Tallon è stata lentamente ma inesorabilmente logorata dalla tattica leghista di sparlare, di accusare spesso infondatamente ma così è riuscita a far breccia tra gli elettori fomentando problemi/inefficienze che non esistono) e a legittimarsi quando è maggioranza anche se da maggioranza usa spot e non azioni/proposte concrete per governare e risolvere i problemi. Il Partito Democratico deve ritrovare lo scopo, il senso della sua nascita, dei valori, delle finalità e radici che ha smarrito strada facendo, la svolta storica (si percepiva nel 2008 finalmente qualcosa di nuovo nel linguaggio, nella proposta e nel partito stesso, c\\\\\\\\\\\\\\\'era passione ed entusiasmo tra la gente ora tutto questo sembra sparito) che questo soggetto aveva paventato non c’è stata. Da qui la grandissima delusione. La sfida non è tanto e solo politica ma oramai è culturale. Viviamo in una società che è sinistra non di sinistra. Una società che non riconosco come mia che non coincide con i miei valori. Se penso a cos’era il Veneto trenta anni fa, quali erano le ricchezze solidali, sociali, intellettuali ed umane dei veneti in quella povertà ed a come è oggi mi scorre un brivido lungo la schiena. Certo i tempi sono cambiati come è giusto e normale che sia ma ritengo che l’ideologia dei “schei”, dei “paroni a casa nostra”, del magna, bevi e pseudogoverna e quella leghista nel lungo ma anche nel breve periodo ci danneggeranno pesantemente. Anche per questo è nostro dovere impegnarci affinché questo schema mentale cambi per aprire a nuove prospettive moderne questa regione, rimettendo al centro del dibattito temi come il lavoro, la scuola, la fiscalità, le infrastrutture e l’ambiente. Solo approfondendo questi argomenti metteremmo in difficoltà i nostri avversari evidenziandone i paradossi e le gravi incongruenze. Così potremmo finalmente emergere con un piano programmatico identificativo di noi e di ciò che vogliamo rappresentare adoperandoci affinché divenga strumento di radicamento e riconoscimento. Dobbiamo rinnovarci e per farlo dobbiamo innovarci. Ma l’innovazione non si matura con un semplice maquillage, deve essere una volontà che nasce dal di dentro e si esplica all’esterno con un cambiamento vero. Cancelliamo il solco che ci separa dalla nostra comunità mettendoci con umiltà al passo con essa e vedrete che raggiungeremo la meta.
È giunta l’ora di riscattare il Veneto. Facciamolo insieme.
Giampiero Piovesan, coordinatore Partito Democratico Meolo (VE)
pratica condivisa e incoraggiata dagli stessi "dirigenti"del PD, non solo locale. In queste condizioni la nascita di un leader forte e' compromessa alla base.Ho fiducia che una nuova generazione sappia superare questa impasse e dare al PD un leader forte,autorevole,popolare .
I cittadini chiedono al centro-sinistra una politica coraggiosa ed innovativa, una classe dirigente che non guardi solo all’interno di se stessa ripetendo vecchi schemi e reiterandosi. Gli elettori chiedono di avere qualche piccola certezza, per il lavoro, per il sociale, per l'ambiente.
Ma come creare nuovi posti di lavoro ed al contempo aumentare la competitività in linea così con le politiche europee? Occorre innovazione, ma per questo occorre dar luogo ad una rottura con quanto fatto finora. Occorrono quindi nuovi consiglieri coraggiosi e preparati, dismettendo quelli che finora hanno dimostrato di mancanza di visione e lungimiranza.
"La Vita" n. 14 l'11 aprile 2010.