"Andare a Bruxelles e battere i pugni sul tavolo". Era questa la sfida che, fino a poche ore fa, gli oppositori euroscettici, Renato Brunetta in testa, lanciavano al governo Renzi. Con l'ovvio sottinteso che il ragazzo non avrebbe avuto né il fegato né il fisico per farlo. Sarebbe bastata un'occhiataccia di Frau Merkel e si sarebbe afflosciato come un sacco vuoto. E invece, senza battere pugni, ma con una inedita miscela di grinta e serietà, il duo Renzi-Padoan ha dimostrato che cominciare a cambiare verso, anche al rapporto tra Italia ed Europa, si può. Si può, ad esempio, concordare che non è la fine del mondo se all'obbiettivo di medio termine, il pareggio strutturale di bilancio, l'Italia ci arriva nel 2016 anziché nel 2015: perché ci sono motivazioni robuste per farlo (la più grave recessione dalla fine della seconda guerra mondiale) e altrettanto robusti affidamenti che lo scostamento sarà prontamente riassorbito, grazie ad un corposo e credibile programma di riforme strutturali.
Fossero gente intellettualmente onesta, i vari sbattitori di pugni (altrui) sui tavoli di Bruxelles, ammetterebbero che il governo ha segnato un bel gol. Ma siccome sono quello che sono, hanno prontamente gettato alle ortiche la casacca dei difensori degli interessi nazionali in Europa, per rivestire, con una velocità che avrebbe impressionato il grande Fregoli, i panni dei difensori dell'ortodossia europea. Cosa aspetta l'Europa, si sono messi a dire, a venire a battere i pugni sul tavolo di Quintino Sella a via XX settembre?
Pier Carlo Padoan aprendo il dibattito ed Enrico Morando chiudendolo hanno spiegato ieri a Palazzo Madama che il governo non ha fatto altro che dare seguito agli impegni assunti da Matteo Renzi in parlamento e ripetuti in tutte le sedi e le occasioni: stare dentro le regole europee, in attesa di poterle cambiare, sfruttando al massimo gli spazi di flessibilità previsti dalle regole stesse, quelle europee e quelle italiane, a cominciare dall'articolo 81 della Costituzione.
Sarà il caso di rileggerlo, quell'articolo, nella nuova versione, approvata nel 2012, chiesta per decenni da Nino Andreatta ed entrata nella nostra Carta grazie alla spinta del governo Monti e del fiscal compact. «Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio», si legge nel primo comma. Che però, contrariamente a quanto pensano i suoi mille detrattori, non finisce lì, ma così prosegue: «Tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». Dunque, il pareggio non è né rigido né stupido, non è affatto quella «camicia di forza che soffocherà l'Italia», di cui parlano, a sproposito, i suoi tanti avversari, a destra come a sinistra. Il pareggio prescritto dall'art. 81 della Costítuzione è, come dicono i tecnici della materia, un pareggio "strutturale" e non "nominale": e strutturale vuol dire, in questo caso, "smart", flessibile e intelligente, capace di trasformarsi addirittura in avanzo, vincolo all'avanzo di bilancio, nelle fasi di crescita dell'economia; e di tollerare un certo ricorso all'indebitamento nelle fasi basse, quando l'economia ristagna o addirittura arretra.
Lo spiega in modo del tutto chiaro il secondo comma: «Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Questo è precisamente ciò che è accaduto ieri in parlamento: in sede di discussione e votazione sul Def (il documento di economia e finanza che annualmente illustra gli obiettivi eli politica economica dell'esecutivo), il governo ha chiesto e ottenuto dalle camere l'autorizzazione ad un modesto margine di indebitamento, motivato dalla eccezionale gravità del ciclo e dalla necessità assoluta di mettere in campo politiche anticicliche, cioè per la crescita e l'occupazione: come la pronta restituzione alle imprese dei debiti delle pubbliche amministrazioni, o la doppia riduzione della abnorme tassazione italiana sul lavoro e sull'impresa, attraverso i primi dieci miliardi di sgravio Irpef ai lavoratori (i famosi 80 euro al mese) e i primi due miliardi di sgravio Irap.
Sulla base dei fiscal compact, la procedura prevista dall'articolo 81 vale anche come richiesta di autorizzazione alla Commissione - attenzione! - non di aumento del deficit, ma di allungamento di un anno dei termini temporali per il raggiungimento del pareggio. Naturalmente. anche in sede europea, le motivazioni dello scostamento dall'obiettivo di medio termine devono essere forti (e chi potrebbe negare che per l'Italia lo siano?), come forti devono essere le garanzìe che l'obiettivo sarà comunque centrato nel 2016.
Le garanzie che può dare l'Italia hanno due nomi: riforme (a cominciare da quelle istituzionali), per rendere
più leggero, dinamico ed efficiente il nostro sistema paese; e spending review, dalla quale il governo conta di ricavare, dal 2016, almeno una trentina di miliardi di euro annui di risparmio. Ecco spiegato perché Renzi, il suo governo e il suo partito devono (dobbiamo) riuscire a fare non solo bene, ma anche presto.