L'apertura da parte del Movimento Cinque Stelle ad un confronto con il Partito democratico sulla riforma elettorale èuna gran bella notizia. Il secondo gruppo parlamentare della Camera e il terzo gruppo del Senato hanno deciso di uscire dal loro orgoglioso e sterile isolamento e di portare al confronto sulle regole il loro contributo di idee e di proposte. Penso si tratti di un altro, positivo effetto collaterale della vittoria del Pd alle elezioni europee: contro ogni previsione, il riformismo concreto di Matteo Renzi ha raccolto il doppio dei voti dell'estremismo sterile di Beppe Grillo. Tra gli stessi parlamentari di Cinque Stelle e perfino tra i due leader massimi, Grillo e Casaleggio, è così cominciato a serpeggiare il dubbio che la via fin qui seguita dal movimento possa rivelarsi una strada senza uscita. Dunque, meglio mettere sul tavolo una proposta, che continuare nella sola protesta.
A questo punto, rimosse le pregiudiziali, sarà il merito delle proposte a definire il quadro delle possibili convergenze. Due sono gli ostacoli che mi pare si frappongano ad un'intesa tra Pd e M5S. Il primo ostacolo riguarda il nesso tra la riforma elettorale (che riguarda la sola Camera dei Deputati) e la riforma costituzionale, che riguarda il rapporto tra lo Stato e le regioni e le autonomie locali, nonché la composizione e le competenze del Senato. In questo momento, a Palazzo Madama, si sta discutendo della seconda (la riforma costituzionale) e solo dopo aver approvato questa in prima lettura si riaprirà il dossier riforma elettorale. Ma perché allora il M5S ha aperto a Renzi sulla riforma elettorale, di cui si parlerà in Senato, nella migliore delle ipotesi, nella seconda metà di luglio (ma più verosimilmente in settembre), mentre ha deciso di non dire nulla sulla riforma costituzionale, che da settimane è all'attenzione della Commissione Affari costituzionali e, dai primi di luglio, lo sarà dell'aula di Palazzo Madama? Al momento una risposta a questa domanda non c'è. Ma è chiaro che Grillo e i suoi parlamentari non possono pensare di opporsi duramente alla riforma costituzionale e poi rientrare nei binari del confronto su quella elettorale. Sulla riforma costituzionale dovremmo essere vicini ad un accordo largo, per una correzione del testo-base presentato dal governo, in due direzioni: da un lato, una più chiara riaffermazione del principio di sussidiarietà nel rapporto tra Stato, regioni e autonomie locali, scongiurando o almeno attenuando i rischi di un rigurgito neo-centralista e anti-autonomistico; dall'altro, una riforma del Senato sul modello del Bundesrat tedesco, l'unica "seconda Camera" che ha un ruolo, parziale e limitato, ma vero: quello di rappresentare le autonomie, a cominciare dalle regioni, e di coinvolgerle nel procedimento legislativo. Un obiettivo da sempre impresso nel DNA del centrosinistra, fin dai tempi delle tesi dell'Ulivo di Romano Prodi (1995) e rilanciato ora con grande forza da Matteo Renzi. E fallito invece il tentativo, da parte dei 14 senatori "autosospesi" del Pd (da Chiti a Mineo, da Mucchetti a Casson), di dar vita ad una maggioranza volta a mantenere un Senato, come l'attuale, eletto direttamente dai cittadini. Sia la Lega che Forza Italia sembra vogliano concorrere attivamente ad un esito positivo dello sforzo riformatore di Renzi e della maggioranza che lo sostiene. Non è ancora chiaro invece cosa intendano fare i gril-lini. Vedremo nei prossimi giorni.
L'altro ostacolo, tutt'altro che facile da superare, riguarda la riforma elettorale come tale. La proposta avanzata dal
M5S ha un impianto nettamente proporzionale, appena temperato dalla previsione di soglie di accesso circoscrizionali (cioè non nazionali), variabili tra il 3 e il 5 per cento. È dunque un sistema, certamente del tutto legittimo, che tuttavia non solo non garantisce, ma rende assai improbabile il formarsi nel voto di una maggioranza in grado di governare stabilmente. Al contrario, il testo approvato dalla maggioranza di governo e da Forza Italia alla Camera e ora all'esame del Senato, il cosiddetto "Italicum", ha senza dubbio molti difetti, ma grazie al premio di maggioranza, assegnato al primo o al secondo turno, garantisce che la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto e chi ha perso, chi governerà e chi starà all'opposizione. Questo è un punto, per così dire, "non negoziabile" per il Pd: perché è un preciso interesse del paese. Dunque vedremo, quando il confronto sulla legge elettorale rientrerà nel vivo, se il M5S accetterà il confronto sulla base dell'Italicum, per quanto da correggere e migliorare, o se invece le posizioni dei democratici e quelle dei grillini torneranno a dimostrarsi incompatibili.