Si profila per il Premier Matteo Renzi una ripresa dell’attività di governo
molto difficile. I dati economici non scherzano: siamo in piena stagnazione.
Come si svilupperà l’azione di governo? Ne parliamo con Giorgio Tonini,
vicepresidente del gruppo PD al Senato.
Senatore Tonini, “archiviata” la riforma del Senato, una riforma molto
discussa e, per qualcuno, con molti limiti, ora per il Premier incominciano
le sfide che toccano il vissuto concreto degli italiani, ovvero le riforme
economiche e quelle del lavoro. Le chiedo: non si è perso tempo a discutere,
in alcuni frangenti male, di una riforma che porterà beneficio, se li porterà,
solo tra qualche tempo, mentre la crisi morde sempre di più? Insomma non
ha avuto la sensazione che la riforma sia stata usata come arma mediatica di
distrazione nei confronti di problemi urgenti?
Assolutamente no. La discussione, inevitabilmente anche molto tecnica, sulle
riforme costituzionali, non ha alcun potere di distrazione di massa dai problemi
economici, che mordono sulla carne viva delle persone, delle famiglie e delle
imprese. La verità è che, per un verso, non è affatto vero che governo e
parlamento, in questi mesi, si siano occupati solo, o anche principalmente, di
riforme costituzionali. Le camere sono state letteralmente intasate di provvedimenti
sull’economia: dal decreto sugli 80 euro, a quello sui contratti a termine; dal
decreto sulla competitività, a quello su cultura e turismo, fino a quello sulla pubblica
amministrazione; e a settembre sono già programmate la discussione sulla delega
in materia di lavoro, quella sulla giustizia e quella sulle opere pubbliche. Detto
questo, e fermo restando che sarà la legge di stabilità il vero esame di maturità per
Renzi e i suoi ministri, il governo ha fatto non bene, ma benissimo ad impegnarsi
a fondo anche sulla riforma costituzionale, come su quella elettorale. Perché
solo l’Italia abbina ad una grave e ormai endemica crisi economica e sociale,
un’altrettanto cronica crisi politica e istituzionale: solo noi, in piena crisi, abbiamo
cambiato quattro governi, quattro premier e quattro ministri dell’economia in tre
anni. Nessun altro paese europeo si è trovato in una condizione di instabilità,
anzi di vera e propria precarietà, politica e istituzionale, come la nostra. Solo
la presidenza della Repubblica, grazie alla generosità e all’autorevolezza di un
galantuomo di quasi novant’anni, ha garantito la continuità istituzionale. Dunque
la riforma elettorale e quella costituzionale, con il superamento del bicameralismo,
sono un’emergenza nazionale, non un passatempo estivo. E l’impegno diretto del
governo è stato una necessità, dopo il fallimento dello schema adottato alla fine
della scorsa legislatura: al governo tecnico (Monti) le riforme economiche, alle forze
politiche in parlamento quelle istituzionali. Il risultato fu, com’è noto, l’ennesimo
nulla di fatto sulle riforme elettorali e costituzionali. Senza l’impegno diretto del
governo, che peraltro non ha impedito modifiche e miglioramenti del testo, il Senato
non avrebbe mai votato la sua autoriforma, come hanno dimostrato il duro e cieco
ostruzionismo delle molte opposizioni trasversali e l’uso strumentale di improbabili
allarmi contro la presunta deriva autoritaria.
Veniamo alle sfide: il ciclo economico segna il meno su molti indicatori
economici: dalla crescita alle entrate fiscali. Mentre segna il più sulla
disoccupazione giovanile. Un quadro pesante. Eppure il nostro premier è
ottimista, ma L’Europa lo è di meno di lui. Senatore Tonini, dove trae Renzi
tutto il suo ottimismo?
Chi governa ha il dovere di essere ottimista, di vedere sempre il bicchiere mezzo
pieno, di fare appello alle comunque ingenti risorse materiali e immateriali di cui
l’Italia dispone e che possono consentirle di riprendere il cammino dello sviluppo. In
questo senso, l’ottimismo è anche un richiamo alla responsabilità, a non aspettare
aiuti esterni, a rimboccarsi le maniche e a fare leva sulle nostre possibilità. Ma c’è,
ovviamente, molto di più. C’è in Renzi una forte e in un certo senso inedita
consapevolezza della radice comune delle difficoltà che incontrano tutti i paesi
europei a mettere in campo strategie di uscita dalla crisi e di ripresa della crescita e
dell’occupazione. L’accostamento simbolico del nostro -0,2 per cento al -0,2
tedesco, negli ultimi dati trimestrali sull’andamento del PIL, sta lì a dimostrare che
nessuno può farcela da solo, neppure la Germania; che tutti devono fare i compiti a
casa, noi col nostro debito, la Francia col suo deficit, la Germania col suo surplus;
e che senza una leva federale, un piano di massicci investimenti europei che
ricreino una forte domanda interna, l’andamento dell’economia europea finirà per
divergere in modo preoccupante, non solo da quello dei paesi emergenti, ma
perfino da quello degli Usa. Semmai, se una critica si può fare a Renzi e al
governo, è quella di aver sprecato troppo tempo e troppe energie in una inutile
polemica con la Germania sui margini di flessibilità consentiti dai trattati, una
questione intrinsecamente intergovernativa dalla quale ci si può attendere ben
poco, al massimo qualche decimale di punto di sforamento sul deficit, e di aver
lasciato sullo sfondo, almeno della comunicazione pubblica, la questione decisiva,
tutta comunitaria e federale, di come “cambiare verso” alla politica economica
europea, facendo come gli americani: applicare agli stati nazionali nel modo più
severo la regola del pareggio di bilancio e della riduzione del debito, insieme alle
relative riforme strutturali sul versante dell’offerta, ma rendere tutto questo
sostenibile, attraverso l’utilizzo della forza dell’euro (in analogia con quanto fanno
gli Usa col dollaro) per mobilitare capitali da utilizzare per il finanziamento di un
vero e proprio New Deal europeo, centinaia di miliardi di euro per finanziare
infrastrutture, riqualificazione del territorio, dell’ambiente e del patrimonio edilizio,
ricerca e sviluppo, formazione superiore, cooperazione militare… tutti investimenti
gestiti direttamente da un’autorità federale europea. Vorrei che non perdessimo la
formidabile occasione rappresentata dal semestre di presidenza italiana
dell’Unione, un semestre che coincide con quello di avvio della nuova commissione
e del nuovo parlamento, per imporre questa nuova agenda: capacità di bilancio
dell’Eurozona e grande piano di investimenti, da finanziare attraverso la Bei, la
garanzia della Bce e i project-bond. Il piano Juncker dei 300 miliardi va in questa
direzione, come pure le ipotesi avanzate da Draghi sulla concertazione comunitaria
delle riforme. I francesi condividono questa strategia e i tedeschi non possono più
dire di no. Con Renzi l’Italia può dare un apporto decisivo a questa svolta storica:
per l’Europa e non solo per l’Italia.
La maggioranza è attraversata da una disputa stucchevole, “teologica” ha
detto, con qualche ironia, Pierre Carniti, sull’articolo 18. Alfano e Sacconi
vogliono abolirlo, Renzi apre ma nel quadro di Riforme più ampie. Anche
queste sono “nubi” sul cammino del governo. Renzi andrà allo scontro con il
Sindacato, oppure troverà il modo di coinvolgere il movimento Sindacale?
Mi pare che Renzi abbia detto con chiarezza una cosa molto importante: il
governo, insieme al parlamento, è impegnato a riscrivere non un articolo, ma
l’intero Statuto dei lavoratori, per adeguarlo ad una realtà del mondo del lavoro che
davvero molto poco ha in comune con quello degli anni Sessanta e Settanta del
secolo scorso. Renzi non era ancora nato, lei ed io eravamo bambini, l’Italia era in
pieno boom economico e demografico, una generazione di giovani figli di contadini
aveva riempito di sé, della sua prorompente voglia di crescita economica e di
riscatto sociale, le grandi fabbriche del Nord del paese. Era scesa in campo una
grande forza di cambiamento, che chiedeva per sé non solo la sua parte di reddito
prodotto, ma una carta di diritti per una cittadinanza piena, nella fabbrica e nella
società. Accanto ai giovani operai, c’erano i giovani studenti, anche loro la prima
generazione che poteva studiare, invece di andare a morire in guerra. Studenti e
operai insieme, attraversati dall’altro grande movimento, quello di emancipazione
delle donne, hanno dato vita in quegli anni a quella che Aldo Moro, con sincera
ammirazione, definì “la stagione dei diritti”, ammonendo peraltro che essa avrebbe
finito per dimostrarsi effimera, se non fosse nato in Italia “un nuovo senso del
dovere”, un nuovo sistema di regole, basato su un nuovo patto sociale, per la
crescita, il lavoro, la cittadinanza. Del resto, già pochi anni dopo l’approvazione
dello Statuto dei lavoratori (1970), l’Italia era entrata in crisi, a causa dello shock
petrolifero e poi dell’inflazione a due cifre, espressione di una fragilità di fondo del
nostro sistema produttivo e della struttura stessa dello Stato e della spesa
pubblica, che non permettevano una crescita sana e solida, una volta usciti dal
regime dei bassi salari e del basso costo dell’energia. Proprio Pierre Carniti fu
protagonista, trent’anni fa, di quel patto contro l’inflazione, contro quell’idra a sette
teste che stava divorando salari e pensioni e stava mettendo in discussione le
conquiste economiche e sociali di un’intera generazione. Grazie a quel patto,
l’inflazione fu domata, ma le cause strutturali della fragilità italiana non furono
affrontate dalla politica con una compiuta strategia riformista e la febbre riemerse
sotto forma di deficit e poi debito pubblico. E quando con l’ingresso nell’euro non
abbiamo più potuto fare né inflazione né deficit, si è fermata la crescita. Da questa
spirale usciremo solo con politiche europee adeguate sul lato della domanda, come
abbiamo detto, ma anche solo se e quando ci decideremo a fare le famose riforme
sul lato dell’offerta. A cominciare da quella del lavoro, che in sintesi si riassume in
un punto fondamentale: dobbiamo passare dalla centralità della tutela statica del
lavoratore sul posto di lavoro, alla centralità di una nuova, dinamica tutela del
lavoratore nel mercato del lavoro. La vecchia tutela, quella solo e soltanto sul posto
di lavoro, si è tradotta nell’attuale, insostenibile regime di bassa produttività e bassi
salari. Da questo assurdo scambio tutto in perdita per tutti dobbiamo uscire con un
nuovo scambio, che ci dia alta produttività e alti salari, in un contesto di piena e
buona occupazione. Anche assecondando quella schumpeteriana “distruzione
creativa” di posti di lavoro che è l’unica via per accrescere la produttività, mettendo
in campo al contempo una nuova generazione di diritti e di tutele, per una nuova
generazione di lavoratori. Il primo diritto, il diritto basilare e fondamentale, in questa
nuova prospettiva, non è più la cosiddetta “job property”, l’idea che il lavoratore è
proprietario del “suo” posto di lavoro, una proprietà che quando l’azienda va in crisi
finisce per assomigliare tragicamente alle catene che nell’antica Roma legavano il
destino dei rematori alla loro galera, ma il diritto a restare competitivo sul mercato
del lavoro, attraverso la formazione permanente e ricorrente e a strumenti di
accompagnamento, nella certezza del reddito, garantita da nuovi ammortizzatori
sociali, da un lavoro che finisce verso un nuovo lavoro che può crearsi. Questo è il
cuore del nuovo Statuto, che può e deve segnare il definitivo superamento
dell’attuale dualismo tra lavoratori iperprotetti (peraltro in rapido declino) e la
crescente massa di lavoratori iperprecari, ai limiti della schiavitù, in favore di un
sistema di regole e diritti universali, sintetico e chiaro, “traducibile in inglese”, come
dice Pietro Ichino, perché pensato in chiave europea e rivolto anche agli investitori
esteri, che devono poter scegliere di venire in Italia anche per la semplicità e la
modernità del suo codice di diritto del lavoro. È in questo contesto più ampio che il
dibattito sull’articolo 18 esce dallo stanco rituale simbolico, “teologico” appunto, che
oppone i difensori di totem agli abbattitori di tabù, e si colloca in uno scenario
riformatore più ampio e innovativo.
Veniamo al quadro politico: Renzi dice no all’aiuto, questo si mortale per lui,
di Berlusconi sulla frontiera del governo. Reggerà?
Questa legislatura si è aperta con la “non-vittoria” del Pd di Bersani, l’impossibilità
di dar vita ad una collaborazione con il M5S e l’accordo obbligato con il
centrodestra e il suo leader, Silvio Berlusconi, prima per eleggere il presidente della
Repubblica e poi per dar vita ad un governo per le riforme elettorali e costituzionali,
che necessariamente si dotasse anche, attraverso un non facile compromesso tra
forze tra loro politicamente alternative, dei programmi idonei ad affrontare le gravi
difficoltà economiche e sociali del paese. Il governo di Enrico Letta ha impostato
questo lavoro comune tra il Pd e l’allora Pdl, con l’apporto delle formazioni centriste
che avevano sostenuto la leadership di Mario Monti, anche sulla base di una
clausola del tutto esplicita di separazione tra la vicenda giudiziaria di Berlusconi
e la vita del governo di larghe intese. La clausola di separazione non ha tuttavia
retto alla prova dei fatti. La condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione per
frode fiscale e la conseguente sua decadenza da senatore, sancita da un voto
dell’assemblea di Palazzo Madama, hanno fatto saltare l’accordo di governo.
Berlusconi è uscito dalla maggioranza e il governo ha potuto continuare il suo
lavoro, solo grazie alla scissione consumatasi nel Pdl, con la rinascita di Forza
Italia e la fondazione del Nuovo centrodestra. Era chiaro tuttavia che il destino
del governo Letta era segnato e con esso la sorte della legislatura, che poteva al
più riuscire ad approvare una nuova legge elettorale per poi riportare il paese alle
urne. È in questo scenario che si inserisce il patto del Nazareno, il vero capolavoro
politico di Matteo Renzi, che è riuscito a riportare Berlusconi al tavolo delle riforme,
senza modificare la composizione della maggioranza di governo e, come hanno
dimostrato i risultati delle europee, senza pagare alcun prezzo elettorale, anzi
semmai ottenendone un consistente vantaggio per il Pd, che col nuovo leader
e la sua strategia di movimento, ha conquistato una inedita centralità politica ed
elettorale. Ora Berlusconi è tornato ad offrire il suo sostegno anche sul versante
dell’azione di governo, in particolare nel campo economico e sociale. Penso che
il Pd e il governo, tanto più in un passaggio così difficile come quello che stiamo
attraversando, debbano accogliere in modo aperto e positivo tutte le manifestazioni
di disponibilità al confronto costruttivo che vengano dalle opposizioni. Non credo
invece che sia all’ordine del giorno, neppure da parte di Forza Italia, una rimessa in
discussione degli equilibri di governo.
Ultima domanda. Parliamo della Comunicazione del Premier. “Dal tacchino
ai gufi e agli avvoltoi lo zoo politico s’è fatto cupo”, è il titolo di un articolo
firmato, qualche giorno fa, da Jacopo Iacoboni sulla Stampa.
“Il premier si sta cucendo addosso un immaginario fatto di animali cupi
(i gufi), per non dire palesemente profittatori (gli sciacalli e gli avvoltoi),
o iettatori, gli «uccellacci del malaugurio». È una visione del mondo che
Renzi addebita a chi lo critica, non a sé, ma gli finisce appiccicata addosso,
ci pensi; rischia di essere dal punto di vista della comunicazione un
purissimo autogol, la sensazione di qualcosa di buio, e di una lingua troppo
aggressiva”. Non è venuto, per lui, il tempo del realismo e dell’umiltà?
Il realismo, a Renzi, non è mai mancato, è anzi una sua spiccata virtù. Quanto
all’umiltà, mi pare che la pratichi nei fatti, pur senza professarla troppo nelle parole.
Il resto, mi pare siano più o meno gradevoli dibattiti estetico-estivi.