Sep
16
2014
Un'Agenda 2020 per rimettere in moto l'Italia
Il mio articolo pubblicato su "Europa"
Il discorso sui mille giorni, che Matteo Renzi terrà oggi in Parlamento, è forse uno dei più attesi da quando il leader democratico ha assunto la carica di premier del paese. Le sue parole verranno scannerizzate una a una, sia dai cittadini-elettori e lavoratori-consumatori italiani, sia dalle istituzioni europee e dai mercati internazionali. In entrambe le platee, domina infatti una sorta di sospensione di giudizio, su Renzi e il suo governo: positivo sul posizionamento politico, chiaramente europeista e riformista, vigorosamente ed efficacemente contrario sia al populismo antieuropeo che al suo doppio, l'eurocrazia tecnocratica; addirittura entusiastico sull'energia che trasmette la giovane età del premier, tale almeno per gli standard italiani, abbinata alla sua attitudine assai più incline, si sarebbe detto nel secolo scorso, al decisionismo fanfaniano che alla mediazione morotea; molto meno benevolo è invece il giudizio, che si va diffondendo, sui risultati concreti dell'azione di governo, che indubbiamente non paiono (ancora) tradursi, non solo e non tanto in effetti misurabili sui principali indicatori macroeconomici, che restano inchiodati sul segno meno, ma almeno in una chiara Agenda 2020, del tipo di quella 2010 con la quale dieci anni fa Gerhard Schröder allontanò dalla Germania lo spettro del declino.

Quell'Agenda era concentrata, direbbero gli economisti, sul lato dell'offerta, assai più che su quello della domanda. E quindi: produttività del lavoro e produttività totale dei fattori, cioè efficienza della spesa pubblica. Sono esattamente le stesse due facce del ritardo italiano: è venuto il tempo di affrontarle entrambe. Del resto, il (finora) modesto impatto sull'andamento dell'economia, sia della misura degli 80, sia di quella sui debiti della pubblica amministrazione con le imprese, non dimostra affatto l'inutilità di misure di iniezione diretta di liquidità nel sistema: e infatti su questa strada di riduzione della pressione fiscale sull'impresa e sul lavoro bisognerà insistere, come bisognerà insistere su altre, fondamentali misure dal lato della domanda, come quelle annunciate da Draghi sul versante della politica monetaria, o il piano dei 300 miliardi di investimenti promesso da Juncker, per non dire di una pressione sulla Germania perché sposti il piede, sempre schiacciato sul freno, sul pedale dell'acceleratore della sua domanda interna. Quel (finora) modesto impatto sulla crescita, delle prime misure sulla domanda, ci dice però che le riforme strutturali, dal lato dell'offerta, sono ineludibili, proprio come lo erano, un decennio fa, per la Germania. E dunque, il nostro governo, i nostri gruppi parlamentari, in definitiva il nostro partito, sono attesi alla prova decisiva: avranno (avremo) il coraggio di affrontare la parete più impervia da scalare e la forza per riuscire nell'impresa?

Che la parete sia ripida, nessuno può metterlo in dubbio. Si tratta di aggredire nodi di fondo che rendono disfunzionale alla crescita la nostra spesa pubblica, scambiando con quella grande miniera di risorse umane che sono i dipendenti pubblici, riforme che innalzino decisamente la produttività della spesa pubblica, con miglioramenti della loro condizione di vita e di lavoro. Renzi ha cominciato a muoversi in questa direzione, interloquendo con la scuola: io mi impegno ad assumere i precari e a chiudere per sempre col precariato scolastico, ha detto in sostanza agli insegnanti, in cambio voi collaborate col governo ad una riforma della carriera docente, finalmente basata sul merito e non più sugli automatismi. Questa logica va estesa a tutti i settori del pubblico impiego. Comprese le forze dell'ordine: agenti meglio pagati ed equipaggiati, ma in cambio di una vera, drastica razionalizzazione degli attuali, insostenibili, molteplici corpi in competizione tra loro...

L'altro tratto in parete è quello che riguarda il mercato del lavoro, oggi organizzato sulla base di una logica vecchia, quella che identifica la tutela del lavoratore con la difesa del suo posto di lavoro, anziché con la promozione della sua competitività sul mercato del lavoro, insieme naturalmente alla necessaria sicurezza del reddito: una arretratezza che ha contribuito non poco, in questi anni, a tenere bassa sia la produttività che i salari e ad alimentare la spirale recessiva e regressiva, dalla quale il nostro sistema produttivo deve uscire alla svelta, se vogliamo tornare a crescere.

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