Mar
26
2014
Senato, o si riforma o si blocca la politica riformista
Articolo pubblicato su "Europa"

Non deve meravigliare che I Angela Merkel, nei suoi col­loqui con Matteo Renzi sull'a­genda del governo italiano, abbia mostrato più interesse per le ri­forme istituzionali che per quel­le economiche. In effetti la cancelliera ha dimostrato di saper andare al punto vero della crisi italiana, che è crisi della politica, è crisi dello Stato, molto prima e più che crisi economica; ed è an­zi crisi economica, in gran parte come conseguenza della crisi po­litica e istituzionale.

Se confrontiamo l'Italia con gli altri quattro malati d'Europa (Spa­gna, Portogallo, Irlanda e Grecia), vediamo infatti che nessuno di es­si, nemmeno la Spagna, possiede una struttura produttiva e un livel­lo di reddito, per non dire di risparmio e di patrimonio, paragonabili a quelli italiani. Ma vediamo anche che l'Italia è il paese messo di gran lunga peggio sul piano politico-istituzionale: legge elettorale, bi­cameralismo e sistema dei partiti non solo non consentono il formar­si di maggioranze di governo chia­re e stabili, perché legittimate dal voto popolare, ma sono oggi tutti e tre variamente delegittimati; un anziano presidente della repubbli­ca è stato costretto, suo malgrado, ad una prolungata e logorante sup­plenza; la Corte costituzionale è ingolfata da un impressionante contenzioso tra organi dello Stato, a cominciare da quello tra il gover­no e le regioni; in luogo della leale collaborazione, i rapporti tra ma­gistratura e politica vedono un continuo sconfinamento, da ambo le parti, con effetti disastrosi sulla condizione della giustizia e delle carceri; un terzo del paese è con­trollato dalle mafie, con gravi infil­trazioni nel resto del territorio nazionale; lì'amministrazione fisca­le risulta tanto oppressiva nei ri­guardi della generalità degli opera­tori economici, quanto inefficace nel contrasto all'evasione e al lavo­ro nero, che presentano in Italia caratteristiche endemiche; più in generale, un sistema pubblico pe­sante e costoso, che da solo drena metà del prodotto nazionale (più di 800 miliardi di euro), offre ai cittadini istituti e servizi del tutto inadeguati alle esigenze di efficien­za economica e di giustizia sociale di unmoderno paese europeo, con­tribuendo in misura consistente al crescente divario tra istituzioni politiche e società civile.

Si tratta di una situazione di vera e propria emergenza istituzionale, per non dire democratica, sconosciuta in queste dimensioni in tutto il resto d'Europa: ovunque la politica è in affanno, ma solo in Italia la crisi politica si salda ad una precarietà istituzionale così grave e pericolosa. Credo abbia dunque ragioni da vendere il presidente del consiglio nel voler imprimere mia forte accelerazione nel percorso di riforma dello Stato, che è stato fin qui lento e inconcludente.

E penso abbiano invece torto quanti, anche nel Pd (penso tra gli altri a colleglli stimati come Walter Tocci o Miguel Gotor), lamentano inaccettabili ricatti del governo sull'autonoma elaborazione del parlamento, per di più caratterizzati (i presunti ricatti) da "plebeismo" istituzionale, quando legano le riforme al tema dei costi della politica. Manca a mio avviso, nelle posizioni espresse da questi colleghi, la piena e realistica considerazione della drammaticità della condizione italiana e dell'urgenza di procedere a significativi interventi sulla struttura delle istituzioni e dei corpi dello Stato.

Renzi ha individuato giustamente tre punti d'attacco nella sua strategia riformista che tanto ha impressionato i nostri partner europei. Il primo è una riforma elettorale che consenta il formarsi di una chiara indicazione di governo da parte degli elettori, attraverso un premio di maggioranza da assegnare al partito o alla coalizione che ottenga il maggior numero di voti al primo turno (ove raggiunga la soglia di almeno il 37 per cento) o al ballottaggio tra i primi due. E consenta al tempo stesso di ristabilire un rapporto diretto tra elettori ed eletti, superando l'anonimato delle liste lunghe e bloccate, in favore se non dei collegi uninominali, almeno di piccole circoscrizioni plurinominali. È vero, l'Italicum approvato dalla camera, con tutto quel complesso intreccio di premi e soglie, non è mia legge bella da vedere. Molto meglio sarebbe stato sottoscrivere con Forza Italia un compromesso più alto, basato sull'adozione integrale del sistema francese: semipresidenzialismo e doppio turno di collegio. Ma nell'impossibilità, in gran parte dovuta all'insufficiente livello di maturazione interno al Pd, di procedere in questa direzione, l'Italicum resta una legge brutta, ma buona: un netto passo in avanti, sia rispetto al Porcellum affondato dalla Corte costituzionale, sia rispetto al sistema elettorale oggi vigente, quale è scaturito dalla sentenza della Consulta: proporzionale con soglia e preferenze in grandi circoscrizioni, col doppio effetto di non offrire  e alcuna speranza di governabilità, in cambio dell'amara certezza di una selezione dei parlamentari affidata alla loro capacità di mobilitare risorse immense.

E tuttavia, l'Italicum potrà funzionare solo in presenza di una riforma del bicameralismo, che assegni alla sola camera dei deputati il potere di fiducia e sfiducia al governo; che superi definitivamente l'elezione diretta dei senatori (e dunque anche il loro diritto ad un'indennità); e faccia del senato, come ha auspicato di recente il presidente Silvestri, rammentando l'insostenibile contenzioso pendente davanti alla Corte costituzionale, la camera di raccordo tra il potere legislativo dello Stato e quello delle regioni, sul modello dell'unica "seconda camera" che in Europa ha un qualche ruolo e peso, limitato, ma effettivo: il Bundesrat tedesco.

La riforma del senato è dunque il nodo centrale della battaglia riformista e di Renzi: bloccare la riforma del senato significherebbe infatti bloccare anche la riforma elettorale, condannando l'Italia a restare nell'attuale, pericolosissima, crisi eli sistema. E significherebbe anche rendere poco sostenibile il terzo punto d'attacco di Renzi, la strategia della spending review, che se si vuole che produca i risultati in termini di riduzione della spesa pubblica che sono auspicabili e necessari, comporta la ristrutturazione di interi comparti (e corpi) dello Stato: una strategia impossibile per una classe politica che abbia fallito l'obiettivo di riformare in profondità le istituzioni politiche del paese, a cominciare dal parlamento.

E' duncjue necessario e urgente che cresca rapidamente la consapevolezza del carattere decisivo e ineludibile della riforma del senato. Innanzi tutto tra noi senatori, che abbiamo sulle nostre spalle una responsabilità storica: della quale potremo andare fieri, o invece dovremo chiedere scusa agli italiani.

 

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