Apr
19
2014
Il pareggio non è un atto di onestà
Articolo pubblicato su "Europa"

"Andare a Bruxelles e battere i pugni sul tavolo". Era questa la sfida che, fino a poche ore fa, gli oppositori euroscettici, Renato Brunetta in testa, lancia­vano al governo Renzi. Con l'ovvio sottinteso che il ragazzo non avrebbe avuto né il fegato né il fi­sico per farlo. Sarebbe bastata un'occhiataccia di Frau Merkel e si sarebbe afflosciato come un sacco vuoto. E invece, senza battere pu­gni, ma con una inedita miscela di grinta e serietà, il duo Renzi-Padoan ha dimostrato che cominciare a cambiare verso, anche al rap­porto tra Italia ed Europa, si può. Si può, ad esempio, concordare che non è la fine del mondo se all'obbiettivo di medio termine, il pareg­gio strutturale di bilancio, l'Italia ci arriva nel 2016 anziché nel 2015: perché ci sono motivazioni robuste per farlo (la più grave recessione dalla fine della seconda guerra mondiale) e altrettanto robusti af­fidamenti che lo scostamento sarà prontamente riassorbito, grazie ad un corposo e credibile programma di riforme strutturali.

Fossero gente intellettualmente onesta, i vari sbatti­tori di pugni (altrui) sui tavoli di Bruxelles, ammet­terebbero che il governo ha segnato un bel gol. Ma sicco­me sono quello che sono, hanno prontamente gettato alle ortiche la casacca dei difensori degli interessi nazionali in Europa, per rivestire, con una velocità che avrebbe im­pressionato il grande Fregoli, i panni dei difensori dell'or­todossia europea. Cosa aspetta l'Europa, si sono messi a dire, a venire a battere i pugni sul tavolo di Quintino Sella a via XX settembre?

Pier Carlo Padoan aprendo il dibattito ed Enrico Morando chiudendolo hanno spiegato ieri a Palazzo Ma­dama che il governo non ha fatto altro che dare seguito agli impegni assunti da Matteo Renzi in parlamento e ri­petuti in tutte le sedi e le occasioni: stare dentro le regole europee, in attesa di poterle cambiare, sfruttando al massimo gli spazi di flessibilità previsti dalle regole stes­se, quelle europee e quelle italiane, a cominciare dall'ar­ticolo 81 della Costituzione.

Sarà il caso di rileggerlo, quell'articolo, nella nuova versione, approvata nel 2012, chiesta per decenni da Ni­no Andreatta ed entrata nella nostra Carta grazie alla spinta del governo Monti e del fiscal compact. «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», si legge nel primo comma. Che però, contra­riamente a quanto pensano i suoi mille detrattori, non fi­nisce lì, ma così prosegue: «Tenendo conto delle fasi av­verse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». Dun­que, il pareggio non è né rigido né stupido, non è affatto quella «camicia di forza che soffocherà l'Italia», di cui parlano, a sproposito, i suoi tanti avversari, a destra co­me a sinistra. Il pareggio prescritto dall'art. 81 della Costítuzione è, come dicono i tecnici della materia, un pa­reggio "strutturale" e non "nominale": e strutturale vuol dire, in questo caso, "smart", flessibile e intelligente, ca­pace di trasformarsi addirittura in avanzo, vincolo all'avanzo di bilancio, nelle fasi di crescita dell'economia; e di tollerare un certo ricorso all'indebitamento nelle fasi bas­se, quando l'economia ristagna o addirittura arretra.

Lo spiega in modo del tutto chiaro il secondo com­ma: «Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa au­torizzazione delle camere adottata a maggioranza asso­luta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi ec­cezionali». Questo è precisamente ciò che è accaduto ieri in parlamento: in sede di discussione e votazione sul Def (il documento di economia e finanza che annualmente il­lustra gli obiettivi eli politica economica dell'esecutivo), il governo ha chiesto e ottenuto dalle camere l'autorizza­zione ad un modesto margine di indebitamento, motiva­to dalla eccezionale gravità del ciclo e dalla necessità as­soluta di mettere in campo politiche anticicliche, cioè per la crescita e l'occupazione: come la pronta restituzio­ne alle imprese dei debiti delle pubbliche amministrazio­ni, o la doppia riduzione della abnorme tassazione italia­na sul lavoro e sull'impresa, attraverso i primi dieci mi­liardi di sgravio Irpef ai lavoratori (i famosi 80 euro al mese) e i primi due miliardi di sgravio Irap.

Sulla base dei fiscal compact, la procedura prevista dall'articolo 81 vale anche come richiesta di autorizza­zione alla Commissione - attenzione! - non di aumento del deficit, ma di allungamento di un anno dei termini temporali per il raggiungimento del pareggio. Natural­mente. anche in sede europea, le motivazioni dello sco­stamento dall'obiettivo di medio termine devono essere forti (e chi potrebbe negare che per l'Italia lo siano?), come forti devono essere le garanzìe che l'obiettivo sarà co­munque centrato nel 2016.

Le garanzie che può dare l'Italia hanno due nomi: riforme (a cominciare da quelle istituzionali), per rendere
più leggero, dinamico ed efficiente il nostro sistema pae­se; e spending review, dalla quale il governo conta di rica­vare, dal 2016, almeno una trentina di miliardi di euro annui di risparmio. Ecco spiegato perché Renzi, il suo governo e il suo partito devono (dobbiamo) riuscire a fare non solo bene, ma anche presto.           

0 commenti all'articolo - torna indietro

(verrà moderato):

:

:

inizio pagina