«Spero si fermino sull'orlo del burrone...». Giorgio Tonini, vicecapogruppo del Pd, si appella a Mineo e agli altri dissidenti: «A Pd non può caricarsi della responsabilità storica tremenda di far fallire il governo Renzi, dopo il gigantesco carico di speranza che ha suscitato negli italiani».
Pensa che gli autosospesi vogliano far saltare il banco?
«Non vedo proporzione tra il danno che si rischia di fare e la materia del contendere. È una follia mettere in discussione l'unità del gruppo e del Pd per una questione secondaria, che attiene alla disciplina e non alla libertà di coscienza. Di fronte alle sfide enormi che il governo sta affrontando, ci dividiamo sul Senato eletto alla spagnola o alla francese?».
La situazione del Paese giustifica la sostituzione di Mineo?
«Parlano di epurazione, ma qui nessuno è stato cacciato da nulla. Mineo ha votato in maniera difforme e poiché siamo alla vigilia di un passaggio decisivo, le prime votazioni sugli emendamenti, il partito ha il diritto di sapere se in commissione c'è la maggioranza oppure no. Al Senato i numeri sono risicati, ognuno ha in mano la chiave per far saltare tutto».
Per Mineo i numeri non ci sono.
«Con la sua sostituzione, i numeri ci sono. E siccome si deve fare un accordo più ampio, un conto è andare al confronto con Berlusconi forti di una maggioranza autosufficiente, altra cosa è chiedere i voti a Forza Italia col cappello in mano. Trovo singolare che proprio coloro che accusano Renzi di eccessive aperture a Berlusconi stiano lavorando per indebolire il Pd davanti ai nostri interlocutori».
L'ipotesi espulsione esiste?
«Noi non cacciamo nessuno. Loro si sono autosospesi e spero chiariscano cosa voglia dire. Mineo ha deciso di fare della sua presenza in dissenso in Commissione uno strumento di battaglia politica ed è stato quindi giorni sui giornali da par suo. Il caso andava risolto e si è trovato un escamotage».
Per Lotti, Mineo ha tradito.
«A me non piacciono queste parole forti, né condivido l'idea di decisioni disciplinari. In questo assomiglio a Zanda, credo nella mediazione e mi considero un allievo ideale di Aldo Moro. Ma la pazienza a un certo punto finisce. Dopo 15 assemblee di grappo a discutere di Senato, si tira una linea e chi è in dissenso si adegua. Lo dice uno che è stato quasi sempre in minoranza e al quale non è mai passato per l'anticamera del cervello di sfasciare l'unità».
Il Pd rischia la scissione?
«E merito non giustifica una posizione così dura e incongrua, contro la maggioranza del gruppo e contro il governo, quindi non posso che rubricare la vicenda come un episodio di lotta politica contro il premier. Una parte del grappo e del Pd è contro le riforme e intende opporsi con tutti i mezzi. È bene chiamare le cose col loro nome».
Gli autosospesi si appellano al regolamento del gruppo e impugnano l'articolo 67 della Costituzione.
«Il regolamento prevede la libertà di coscienza nel voto in assemblea, non in commissione, sui principi della Costituzione. Dunque non è questo il caso. L'articolo 67 poi non c'entra niente, perché garantisce al parlamentare che nessuno possa revocarne il mandato. Ma non è scritto da nessuna parte che i membri delle commissioni sono inamovibili».
Vede una relazione con i franchi tiratori alla Camera sulla giustizia?
«Non credo ai complotti. Ma se nel voto non ci si adegua tutti alla linea che prevale, i partiti non riescono a stare insieme. Se davanti a una crisi storica in Europa facciamo saltare tutto sulle modalità di elezione dei senatori, gli italiani ci rincorrono coi forconi e ci portano tutti in manicomio».
Monica Guerzoni